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Autore Discussione: ENZO BIAGI...  (Letto 14287 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Novembre 04, 2008, 10:21:06 pm »

Memoria

Un anno dopo la scomparsa, escono un volume della figlia e un’antologia di articoli

Biagi, viaggio nel cuore dell’Italia

Sentimenti, immagini e ironia sul filo malinconico dei ricordi


Gli sarebbero piaciuti i posti, i nomi, le facce della gente: era lì che voleva andare, in qualche paese che non fa notizia, in una scuola di provincia, nei comuni dove il medico e il farmacista sono ancora qualcuno, nelle campagne dove adesso vivono tanti stranieri. Gli sarebbero piaciuti i ricordi, l’ironia di qualche racconto, le immagini dolci di un papà che tiene una bambina per mano: ed era lui, timido, impacciato, come nel giardino dell’Osservanza, a Bologna, quando faceva le notti in redazione e la mattina bisognava lasciarlo dormire.

Ma più di tutto gli sarebbe piaciuto scoprire che ha lasciato qualcosa a quest’Italia, qualche sentimento che oggi un po’ ci manca: si chiama fiducia e forse è la certezza che in questo sgangherato Paese dove nulla è stabile fuorché il provvisorio, come diceva Prezzolini, c’è gente migliore di chi a volte la rappresenta, ci sono uomini e donne che non si arrendono e si aggrappano senza arrossire a parole che esprimono valori come coerenza, libertà, coraggio, solidarietà. Enzo Biagi se n’è andato un anno fa, con la sua biro, il bloc notes e il distintivo da partigiano nel taschino della giacca. Fino all’ultimo il suo sogno è stato un viaggio, un’altra traversata nell’Italia, però lontano dal potere, vicino alle lettere dei giornali. «Non la raccontate più» rimproverava noi cronisti. «Bisogna tornare in strada, in provincia, per vedere cosa cambia» ricordava ogni volta nel salotto di casa dove Loris Mazzetti, il regista del Fatto, aveva messo su uno studio speciale, su misura, per girare Rt, il rotocalco televisivo del ritorno in video del grande giornalista, cinque anni dopo l’editto bulgaro di Berlusconi.

E c’era Bice con lui, la figlia più grande, che si preoccupava o forse ci sperava in quel viaggio che Enzo Biagi non ha più fatto, non ha potuto fare. Motivi tecnici, avrebbe detto lui: avanti con la sigla e i titoli di coda. C’è un dolore intimo e privato nell’addio a un padre al quale si è voluto tanto bene: l’ultima notte in clinica è come un cerchio che si chiude. Ma il copione si riscrive di colpo davanti alla camera ardente, il giorno dopo la notizia della morte: una fiumana di gente assedia via Quadronno, Milano non sembra neanche Milano, c’è un popolo diverso in quella strada di case della buona borghesia, c’è l’Italia così com’è, che ringrazia un giornalista per averle fatto compagnia, per essere stato in qualche modo un amico. È lì che Bice Biagi cambia i suoi programmi e decide di farlo lei, quel viaggio tante volte rimandato da suo padre: un viaggio intenso, caldo come un abbraccio, che la porta a incontrare «gente straordinaria e a scoprire posti che prima non sapevo nemmeno dove collocare sulla carta geografica». In viaggio con mio padre (Rizzoli) è il diario pubblico di una vicenda privata, il racconto di un anno nel cuore della gente che di Biagi conosceva molto, ma ha voluto saperne di più. Ed è un itinerario nella memoria di due sorelle che aprono lo scrigno dei ricordi per parlare in pubblico di un personaggio che per loro «è soltanto un papà».

In una biblioteca, in un cinema, una piazza, un teatro, un salone parrocchiale, una scuola di giornalismo, una facoltà universitaria, tra i partigiani di Giustizia e Libertà o in un giardino col suo nome, Bice e Carla Biagi non elaborano il lutto, ma fanno rivivere i comandamenti di un padre che la sera, prima di uno dei suoi viaggi intorno al mondo, raccomandava: «Siate buone, non fate arrabbiare vostra madre». Ma parlano anche del giornalista di carattere che per un’idea pagava con il posto e per la libertà di scrivere non accettava compromessi. Lo testimonia un altro libro edito da Rizzoli, Io c’ero, ghiotta e indispensabile antologia del Biagi giornalista, dal dopoguerra ai nostri giorni, curata da Loris Mazzetti: cronache, incontri, interviste, polemiche nell’arco di quasi settant’anni. Di quel maestro, che gli voleva bene come a un figlio, Mazzetti ricorda che è stato «l’unico che ha saputo essere grande sia sui giornali che in televisione» e lascia un’eredità enorme per chi vuole fare questo mestiere: «Dalla politica bisogna farsi dare del lei». Biagi c’è riuscito: la gente per questo lo apprezza e per questo lo ricorda. In giro per l’Italia, Bice e Carla parlano però anche di un uomo normale, della sua semplicità.

