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Autore Discussione: Fascismo da camera  (Letto 3413 volte)
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« inserito:: Agosto 13, 2008, 09:53:16 pm »

Fascismo da camera

Nicola Tranfaglia


Il cammino di numerose divisioni corazzate della Wermacht nazista nell’Italia occupata del 1944-45 fu caratterizzato, dal Lazio al Piemonte, da numerose stragi delle truppe tedesche contro cittadini italiani inermi che avevano come sola colpa quella di vivere nelle campagne in attesa che la guerra finisse.

La Toscana e l’Emilia per la loro posizione geografica e la presenza di bande partigiane attive furono teatro di molte di queste stragi sanguinose e quella di Marzabotto vicino Bologna resta quella in cui vennero massacrate quasi mille persone,vecchi, adulti, bambini e donne senza distinzione come era nella mentalità dei nazisti. Ma anche a S. Anna di Stazzema perirono il 12 agosto di 64 anni fa più di cinquecentosessanta persone.

In Toscana come in Emilia presero parte a quelle orribili stragi quasi dovunque fascisti della Repubblica Sociale Italiana, inquadrati nelle Brigate Nere o nell’esercito di Salò, che partecipavano alla guerra del III Reich contro gli alleati e alle rappresaglie contro i partigiani e il ricostruito esercito italiano.

Questi sono i dati di fondo di una vicenda storica che per troppo tempo è stata occultata agli italiani grazie all’”armadio della vergogna” che ha nascosto fino al 1994 gli atti processuali contro i colpevoli tedeschi e italiani di quelle stragi ma che gli storici tedeschi come Lutz Klinkammer, autore di un bel libro sull'occupazione nazista in Italia, ed italiani come Claudio Pavone, Enzo Collotti, Paolo Pezzino e chi scrive, hanno ricostruito negli ultimi decenni con tutti i particolari.

E abbiamo letto con serena commozione le parole sobrie ma limpide che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha dedicato alla strage nazifascista che insanguinò proprio ieri, 64 anni fa, quelle campagne toscane.

Ci è parsa perciò grave e fuori luogo, oltre che profondamente diseducativo per le nuove generazioni, la dichiarazione dell’on. Gianfranco Fini, una volta fascista dichiarato ma ora investito di responsabilità istituzionali di primo piano, che ha parlato di strage nazista (e non nazifascista) per S. Anna di Stazzema come se la Repubblica Sociale Italiana non avesse responsabilità al riguardo e come se i fascisti di Salò non avessero per venti mesi collaborato attivamente alla lotta contro i partigiani e i civili italiani in nome del Reich III di Adolf Hitler.

Purtroppo nel nostro paese sono andati al governo uomini, donne e forze politiche che, negli anni della resistenza e del riscatto democratico dell’Italia rispetto al ventennio fascista, non solo non hanno combattuto dalla parte della libertà e della democrazia ma addirittura sono stati dall’altra parte e in questi sessant'anni hanno fatto un percorso insufficiente e lacunoso in campo democratico.

La conseguenza è quella che oggi vediamo: manipolazione e a volte mistificazione della storia italiana ed europea, mancata condanna della barbarie che fu nazista e fascista insieme, nessuna vera giustizia per le vittime di quelle barbarie e i loro figli e nipoti che sono oggi cittadini della repubblica democratica italiana.

Un pessimo risultato per chi difende ancora il fascista Giorgio Almirante funzionario della RSI e non riconosce il senso di quella storia che con il sangue dei partigiani e dei civili di quel periodo ci ha portato alla repubblica e alla democrazia.

È troppo auspicare che il presidente della Camera rifletta almeno oggi, leggendo quella storia, su una dichiarazione reticente e mistificata come la sua?

