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Autore Discussione: Peccati originali partito ridotto a club di ex  (Letto 3085 volte)
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« inserito:: Giugno 21, 2008, 05:09:21 pm »

Peccati originali partito ridotto a club di ex

L'AUTOCOSCIENZA DEL PD

Senza Romano, e ce lo meritiamo

L'evocazione di Prodi oggi è segno di grande difficoltà             di Mario Barbi
 

Molti dirigenti del Pd hanno chiesto a Romano Prodi di restare presidente del partito. Il segretario lo ha fatto in modo discreto, altri lo hanno fatto in modo ostentato. Rumorosamente, chi più e chi meno. Da invito garbato a desistere da una decisione non polemica, meditata e motivata, assunta e comunicata riservatamente prima delle elezioni, la richiesta si è trasformata in una pressione insistente che non si ferma nemmeno dinanzi al rispetto dovuto alle ragioni ed alla persona di Prodi. Poiché la decisione di Prodi andrebbe rispettata e il Pd avrebbe ottime ragioni per farlo, tanta insistenza sollecita e merita una spiegazione e una riflessione politica.
La pressione esercitata su Prodi è insieme il segno di una difficoltà seria del Pd di Veltroni e la prova che il Pd cerca una scorciatoia per aggirarla. Prodi viene tirato per la giacchetta e utilizzato per dare una soluzione apparente a un problema reale. Risposta corta a un problema lungo. Cerco di spiegarmi. La difficoltà a cui mi riferisco è questa: il Pd della "nuova stagione" e della "vocazione solit…, pardon!, maggioritaria" veltroniana è andato incontro a una cocente sconfitta politica ed elettorale alla quale ha reagito non con un dibattito aperto e libero ma con una chiusura e un arroccamento del vertice del partito. Il gruppo dirigente appare ripiegato su se stesso e improvvisamente invecchiato, composto in modo pressoché esclusivo da ex Ds e Margherita, mentre proliferano correnti e sottocorrenti che autorizzano autorevoli esponenti del Pd a parlare di «balcanizzazione» e a descrivere il soggetto appena nato non come il «partito nuovo» che voleva essere bensì come una «confederazione di potentati» che rispondono a capi e capetti.
Così, mentre si moltiplicano i segni di un invecchiamento precoce, le primarie sembrano un evento remoto. Che cosa resta di quella straordinaria partecipazione di popolo? Che cosa resta, o meglio, in che cosa si sono trasformati quei milioni di voti che hanno plebiscitato Veltroni? Resta il coordinamento - chiedo scusa per la sintesi un po' drastica - organo di direzione effettiva del partito, non previsto dallo statuto e di cui non vi è notizia nemmeno sul sito ufficiale del Pd, ma che è la logica ri-proposizione del Veltroni candidato «unitario» di una maggioranza pigliatutto formata dal vertice Ds, dalla gran parte dei Popolari nonché dai coraggiosi di Rutelli&Friends.
È interessante ricordare che il coordinamento ha sostituito l'esecutivo, cioè quell'organismo che Veltroni nominò, subito dopo le primarie, nel segno della iper-novità: più donne che uomini, più giovani che vecchi, più principianti che professionisti, più società civile che partiti… O almeno così lo presentò. Lasciamo stare che la novità fosse più comunicata che praticata e che in quella operazione prendesse corpo una specie di collateralismo alla rovescia che confidava nel concorso delle formazioni sociali per dare corpo e guida al partito (ricordo le provenienze legambientaliste, sindacali, imprenditoriali, di volontariato etc) più di quanto esprimesse l'ambizione del partito e della politica di interpretare e guidare lo sviluppo della società.
Lasciamo stare e richiamiamo invece alla memoria la composizione del coordinamento: Veltroni, Franceschini, Fassino, Bettini, Fioroni, Gentiloni, Bersani, Letta, Tonini (?), Finocchiaro, Soro più la cooptazione annunciata dal segretario dei vicepresidenti Pd di Camera (Bindi) e Senato (Chiti). Tutti ex. Ex Ds e Margherita. Tutti. Un partito nato nel segno dell'apertura ai cittadini e delle primarie ridotto ad un club di ex, per di più con un sovrappeso di Roma, a dispetto di una assemblea costituente eletta da tre milioni e mezzo di persone e composta di poco meno di tremila delegati di cui circa un terzo (così si disse) non iscritti a Ds o Margherita. Forse c'è qualcosa che non va. E forse c'è un qualche rapporto tra le primarie-plebiscito e questo esito.
