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Autore Discussione: Ferdinando Targetti. Dieci domande sul Wto  (Letto 2468 volte)
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« inserito:: Agosto 06, 2008, 11:05:59 pm »

Dieci domande sul Wto

Ferdinando Targetti


Gli avvenimenti che hanno portato di recente al fallimento del cosiddetto «Doha Round» meritano una riflessione che vada oltre la cronaca. Proviamo a farlo attraverso una serie di domande.

1. Cosa è il Wto? Nel 1947, 23 Paesi firmarono un accordo (Gatt) per la riduzione di dazi doganali sull’importazione di beni agricoli e industriali. Nel 1995, 123 paesi decisero di trasformare questo accordo nella Organizzazione Mondiale per il Commercio (Wto) che incorporò il Gatt e altri accordi. Questa organizzazione venne dotata di una struttura e di una procedura giurisdizionale con l’obiettivo di operare affinché gli scambi commerciali internazionali fossero equi, liberi, prevedibili e ordinati. Il Wto vigila sul rispetto degli accordi, è assise per definire nuovi accordi ed è il luogo per dirimere le controversie. Oggi vi hanno aderito 153 Stati.

2. Quali i princìpi? Il principio della multilateralità ha un grande valore perché offre molte più garanzie ai Paesi piccoli.

Negli accordi bilaterali tra un Paese grande e uno piccolo, infatti, la forza contrattuale del Paese grande è molto maggiore che nel caso in cui esso si trovi a dover definire un accordo che vale per tutti i Paesi. Il principio fondamentale del Wto è quello della “nazione più favorita” che assicura che venga riservato lo stesso trattamento ai beni prodotti sul territorio e a quelli importati e assicura che sia esteso a tutti i partner commerciali gli stessi benefici che si danno a quelli con cui si raggiungono gli accordi (principio di non discriminazione). Nella definizione degli accordi per la riduzione delle barriere vengono definiti dei tetti massimi alle restrizioni, alle quali i Paesi possono ricorrere senza infrangere gli accordi (detti dazi consolidati).

3. Quali i risultati? Il Gatt prima e il Wto poi hanno ottenuto rilevanti successi. Nei Paesi sviluppati i dazi medi sui beni manufatti si aggirano oggi sul 4%. In molti settori i dazi sono nulli, mentre in alcuni settori sussistono ancora dazi con picchi del 10% verso i Paesi in via di sviluppo (Pvs). I Pvs sono partiti con economie molto chiuse e hanno cominciato a liberalizzare con prudenza a partire dagli anni ‘80. Il numero di beni con dazi è molto inferiore a quello dei Paesi sviluppati, il livello dei dazi molto maggiore e la dispersione tra beni e paesi molto ampia. Tuttavia la volontà di liberalizzare è dimostrata dai dazi effettivi spesso molto più bassi di quelli consolidati. Parallelamente alla riduzione di dazi e sussidi il volume del commercio internazionale è cresciuto costantemente e la quota del commercio dei Paesi sviluppati si è fortemente ridotta rispetto a quella dei Paesi emergenti.

4. Quale governance? Il Wto si basa su un sistema di regole più che sui rapporti di forza tra i membri ed è per questo motivo che è considerata l’organizzazione più democratica tra le istituzioni economiche internazionali. Ognuno dei 153 Paesi ha un voto e ogni voto ha lo stesso peso. Ovviamente sarebbe ingenuo pensare che tutti i membri siano in una stessa posizione di forza. Tuttavia quello che si è visto in questi giorni dimostra che le tradizionali leadership dell’Europa e degli Stati Uniti sono state ridimensionate con l’ingresso dei grandi paesi emergenti i quali hanno, con il passare del tempo, dimostrato una capacità negoziale rilevante. La governance del Wto mostra tuttavia che esiste un grave limite nelle procedure, che implicano tempi lunghissimi per arrivare a nuovi accordi; trovare il consenso è diventato sempre più difficile.

