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« inserito:: Agosto 06, 2008, 11:04:51 pm » |
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Il nome della Festa
Ugo Sposetti
Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito.
Gabriel Garcìa Màrquez
Una settimana fa ho ricevuto, via sms da Bologna, la seguente notizia: i compagni di Filo d’Argenta, non proprio entusiasti del cambiamento del nome della loro festa, hanno deciso di rifarsi erigendo una torre alta 15 metri, che sostiene una bandiera rossa di 6 metri per 4. Leggendo quanto ha di recente affermato Tonini, sulla opportunità di elaborare una nuova liturgia politica attraverso la cancellazione del tradizionale comizio di chiusura della Festa nazionale di settembre - sostituito dalla conferenza conclusiva della summer school del PD - mi è tornato in mente quel messaggio così breve, eppure così denso di storia e di simboli. Certe memorie, una volta accese, non si fermano facilmente. E così mi sono ricordato di un vecchio saggio, scritto oltre 30 anni fa da un illustre storico americano, David Kertzer, giunto a Bologna nel 1972 da giovane ricercatore per condurre nel quartiere Lame una ricerca sul conflitto rituale tra comunisti e cattolici, tra l’altro con l’aiuto di Arturo Parisi. Secondo lui, la Festa de l’Unità «è il simbolo della solidarietà comunitaria, il momento dell’anno in cui tutta la comunità si riunisce e si vede insieme a mangiare alla stessa tavola. (...) Le barriere sociali comuni dell’età, del sesso e della condizione socio-economica vengono infrante in queste occasioni. (...) Per accrescere l’influenza del Pci serve molto di più una festa che non una dozzina di convegni pubblici per spiegare le proposte del partito sulle pensioni, le case o l’ordine pubblico».
Questi ricordi e tanti altri elementi di riflessione mi spingono oggi a ragionare sul significato della Festa, cercando di andare oltre polemiche di corto respiro. Quali sono le radici storiche, gli elementi caratterizzanti del fenomeno Festa de l’Unità?
La festa politica moderna - è noto - nasce con la rivoluzione francese, con la necessità di sostituire la celebrazione simbolica del potere monarchico con quella della sovranità popolare. Diverse sue caratteristiche definiscono un modello destinato a lasciare tracce profonde: la parata con i carri allegorici, il comizio, la funzione pedagogica e quella ricreativa; il mangiare insieme, simbolo potente di solidarietà e condivisione.
In Italia ritroviamo molti di questi elementi già nelle forme della socialità popolare che accompagnano la nascita e l’espansione del movimento operaio e contadino, dai festeggiamenti del 1° Maggio alle case del popolo.
Il fascismo distrugge scientificamente ogni forma di socializzazione spontanea, e vi sostituisce le sue feste, i suoi simboli e riti obbligatori, rigidamente definiti dall’alto, funzionali alla pedagogia dello stato totalitario. All’indomani della Liberazione, essendo il Pci all’inizio di una rapidissima trasformazione in un grande partito di massa, Togliatti affronta la questione del ruolo delle sezioni. Insistendo sulla loro funzione non solo politica ma anche sociale, le definisce come «centri della vita popolare», luoghi aperti a tutti, ove deve essere garantita anche «la possibilità di divertirsi se questo è necessario». Addirittura divertirsi, se proprio è necessario.
E lo era, nel 1945. Nell’Italia dilaniata dalla guerra, le prime Feste de l’Unità incontrarono subito il sentire del popolo italiano, ancora sofferente per le conseguenze devastanti della dittatura fascista ma ansioso di vivere finalmente alla luce del sole, finalmente libero dal terrore dei bombardamenti. Parliamo dunque di una storia lunga più di 60 anni, che affonda le radici nei primi stand de l’Unità ospitati in esilio a Parigi alle feste de l’Humanité, durante il ventennio. Una storia che ha coinvolto milioni di persone, dall’operaio al contadino, dall’imprenditore all’antropologo. Una storia che non riguarda certamente solo il Pci: i festival de l’Avanti!, quelli dell’Amicizia, sia pure probabilmente con minor impatto in termini di visibilità e longevità, testimoniano come la festa politica sia inestricabilmente connessa allo sviluppo della democrazia e della partecipazione politica di massa. Nel 1945, dunque, nascono le prime esperienze, concentrate prevalentemente nel nord Italia. Le testimonianze delle primissime feste, quella di Mariano Comense o la parata sul Canal Grande a Venezia, ci parlano di un popolo in festa, di un entusiasmo che spesso travolge le aspettative degli stessi organizzatori. La funzione politica della festa è evidente e si sviluppa su diversi piani: cementare l’appartenenza dei militanti al partito, rafforzare la coscienza di classe dei lavoratori attraverso una pedagogia politica che lavora in profondità, ma anche e soprattutto “invadere” pacificamente la sfera pubblica, mostrare chi sono questi “pericolosi comunisti”, parlare a tutta la società. Il fatto che quel luogo, quell’evento è il frutto spontaneo della dedizione di lavoratori che per crearlo hanno rinunciato al tempo libero (poco) e dimenticato la fatica (molta), ha un impatto molto forte.