C'è, insomma, una difficoltà. Ora, questa chiusura e questa regressione del gruppo dirigente sono rese più evidenti dall'assenza di Prodi. Prodi non è un ex. Prodi, in tutta la sua azione politica, ha rappresentato la tensione verso l'apertura e il rinnovamento. L'Ulivo. La casa dei riformisti. L'Unione. Una azione costante volta a costruire un centrosinistra di governo in grado di vincere la competizione con il centrodestra in un sistema bipolare e maggioritario. La sua assenza, il suo ritiro rende la sconfitta politico-strategica del Pd incresciosamente evidente. Ecco allora l'idea semplice e, da parte di qualcuno, maliziosa di «richiamarlo», di «pregarlo», di «pressarlo». Ma tutto questo senza che vengano poste due domande elementari: 1) il Prodi che oggi si invoca non è lo stesso che è stato messo in panchina e accompagnato negli spogliatoi con la fondazione di un partito costruito sulla ostentata e ossessiva discontinuità con l'esperienza di quel quindicennio di cui Prodi con l'Ulivo è stato protagonista? 2) che senso avrebbe, e che cosa cambierebbe, il ritorno di Prodi senza un cambio di linea politica e senza una riflessione autocritica sulla nascita del partito e sulla linea politica che ci ha portato alla sconfitta?
Avrebbe ben poco senso. Rispetto l'opinione di Rosy Bindi, che nel chiedere a Prodi di revocare le dimissioni vi associa il richiamo simbolico all'Ulivo e la convinzione che Prodi sia una risorsa politica a cui il Pd non avrebbe dovuto rinunciare. Così come rispetto l'opinione di Michele Salvati che invita Prodi a restare perché il Pd sarebbe in piena continuità con l'Ulivo. Rispetto quelle opinioni, ma penso che anche esse, anzi prima di tutto esse, dovrebbero riconoscere che il Pd è nato nel segno di una triplice presa di distanza dal suo principale promotore e co-fondatore: 1) la discontinuità dall'Ulivo, dall'Unione e dallo stesso Prodi; 2) la "separazione consensuale" da Bertinotti, linea rinunciataria e alternativa alla lotta per l'unità del centrosinistra di governo; 3) la scelta solitaria del Pd, interpretata in chiave proporzionalista. Che qualcuno chieda a Prodi di rimanere per rivedere quella linea ed altri gli chieda la stessa cosa per non disconoscere la giustezza di quella linea è la prova che c'è qualcosa su cui dibattere. Per discutere le scelte fatte andrebbero evitati gesti simbolici o parole generiche: ci vorrebbe un congresso, un congresso vero.
Con queste premesse, invece, la richiesta a Prodi di restare presidente del Pd è una risposta di corto respiro a una domanda di portata strategica. E, a parte la mancanza di riguardo per le scelte della persona, c'è anche una sfumatura di indelicatezza nella richiesta che il Pd rivolge a Prodi, visto che a farla è lo stesso Partito che ha approvato uno statuto che non ha dato al presidente dell'assemblea federale e della direzione nazionale nemmeno la dignità di un articolo specifico ed autonomo, che ne definisse prerogative e funzioni, limitandosi a riconoscergli incidentalmente l'incombenza di convocare gli organi e fissarne l'ordine del giorno. L'evocazione di Prodi, dunque, è il segno di una difficoltà vera. Ma per affrontarla non ci sarebbe modo più sbagliato che affidarsi ad una mozione degli affetti, di necessità impolitica e un po' burocratica, approvata all'unanimità dalla assemblea costituente. Sarebbe un modo di perseverare nell'errore, il suo coinvolgimento cioè nel peccato originale del Pd: l'unanimismo invece del dibattito libero e aperto.
 
18/06/2008

da ilriformista.it
« Ultima modifica: Gennaio 08, 2018, 12:46:39 pm da Admin » Registrato
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