E riescono persino a sorridere, anche quando la commozione è forte. Pensano a lui, a quello che avrebbe detto: raccontate la verità, senza aggettivi. «Dimmi se per caso ho fatto la figura della cretina» sussurra Bice quando finisce un intervento. «Alla nostra età non possiamo fare le orfane» confida Carla alla sorella. C’è una famiglia che si ritrova più unita in questo viaggio, arricchita dall’affetto inaspettato di un’Italia bella, pulita, «dalla gente semplice che crede nei proverbi e negli anniversari». E c’è un posto, Pianaccio, dove si ritrovano certe idealità nei cerchi della memoria. Quanti ricordi: una gita, una breve vacanza, i boschi dell’Appennino dove ci si perde, le piccole gelosie, le tenerezze di una mamma che c’è sempre, la sorellina più piccola tanto amata, i vuoti lasciati da un padre con la valigia. Nel cimitero, sulla collina dove «il vento prima si vede e poi si sente», Enzo Biagi ha una lapide nuova. Tra i fiori c’è ancora qualche biglietto: ci manchi, grazie. «Sembra ieri e si fa fatica a pensare che certi appuntamenti non si ripeteranno più» è il saluto di Bice. «La ricchezza — ha scritto Cesare Pavese — sono i ricordi che uno ha e poi lascia». Questo viaggio è un piccolo album, dentro i ricordi della gente.

Giangiacomo Schiavi
04 novembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #16 inserito:: Novembre 06, 2008, 11:45:44 am »

5/11/2008 (7:23)

Là dove morì Rommel ora c'è un asilo
 
1959, l’inviato della Stampa dalla vedova del feldmaresciallo

ENZO BIAGI


Il 6 novembre di un anno fa moriva Enzo Biagi, uno dei più grandi giornalisti del ’900. La Stampa, dove lavorò dal ’53 al ’74, con brevi interruzioni, gli rende omaggio con il volume Dal nostro inviato, in distribuzione da domani a e7,90 più il prezzo del quotidiano. Curato da Alberto Sinigaglia, con ricordi di Arrigo Levi e Enzo Bettiza, il libro raccoglie gli articoli più significativi (incontri, ritratti, reportage) scritti per il nostro giornale. Pubblichiamo uno stralcio dell’intervista con la vedova di Rommel, uscito sulla Stampa del 20 settembre 1959.

Il General Feldmarschall Erwin Rommel riposa nel piccolo cimitero di Herrlingen. Una croce di legno, un nome, due date: 1891-1944. Accanto a lui, due coniugi senza storia, i signori Schneider, aspettano il giorno della resurrezione.

Nella villa dove trascorreva la convalescenza, e dove lo raggiunse l’ordine di morire, c’è adesso un asilo; in questa camera allegra, i messaggeri di Hitler parlarono per un’ora; di veleni prodigiosi, di tribunali senza legge, di onoranze funebri solenni. I tedeschi, è noto, hanno il mito della precisione; discussero anche il programma finale: banda che suona la marcia del Crepuscolo degli Dei, bandiere di tutte le armi debitamente abbrunate, truppe sull’attenti.

Rommel salì questa scala, trasformata ora in un deposito di bambole, di cavallucci e di palloni, per dire alla moglie che, entro pochi minuti, le avrebbero annunciato la sua improvvisa scomparsa. Il cianuro – glielo avevano assicurato – agiva in tre secondi.

Sulla parete dov’era affissa la carta con la situazione dei fronti, le maestrine bionde hanno attaccato i disegni dei piccoli. La bimba Christa Blauer è rimasta impressionata dalla favola di Rotkäppchen: Cappuccetto Rosso raccoglie i fiori nel bosco e il lupo è sempre pronto a mangiarla. [...]

La signora Lucie Maria Rommel vive attualmente a Sillenbuch, un sobborgo di Stoccarda.[...] Abbondano, tutt’intorno, le fotografie di Erwin Rommel, ritratto sui diversi campi di battaglia, e ci sono anche due quadri ricavati da immagini vere, riprese durante i combattimenti. Il maresciallo indossa la divisa dell’Afrika Korps o l’uniforme dei carristi. Ha sempre la faccia severa dell’uomo duro, che parla poco e sa quello che vuole.

