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« inserito:: Maggio 12, 2008, 11:46:39 pm » |
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Basaglia, la dignità della follia
Peppe Dell'Acqua
Era il giugno 2002, e in un’affollatissima sala della Stazione Marittima di Trieste, stavamo presentando il libro Franco Basaglia di Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio. A un certo punto, dal pubblico si alza un giovane che chiede la parola. Conclude il suo intervento con passione: «Vorrei dire solo questo: quanto, a noi giovani oggi, manca un Basaglia». Questo giovane era Nico Pitrelli, l’autore del libro L’uomo che restituí la parola ai matti, che domani i lettori troveranno in edicola con l’Unità. Mi sono chiesto e molti di noi presenti a quell’incontro l’avranno fatto, che cos’è che fa dire a un giovane, per giunta laureato in fisica: «Ci manca un Basaglia... ».
Ho conosciuto Franco Basaglia che Gorizia era già finita; lavorava da qualche anno a Colorno ed era nell’aria «l’inizio dell’avventura triestina». Era la primavera del 1971. L’occasione fu l’incontro Cus Parma-Cus Napoli. Siamo andati a trovarlo a Colorno, io e alcuni compagni, tutti laureandi in medicina, interni all’Istituto di Malattie Nervose e Mentali e giocatori della squadra di rugby dell’Università. A Napoli, negli anni caldi, avevamo letto L’istituzione negata. Stavamo già ereditando dal sessantotto interrogativi e problemi sulla professione che ci apprestavamo a intraprendere: il rapporto tra la nostra professione e gli apparati del potere e del consenso, il ruolo del medico a essi subalterno.... Era per tutti noi la prima volta che entravamo in un manicomio e non nascondo il senso di disgusto, di nausea, di panico che quel primo impatto mi provocò. Franco Basaglia ci accolse con familiarità, ci mise a nostro agio, ci parlava dandoci del tu. Oggi può sembrare strano, ma in clinica le gerarchie erano rispettate e noi studenti eravamo sempre all’ultimo posto della coda dei camici bianchi che si formava dietro al direttore, il quale mai si rivolgeva a noi direttamente.... Franco Basaglia ci disse che sarebbe andato a lavorare a Trieste e che cercava medici giovani. Avrebbe fatto di tutto per formare un gruppo di giovani psichiatri. Piú semplice – diceva – formare nuovi psichiatri in una pratica nuova, piuttosto che cambiare testa e cultura a psichiatri vecchi e già formati. Il rapporto con noi fu affettuoso, attento, duro.
Appena arrivati a Trieste, nel novembre del 1971 ci inviò subito «al fronte», nei reparti, con le nostre insicurezze, a contatto immediato con i problemi: la responsabilità, la gestione del reparto, l’assemblea, i rapporti con le gerarchie degli infermieri.
Passavamo giornate intere nei padiglioni di San Giovanni. A sera, in riunioni quotidiane difficili e spesso frustranti, affrontavamo i problemi della giornata, i nuovi programmi terapeutici, le storie degli internati che riemergevano. Di fronte all’impasse, ai vicoli ciechi in cui ci cacciavamo, Franco Basaglia riusciva sempre a spostare i termini del problema, a farci guardare da un altro punto di vista, a capovolgere le situazioni. Riuscí a spostare, a capovolgere, anche la nostra vita. Con Basaglia, senza accorgercene, abbiamo trovato la nostra strada, senza separazioni, senza dissociazioni: è la «lunga marcia attraverso le istituzioni» che ci ha indicato con il lavoro quotidiano, instancabile. Accettare la sfida del lavoro istituzionale: trasformare, creare nuovi spazi per agire, determinare momenti di vita e di creatività...
Un giorno di molti anni dopo, chiesi ad Antonio Facchin, infermiere già alla fine degli anni sessanta, che ha vissuto e partecipato al cambiamento, di organizzare una riunione con gli infermieri, gli ispettori, i capisala oggi ultrasettantenni. Vogliamo salvare la memoria del manicomio, dissi. E cosí che insieme ad altri, ho rivisto il vecchio signor Facchin, il padre di Antonio. Il vecchio Facchin ha cominciato a lavorare a San Giovanni nel 1947. È andato in pensione 25 anni dopo, nel ’72. Proprio mentre cominciava il lavoro di Franco Basaglia. Ha detto con rammarico: «Per 25 anni avevo sempre desiderato parlare con i medici, con i superiori; desideravo parlare dei malati, di quello che mi dicevano. Era vietato. Quando finalmente sono cominciate le riunioni, le assemblee e le porte aperte e perfino Basaglia una volta ha chiesto il mio parere, io sono andato in pensione». Ora, a distanza di tanti anni, un giovane, fisico, che si è avvicinato alla storia del grande cambiamento del manicomio nell’ambito di un Progetto di ricerca tra la SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati) e il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, sulla comunicazione della «follia» e della storia delle istituzioni in psichiatria, ritrova il bisogno di raccontarci Basaglia e in lui e con lui, l’importanza del comunicare, dello sforzo di stare nelle cose e di aiutare chi forse fa piú fatica degli altri, a starci. Restituire, come dice il titolo del libro, la parola ai matti. Che sono, prima di tutto, persone, uomini e donne, con il medesimo, taciuto, urlato, disperato, inconfessato bisogno di riconoscersi e di essere riconosciuti come soggetti della propria esistenza, del proprio qui e ora. Stare nelle contraddizioni, anche la contraddizione di essere «diversi», «malati» e nel contempo con gli stessi sentimenti, le medesime pulsioni, i desideri di tutti. Gli «uguali», i «sani». Questa capacità dialettica che tuttora manca ovunque, e senza la quale è difficile, se non impossibile, avere e riprodurre direzione, senso, spessore, umanità. Comunicare questo, a se stessi, al mondo, a chi ci sta curando o dovrebbe farlo, è Basaglia, il suo lascito, il suo insegnamento. Il libro di Nico Pitrelli coglie sicuramente questa attenzione, questa urgenza che Basaglia ha posto nel rompere le barriere comunicative all’interno dell’istituzione manicomiale – il luogo della negazione assoluta della comunicazione.