Pubblicato il: 12.08.08
Modificato il: 13.08.08 alle ore 15.26   
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 14, 2008, 05:18:27 pm »

Fini e le amnesie delle stragi fasciste


Michele Prospero


Poche sono le tradizioni politiche che, al pari della destra radicale, mostrano un attaccamento quasi feticistico a nomi, simboli, riti. Non è un caso che, a ormai 15 anni di distanza dalla svolta di Fiuggi, Alleanza Nazionale conservi ancora l’imbarazzante richiamo identitario alla fiamma tricolore, accesa sessant’anni fa in onore del corpo defunto del duce. Un omaggio oggi forse solo formale alle vecchie credenze che crea però troppi incidenti di percorso per non dare nell’occhio. Già nel suo discorso di insediamento alla presidenza della camera, Fini fece ricorso ad acrobazie verbali piuttosto evidenti pur di non pronunciare, tra i malanni storici del secolo scorso, la parola fatidica di fascismo. Per non parlare delle soluzioni lessicali alquanto infelici adoperate di recente per la strage fascista di Bologna. E ora la reticenza prosegue con questa omissione linguistica sulle colpe terribili dei "ragazzi di Salò" che, insieme ai nazisti, a Sant’Anna, in provincia di Lucca, bruciarono vive centinaia di persone, squartarono viva una donna incinta e colpirono il suo feto a pistolate. Perché un partito inserito ormai a pieno titolo nella dinamica istituzionale, riconciliato in apparenza con la legalità costituzionale, presenta queste amnesie? Il problema è che non si tratta affatto di semplici contrattempi o dimenticanze. No, per An la memoria, e soprattutto la rivisitazione della storia repubblicana per alterarne i suoi fondamenti costitutivi, riveste una importanza strategica. Più importante di tante altre cose, per An è proprio la questione dei simboli. La destra si può certo riconciliare con la repubblica purché però la repubblica rinunci ai suoi momenti simbolici più forti e riconosca, accanto a quelli riconosciuti e celebrati, altri padri. La proposta di Fini di fare anche Almirante un padre della patria repubblicana rientra appunto in questa proposta di scambio indecente. Con Almirante si cerca di archiviare gli anni di Salò, condotti all’insegna della comunione di ideali con il nazismo. Non si calcolano le stragi compiute insieme da tedeschi e da repubblichini. A Monticano l’11 marzo del 1944 ci fu un eccidio, dopo un processo sommario. A Montalto di Cessapolombo, 27 ragazzi, avevano poco più di vent’anni, furono fucilati dai miliziani fascisti. Lo stesso avvenne a Montemaggio, a Cumiana. A Monteriggioni 147 civili furono massacrati, altri 400 deportati in Germania, la metà vi morì. 269 civili caddero sotto il fuoco fascista a Lipa, i loro cadaveri furono fatti esplodere con la dinamite. Eccidi ci furono a Turchino, a Milano, a Borgo Ticino, a Tavolacci, dove la polizia repubblichina arse vivi 64 civili. Un’esperienza di sangue e di terrore, quella di Salò, che è difficile annacquare oggi con la retorica della pacificazione nazionale. Con i ragazzi di Salò (gerarchi, prefetti, membri dei tribunali straordinari repubblichini, ufficiali) che combatterono a fianco delle forze militari germaniche di occupazione in verità si mostrò più che comprensiva già la Corte di Cassazione nelle sue vergognose sentenze emesse tra il 1946 e il 1947. La suprema corte ricostruì con dovizia di particolari l’enorme quantità di omicidi, rappresaglie, eccidi, depredazioni, saccheggi, stragi, torture, deportazioni, rastrellamenti operati dalla guardia repubblichina. Ma, con un colpo di bacchetta magica, accertati i reati, assolse i colpevoli, quasi tutti fatti rientrare con manica larga nei casi di amnistia. Indenni se la passarono così i militi che trasformarono una canonica in un bordello e trucidarono il parroco. I solerti membri dei tribunali che ordinarono le fucilazioni di ostaggi, di civili, di partigiani se la cavarono perché, per la Cassazione, non valeva il principio della responsabilità collegiale dell’organo e del tutto impossibile era appurare i nominativi di chi aveva materialmente votato a favore della sentenza di morte. I componenti dei plotoni di esecuzione ebbero riconosciuta anch’essi dalla Cassazione lo stesso trattamento con i guanti. Per i supremi giudici infatti tutti i componenti delle squadracce erano da amnistiare poiché era impossibile acclarare da quale arma fosse effettivamente uscito il fuoco omicida. La suprema corte scrisse persino che torturare e far morire i prigionieri soffocandoli con i propri capelli oppure costringere i catturati, in pieno inverno, a farsi una doccia fredda onde causare la morte, così come uccidere i prigionieri colpendoli con i calci di fucile o finirli con supplizi e percosse non erano episodi di violenza così efferati da rientrare nella speciale casistica di atti che "sorpassano ogni limite". E quindi anche per i torturatori fu riconosciuta l’impunità e il diritto alla amnistia. Ma la pagina più esemplare di giustizia per i ragazzi di Salò è stata scritta dalla Cassazione nella sentenza del 12 marzo del 1947. Così si legge nella sentenza: "è applicabile l’amnistia ad un capitano di brigate nere, che dopo aver interrogato una partigiana, l’abbandona in segno di sfregio morale al ludibrio dei brigatisti che la possedettero, bendata e con le mani legate, uno dopo l’altro". Per la suprema corte si tratta sicuramente di bestialità ma non certo di "sevizie". Al più, contesta la Cassazione, si tratta di "offesa al pudore e all’onore, anche se la donna abbia goduto di una certa libertà essendo staffetta dei partigiani". Così scriveva la suprema magistratura della repubblica: partigiana e dunque puttana! Altro che onore al sangue dei vinti. A quando un po’ di rispetto per la memoria del sacrificio dei vincitori?