5. Quali i principali conflitti tra i Paesi membri? I temi cruciali nei rapporti tra paesi sviluppati e Pvs è rappresentato dalle politiche agricole e dagli accordi sulla liberalizzazione dei servizi. Malgrado che tra il 2000 ed oggi le politiche agricole di Usa e Ue si sono evolute, il livello di protezione dei Paesi avanzati (Ue, Usa, Canada, Corea, Giappone, Norvegia) è rimasto elevato. Ciò ha favorito la sovraproduzione di prodotti agricoli nei Paesi protetti, ha depresso per un lunghissimo periodo il prezzo internazionale di questi beni (e quindi gli investimenti sulle terre) e ha impedito la crescita di esportazione e reddito dei produttori del Sud del mondo. Per altro verso i Pvs hanno mantenuto protezioni alle industrie nazionali per timore che una penetrazione massiccia di importazioni dai Paesi sviluppati dotati di più alto livello tecnologico nella manifattura e di posizioni di forza a livello internazionale nei servizi impedisse lo sviluppo della nascente industria domestica. La ragione spesso è fondata, ma la protezione di fatto risulta non rivolgersi solo verso i Paesi sviluppati, ma anche verso altri Pvs, con il risultato di limitare l’ampiezza dei mercati di sbocco agli stessi Pvs.

6. Perché l’importanza di Doha? Nel 2001 a Doha la quarta Conferenza ministeriale ha lanciato un nuovo round negoziale. Fu data molta importanza ai temi dello sviluppo al punto da chiamare il negoziato «Doha Development Agenda». Lo scopo era quello di dar luogo ad un grande scambio: ai paesi meno sviluppati non si chiedevano sforzi aggiuntivi se non il consolidamento delle tariffe ai livelli attuali; ai Paesi avanzati si chiedeva di ridurre le barriere verso i Pvs soprattutto nel settore agricolo; ai paesi emergenti (Cina, India e Brasile in primis) si chiedeva di contribuire in proporzione alle loro possibilità al processo di liberalizzazione degli scambi, riducendo i picchi tariffari nei settori industriali e in prospettiva a banche e assicurazioni. Altri accordi riguardavano nuovi terreni come i servizi, la tutela dell'ambiente, i diritti di proprietà e il ricorso a strumenti di protezione temporanea (che è stato il terreno di rottura dell’accordo).

7. Perché l’accordo si è rotto? In questi sette anni il «Doha round» aveva già assistito a incontri fallimentari e si nutrivano molte speranza che le cose andassero meglio nell’incontro di Ginevra di questo luglio, che tuttavia è, anch’esso fallito. I motivi di contrasto in questi round negoziali negli anni scorsi erano sempre dovuti a veti incrociati tra i Paesi industrializzati e gli emergenti su due questioni. Gli emergenti mettevano sotto accusa la politica agricola degli americani che pretendevano di mantenere i sussidi ai produttori agricoli di cotone e zucchero e degli europei che pretendevano una protezione più decisa dei propri marchi geografici. Gli Stati Uniti mettevano sotto accusa la politica daziaria industriale degli emergenti e della Cina in particolare: quest’ultima manteneva le protezioni da paese in via di sviluppo, mentre era diventato il maggiore e esportatore mondiale di manufatti (l’Unione Europea avrebbe ad esempio abbassato i dazi sulle auto di Cina e India dal 10 al 4,5%, mentre la Cina le avrebbe abbassate solo dal 25 al 18%). Ma il complesso negoziato di Ginevra si è arenato, dopo che con molta fatica, a detta del direttore generale del Wto (Pascal Lamy), 23 su 25 punti di discussione erano stati risolti, per una incapacità di trovare l’accordo tra il negoziatore americano (Susan Schwab) e il ministro dell’Industria indiano (Kamal Nath), sulla possibilità richiesta dall’India di alzare i dazi sui prodotti agricoli in caso di aumento delle importazioni per proteggere i propri contadini. Il ministro cinese (Cheng Deming) ha appoggiato la causa indiana, anche se il protezionismo indiano creava danni soprattutto ai Pvs esportatori di derrate alimentari. L’altro grande emergente il Brasile, generalmente a fianco dell’India, ha invece cercato con il suo ministro Celso Amorin, una mediazione fino all’ultimo. Va notato che l’Ue non ha giocato un ruolo di rilievo, non ultima ragione essendo l’autorità del negoziatore (Peter Mandelson) compromessa dalle critiche e dagli atteggiamenti miopi di Francia e Italia. Il Wto è l’unica sede in cui un rappresentante della Commissione parla a nome di tutta la Ue. Un successo del negoziato avrebbe rafforzato la volontà di gestione sovranazionale dell’Europa.