L’altro aspetto che il libro certamente sottolinea è quello della capacità di sviluppare una comunicazione al di fuori del campo cosiddetto psichiatrico. L’Ospedale psichiatrico cosí come nasce e si costruisce – e Nico lo spiega bene nella parte storica del suo libro – è la frattura di questa comunicazione: le mura dell’ospedale chiudono un discorso e da quel momento in poi si tende sempre piú a far prevalere la ragione sulla follia, e la ragione diventa sempre piú «pulita», eliminando sistematicamente tutte le contraddizioni. Il discorso diventa sempre piú asettico, fino a rimandarci la freddezza, l’igienicità delle macellerie, delle camere mortuarie, dei tavoli di marmo, dove ogni cosa è al suo posto, in «ordine». Questo modo di comunicare intorno alla follia, alle persone che ne soffrono, è ancora oggi impregnato di questa logica, perché tutto viene comunicato a partire dalla negazione della persona. E tutto ciò che ha a che vedere con l’umano viene cancellato, non ha piú senso vedere che cosa le persone mangiano, come si lavano, come vestono, dove vivono, che rapporti hanno. Tutto nasce e viene riportato a una diagnosi. Se si leggono, oggi, i lavori «scientifici» della psichiatria si coglie la scomparsa dei luoghi, delle Istituzioni, delle persone. Della sofferenza, delle urla, dell’opposizione muta e sorda. Degli ambienti miseri, sporchi, vuoti. Delle porte chiuse, delle persone legate, dei corpi violati. Tutto viene restituito in quell’asettico linguaggio dove la singolarità scompare e ogni cosa viene riportata a medie, numeri, definizioni evidenti e indiscutibili.
Quando Basaglia si interroga su che cos’è la psichiatria e tenta di rispondervi, apre in realtà gli armadi, fa venire fuori gli scheletri, e nel momento in cui si denuncia, si svela, ecco che si apre anche il campo della comunicazione. Senza questo svelamento, Basaglia non avrebbe nulla da comunicare se non la piatta riproduzione della psichiatria stessa. Altri sguardi, altre orecchie, altre bocche possono finalmente giocare ora in questo campo comunicativo. L’apertura ai media, agli amministratori, ai politici, ai filosofi, agli artisti, agli architetti, diventa possibile perché finalmente questo terreno conquistato dalla psichiatria e difeso da muri alti e impenetrabili tanto concreti quanto simbolici è un terreno che mostra tutta la sua inconsistenza e tutta la sua violenza...Basaglia fa la prima grande campagna contro il pregiudizio e lo stigma, senza mai dichiararlo. Da quel momento, e nel libro ciò appare chiaro, il pregiudizio non ha piú niente a che vedere con quello che la gente pensa ma piuttosto con quanto i poteri e la scienza psichiatrica producono e riproducono instancabilmente, in termini di fratture, esclusioni, sottrazioni. Che cosa fa la psichiatria, è la domanda da farsi. In questo senso la chiusura dell’Ospedale psichiatrico assume il significato dell’unico intervento oggi possibile per far fronte allo stigma. Il libro mi sembra utile a partire da due considerazioni. La prima, molto generale e che però mi colpisce continuamente, è che i giovani dell’età di Nico sanno poco e i giovani che io incontro ogni anno al mio corso di psicologia sono desiderosi, sono proprio come terre secche che hanno voglia e bisogno di sapere...
L’impegno che Nico si è preso dicendo «quanto ci manca un Basaglia» lo ha mantenuto in questo libro, cercando di offrire ai giovani, ai suoi coetanei e molti altri, uno strumento piú che necessario. Credo che dicendo che ci manca un Basaglia, Nico voglia dire che ci manca uno sguardo obliquo, trasversale, dinamico, uno sguardo dialettico insomma. Oggi la spinta all’omologazione è irresistibile e nulla veramente mette in discussione un impianto di pensiero dominante; è difficile trovare uno spiraglio, un filo, una posizione dislocata per contrapporsi. La seconda considerazione è che questo libro mi tranquillizza rispetto al futuro. Ho avuto e ce l’ho tuttora, l’ansia che tutto vada dissipato, che la memoria di questa vicenda, di cui io penso non bisogna perdere nulla, vada invece perduta. Il libro di Nico contribuisce, assieme ad altri che mi auguro continueranno a venire, a costruire mattone su mattone una disponibilità di conoscenza utilissima alle generazioni del presente e a quelle future. Oggi tutti i percorsi di formazione in medicina, in psichiatria, in psicologia, in scienze infermieristiche sono percorsi che di nuovo hanno trovato il loro specialismo, la loro separatezza, la loro assoluta incapacità di rapportarsi a radici, di costruire continuità, coerenza, ponti, campi di tensione, possibilità di opposizione.
Pubblicato il: 12.05.08 Modificato il: 12.05.08 alle ore 9.32 © l'Unità.
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