Pubblicato il: 14.08.08
Modificato il: 14.08.08 alle ore 14.44   
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 18, 2008, 11:15:14 pm »

La vittima è un laureando in economia e figlio di un ministro del paese africano

Aggressione razzista a Genova: in 13 picchiano angolano 24enne

Il giovane è stato prima insultato: «Sporco negro, torna al tuo paese» poi sono arrivati calci e pugni



GENOVA - Un ventiquattrenne angolano, Assuna Benvindo Muteba, figlio di un dirigente del ministero del'Innovazione dell'Angola e studente laureando in economia e commercio a Genova, è stato aggredito, insultato e ferito venerdì notte di fronte a testimoni da 13 estremisti di destra. Il giovane, attraverso le pagine del quotidiano genovese «Corriere Mercantile» , ha denunciato l'aggressione subita venerdì notte sulla passeggiata Anita Garibaldi di Genova Nervi. Sul caso indaga la polizia di Genova che sta procedendo all'identificazione degli aggressori. Il ventiquattrenne ha riportato lesioni al capo e agli arti giudicate guaribili in otto giorni dai medici del pronto soccorso dell'ospedale San Martino di Genova che lo hanno visitato e dimesso.

PRIMA GLI INSULTI, POI L'AGGRESSIONE - Secondo quanto riferito dalla vittima e dalla ragazza che era con lui, in principio otto giovani italiani dall'aspetto e dai modi di estremisti di destra hanno preso a insultare il giovane angolano. Avrebbero pronunciato frasi pesantissime: «Stasera ho voglia di picchiare qualcuno. Guarda sta passando uno sporco negro...quasi quasi mi sfogo con lui. Puzzi, lo sai negro? Te ne devi tornare al tuo paese, in Africa. Ti ammazzo», avrebbe detto uno di questi. Il ventiquattrenne ha cercato di evitare contatti, senza riuscirvi. Gli otto gli si sono fatti intorno e hanno preso a malmenarlo. Al primo gruppo di aggressori si sono unite altre cinque persone. Solo quando la ragazza ha chiamato la polizia, il gruppo si è dileguato. «È stato terribile - racconta il giovane sulle pagine del quotidiano - Mi arrivavano colpi da ogni parte. Al volto, alle gambe, all'addome. Non riuscivo a respirare, non vedevo nulla. E poi gli insulti, terribili. Non voglio neppure ripeterli. Cosa ho pensato in quel momento? Solo a non cadere, a rimanere in piedi. Se fossi finito a terra probabilmente a quest'ora non sarei qui a raccontare questa storia».


18 agosto 2008

da corriere.it
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