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Autore Discussione: Europa, la vera malattia  (Letto 2151 volte)
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« inserito:: Giugno 22, 2008, 06:32:03 pm »

DOPO IL NO IRLANDESE

Europa, la vera malattia


di Franco Venturini


Se il referendum irlandese doveva giudicare la forza di un'Europa da poco guarita, il meno che si possa dire è che la sentenza di condanna uscita dalle urne appare senza appello. Il trattato di Lisbona, orfano di una delle ventisette ratifiche necessarie, è tecnicamente morto. E un terzo popolo europeo, tra i pochissimi consultati negli ultimi anni, ha rimandato al mittente il confuso identikit di una Unione non amata.

Nessuno, beninteso, vorrà rassegnarsi. Ma far tornare gli irlandesi alle urne come avvenne nel 2001, rinegoziare il trattato di Lisbona, pregare Dublino di togliere il disturbo, tenersi il trattato di Nizza attualmente in vigore, sono tutte strade molto difficili da percorrere. La Francia, che vede compromessa la sua prossima presidenza, annuncia una risposta d'accordo con Berlino. Londra promette che la ratifica per via parlamentare proseguirà, consapevole com'è di uno scetticismo che riguarda anche la Repubblica Ceca. Nel Parlamento italiano, che deve ancora esprimersi, saranno più forti le eccezioni della Lega. E ovunque tornerà il senso di paralisi e di impotenza che seguì nel 2005 le bocciature costituzionali di Francia e Olanda, cui il trattato di Lisbona doveva appunto porre rimedio con le sue caute riforme.

Tutto molto grave, ma la vera malattia dell'Europa non è qui. Chiediamoci, piuttosto, come sia possibile che un Paese uscito dal sottosviluppo grazie all'Europa le voti tanto duramente contro. Chiediamoci, se non lo abbiamo già fatto negli ultimi tre anni, perché i francesi e gli olandesi abbiano detto no alle ambizioni costituzionali europee. Chiediamoci, in definitiva, per quali motivi l'Europa sia a tal punto lontana dal consenso popolare, non nell'euroscettica Gran Bretagna ma tra i suoi beneficiari e tra i suoi soci fondatori.

Le risposte, per quanto spesso eluse, hanno poco di misterioso.

L'Europa di tutti i giorni non ha mai imparato a comunicare, e parla un eurocratese incomprensibile ai più. I Trattati sembrano destinati a una platea di accademici, più che a società complesse fatte di elettori. La globalizzazione, omologandoli, ha paradossalmente rilanciato gli Stati nazionali e ha dato nuova forza ai localismi. I giovani considerano acquisiti i molti vantaggi che vengono dall'appartenenza alla Ue, e dunque non sono più mossi come i loro padri dalla necessità di consolidarli.

L'elenco delle spiegazioni facili potrebbe continuare. Ma per quanto gravi siano le fragilità della costruzione europea, nessuna riuscirebbe a metterla in rotta di collisione con i suoi popoli se l'Unione non fosse prigioniera di una radicale crisi di identità politica e di capacità operativa.

Agli albori, la prima Europa nacque per garantire la democrazia post bellica e impedire nuove guerre tra Francia e Germania.

La seconda Europa fu quella delle grandi ambizioni, della conquista di un «posto» nel mondo, delle cessioni di sovranità in nome del bene comune, delle regole, del mercato interno, della libera circolazione, dell'euro. Ma il mondo di oggi e di domani esige una terza Europa, concretamente vicina ai suoi popoli visto che dalla legittimazione di vertice si è passati a quella di base, riconoscibile e unita nelle sue posizioni internazionali, consapevole sì di dover essere grande per contare nei nuovi equilibri planetari ma prioritariamente efficace nel valore aggiunto da dare alla sua azione interna. Ed è proprio questa terza Europa che non riesce a vedere la luce.

I prezzi di benzina e gasolio, l'immigrazione, i livelli occupazionali? L'Europa è assente, divisa o in ritardo. L'identità politica? Dipende dai casi e da laboriosi compromessi tra interessi contrastanti. Il Trattato che vincola tutti? Incomprensibile e dunque pericoloso. Meglio tutelarsi, respingendo ieri l'idraulico polacco e proteggendosi oggi contro i rischi presunti di nuove tasse, di meno sussidi all'agricoltura, di attacchi alla neutralità nazionale, di declassamenti riservati ai Paesi piccoli. Tanto, le cose buone che ci vengono da Bruxelles non spariranno.

Rimasta a metà del guado integrativo, l'Europa dei Ventisette non è più riconoscibile e non riesce a battere la temibile alleanza tra paure e diritti acquisiti. Ma dopo lo schiaffo irlandese dovrebbe almeno vedere con chiarezza l'alternativa che ha di fronte: da un lato la decadenza, dall'altro la rifondazione a opera di un gruppo ristretto di integrazionisti pragmatici. Il momento della scelta verrà, e riguarderà anche l'Italia.

14 giugno 2008

da corriere.it
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