8. Quali le conseguenze immediate? L’accordo cui si era giunti nei giorni scorsi avrebbe prodotto, secondo i calcoli del Wto, 130 miliardi di minori dazi tariffari, i due terzi dei quali sarebbero andati a beneficio dei Pvs. L’effetto sul prodotto mondiale sarebbe stato però di non molto più dello 0,1%. La ragione di un impatto così limitato sta nel fatto, che per lo più la trattativa del Doha Round riguardava i dazi consolidati, quando in questi anni sia i Paesi sviluppati sia gli emergenti avevano ridotto i dazi effettivi in molti casi sotto il livello massimo consentito. Tuttavia il non ridurre le tariffe massime, può consentire fiammate protezionistiche, pur nel rispetto degli accordi del Wto. A trarre vantaggio di un mancato accordo sono i produttori di cotone degli Usa, i coltivatori di riso sudcoreani, gli allevatori di bovini irlandesi e di polli francesi; i produttori di auto europei e americani. A perderci molti agricoltori dell’America Latina; parte dell’industria manifatturiera cinese; il settore dei servizi (banche e assicurazioni) e le industrie chimiche e tessili dei Paesi sviluppati (per la mancata riduzione delle tariffe dei pvs).

9. Quali le conseguenze di più lungo periodo? È opinione diffusa che la pausa negoziale sarà lunga e che, malgrado i compromessi conseguiti su molti terreni, si dovrà ripartire da capo. I critici del Wto e della globalizzazione hanno poco da gioire dalla perdita di credibilità di questa istituzione. Il rischio che si corre, con l’ampliarsi dei conflitti tra i Paesi (anche tra Paesi emergenti e meno sviluppati), è quello di una perdita di fiducia nelle possibilità di accordi multilaterali, con la conseguenza di proliferare di accordi preferenziali regionali. Tra quelli oggi in vigore (211) e quelli firmati o in via di negoziazione (90) se ne contano circa 300. Questa proliferazione accentua la trasformazione dei conflitti commerciali in conflitti politici e riduce la capacità di soluzione delle controversie offerta dal Wto. La contemporanea crisi finanziaria internazionale dei mutui sub-prime e il fallimento degli accordi sugli scambi multilaterali del «Doha Round» ingenera preoccupazioni sul futuro dell’economia internazionale, come l’abbiamo conosciuta dopo Bretton Woods.

10. Che fare? La filosofia della liberalizzazione degli scambi non va abbandonata (anche se il suo appeal è ovunque in calo) e vanno superate le obiezioni, anche quelle rappresentate dalla necessità di introdurre standard di lavoro, poiché questi rappresentano spesso forma di protezioni nascoste. Per la tutela dei diritti dei lavoratori devono essere rafforzate altre istituzioni internazionali, come l’Organizzazione Internazionale per il Lavoro dell’Onu e le politiche nazionali di redistribuzione fiscale a favore dei perdenti nel processo di liberalizzazione degli scambi. Clausole limitative degli scambi possono essere introdotte solo riguardo la tutela ambientale, volte a scoraggiare il commercio e quindi la produzione di beni ad alto impatto ecologico negativo. L’obiettivo deve rimanere comunque quello di dare il primato al sistema di accordi di scambio multilaterali, che è garanzia di pace e di tutela dei Paesi più deboli.

Pubblicato il: 06.08.08
Modificato il: 06.08.08 alle ore 12.08   
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