«Tutto avvenne così in fretta», dice Frau Rommel. «No, non ricordo nemmeno se, dicendomi addio, mi baciò. Quando cominciai a pensare era già andato via. No, non si stupì dell’arrivo degli inviati di Hitler. Stulpnagel, uno dei congiurati del 20 luglio, in una camera operatoria, aveva fatto, smarrito nel delirio, il nome di mio marito. Del resto Erwin, il giorno prima, aveva scritto una lettera al Führer. Sì, fino al 1942, aveva creduto in Hitler, e anche nella vittoria. Anzi, non credeva neppure potesse scoppiare nel settembre del ’39. Diceva sempre che la guerra non si poteva fare, perché la sua generazione l’aveva già provata, e chi c’è stato una volta sa che non è bella, ma stupida e brutale.

«Credeva, fino al 1942, anche in Hitler; lo dicevano in tanti che Hitler aveva un fascino straordinario, proprio qualcosa come l’ipnotismo, una forza alla quale non si resiste. Poi, in Francia, incontrò il generale Blaskowitz, che gli parlò delle stragi degli ebrei; il generale Blaskowitz le aveva viste proprio con i suoi occhi, ma noi, anche se pare impossibile, non ne sapevamo nulla. Mio marito capì che era finita e lo disse anche a Hitler; capì anche che Hitler era un pazzo furioso. Disse a Hitler: “Mio Führer, io farei gli ebrei gauleiter, tutti i gauleiter dovrebbero essere ebrei”. Chi ci perdonerà, pensava, le nostre colpe, le nostre vergogne? “Mio Führer – disse anche – aiutiamoli perché trovino in Palestina una patria”.

«“Palestina? – sorrise Hitler –. Ma scherza? Troppo vicini. Dovrebbero andare almeno in Madagascar”».

Lucie Maria Rommel, nata Mollin (la sua gente era di origine italiana) è una donna forte, che ormai vive soltanto per difendere la memoria e il prestigio di Rommel. «Mein Mann», si dice in tedesco per dire marito, ma si capisce che per lei quel «mio uomo» è qualcosa di più.

«Ora lo discutono nelle scuole – m’informa con una specie di orgoglio –, i ragazzi sanno, lo sanno anche dai libri di lettura che c’è stato questo generale, che ebbe vittorie e sconfitte ma che credeva nell’onore, umanamente. Non era un fanatico. Erwin Rommel era semplice, “rein”, pulito. Lo discutono nelle scuole e questo mi basta, è segno che un Erwin Rommel c’è stato. Erwin amava le cose comuni, lo sport, la neve, la meccanica; si interessava poco di letteratura e molto di storia. Non fumava nemmeno. Quando lo nominarono maresciallo era in Africa e festeggiò la promozione con un bicchiere di whisky e un ananas. Mi scrisse, sa, mi scriveva tutti i giorni, che invece di quel grado avrebbe preferito un’altra divisione. Erwin era giusto. Voleva bene ai soldati, e non concepiva differenze di trattamento per gli ufficiali: “Chi deve morire nello stesso modo – diceva – nello stesso modo deve vivere”». [...]

«Quel giorno – ricorda Frau Rommel, senza intenerirsi, senza vibrazioni –, venne in camera mia per dirmi: “Hitler mi ha offerto la scelta tra il veleno e un processo. Hanno portato il veleno”. Poche parole, poi uscì».

Forse, mentre se n’andava, Rommel sentì la moglie singhiozzare sommessamente, ma si comportò come se nulla fosse accaduto e come se nulla dovesse accadere. Era in ordine con se stesso; aveva risposto a chi gli proponeva di prendere parte a una congiura per rovesciare il regime: «Credo sia mio dovere offrire il mio aiuto alla Germania». [...]

Il 14 ottobre saranno trascorsi 15 anni da quel giorno d’autunno. Sulla tomba della «Volpe del deserto» sono fiorite due rose color sangue e il vento ha portato ai piedi degli abeti che proteggono il riposo del vecchio soldato le prime foglie gialle. Vicino al cimitero c’è la scuola del paese, e si sentono le voci dei bambini che ripetono la lezione. Nel libro di lettura, una pagina racconta la storia del leggendario General Feldmarschall Erwin Rommel, che, con i signori Schneider, che non compirono nulla di memorabile, attende, sotto una croce di legno, l’ultimo giudizio, il solo che conta.

da lastampa.it
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