Fin dall’inizio, e per diversi anni, la festa si apre con il corteo che attraversa la città, spesso animato da carri allegorici, balli tradizionali e, ovviamente, bandiere e fazzoletti rossi ovunque. Dentro la festa i murales - dipinti spesso da grandi artisti che anziché essere ospitati dalla festa la costruiscono, militanti fra i militanti - assumono un ruolo importante come strumento di informazione e formazione politica elementare, e come potente mezzo di identificazione emotiva con la causa dei lavoratori.
Nel settembre 1949 - un anno difficile dopo la sconfitta del 1948, l’attentato a Togliatti, la scomunica del Sant’Uffizio - Luigi Longo traccia un bilancio delle prime esperienze, dal quale emerge una piena consapevolezza del valore politico delle feste. Nessuno spazio all’orgoglio delle federazioni: «una festa per ogni sezione» non solo non è uno slogan, afferma Longo, neppure è un obiettivo sufficiente, perché occorre «garantire dappertutto almeno una bicchierata, una conversazione». La sua preoccupazione è che non sia stata compresa la «necessità di condurre, dato il carattere popolare delle feste e le possibilità che ci offrono di prendere contatto con nuovi strati di popolazione, un’azione di propaganda semplice, di tipo evangelico». Le feste de l’Unità nell’Italia post-bellica, dunque, assumono un carattere nettamente nazional-popolare, e incontrano un successo immediato: in pochissimi anni anche il cinegiornale le definisce un evento «ormai tradizionale». Un fenomeno complesso, vitale, aperto al cambiamento dello scenario politico, culturale e sociale, e a sua volta fattore di innovazione. Ma non sottovalutiamo che per 60 anni le feste sono state una insostituibile fonte di finanziamento del Partito e dei suoi strumenti di comunicazione. È con i ricavi delle feste che si costruiscono sedi e case del popolo. Le feste permettono di recuperare lo spazio pubblico, cui viene restituita dignità e vivibilità. Questa caratteristica strutturale si sviluppa ulteriormente negli anni ‘70, quando il Pci raggiunge i vertici del consenso popolare e conquista le amministrazioni delle grandi città. La festa nazionale di Roma del 1972, sulla quale Ettore Scola ha girato un cortometraggio splendido, rappresenta uno dei momenti di svolta, insieme a quella di Venezia, che trasforma il centro della città come nessuno osava immaginare, e quella del 1976, a Napoli, dove un oceano di gente invade l’arena dei campi flegrei, restituita alla città dopo decenni di abbandono e degrado, per ascoltare Enrico Berlinguer. E che dire di Pesaro 2007 quando la festa viene organizzata nelle vie, nelle piazze del centro storico. È un successo!
La festa cambia senza snaturarsi, fa convivere le tradizioni popolari con le avanguardie artistiche, i grandi concerti pop con le mostre, il teatro, i dibattiti. Gli anni ‘80 sono affollati di “feste tematiche” che toccano molti rami dello scibile. Tra le tante, si può ricordare una festa della Figc nel 1986 a Napoli dedicata all’Africa, che vide anche la partecipazione di Wole Soyinka, di lì a pochi mesi vincitore del premio Nobel per la letteratura.
Ma è meglio fermarsi qui, le vicende recenti sono note ai più. Ho voluto ripercorrere panoramicamente questa storia perché è affascinante, è carne e sangue della Repubblica Italiana. E anche perché contiene tracce di futuro. Tra queste, la ricchezza di un’esperienza di partecipazione politica di base e di socializzazione comunitaria che si rinnova ogni anno tanto nel paesino quanto nella metropoli. E in questi ultimi anni le Feste de l’Unità sono tornate a crescere, non solo nei grandi numeri di quelle nazionali, ma anche nei quartieri e nei paesi. Vuol dire che altre migliaia di giovani si sono avvicinati alla politica attraverso un modello antico e insieme moderno, dato che viene riproposto in tante esperienze diverse fra loro.
All’inizio degli anni ‘60 i compagni bolognesi, ansiosi di manifestare a Jurij Gagarin il loro appoggio incondizionato, costruirono una torre alta 30 metri che sorreggeva un “modellino” di 5 metri di diametro, fedele riproduzione dello Sputnik. Non me ne voglia Tonini, e soprattutto non me ne vogliano i compagni di Filo d’Argenta, ma direi che stavolta gli è andata bene.
Come ha scritto Zangheri presentando un bel volume curato da Baravelli, «ai giovani spetta ora un compito: conservare e sviluppare queste promesse di convivenza civile». Per questo voglio solo affermare un concetto elementare: i nomi si possono cambiare, in tanti modi e per diversi motivi.
L’importante è conoscerne il significato.
Pubblicato il: 06.08.08 Modificato il: 06.08.08 alle ore 12.06 © l'Unità.
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