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Autore Discussione: Il mito della Maginot  (Letto 3296 volte)
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« inserito:: Luglio 10, 2007, 10:12:51 pm »

Il mito della Maginot
Silvano Andriani


La pressante richiesta dell’Unione europea ad alcuni Paesi di ridurre il livello del deficit pubblico previsto e, soprattutto, di ridurre il rapporto tra debito pubblico e prodotto lordo è fatta certamente in applicazione del «Patto di stabilità», ma fa venire in mente l’impegno dei generali francesi nell’apprestare la linea Maginot quando pensavano di affrontare un’eventuale seconda guerra mondiale con le stesse tattiche con le quali avevano vinto la prima e finirono travolti dalle novità della guerra di movimento. Dall’epoca in cui il patto di stabilità fu concordato tra i paesi dell’Unione di allora la situazione dell’economia mondiale è sostanzialmente mutata e con essa sono cambiate le condizioni che possono generarne l’instabilità. La filosofia che anima il «Patto» deriva dall’orientamento formatosi in risposta alle grandi contraddizioni esplose negli anni 70 in seguito all’enorme aumento del prezzo del petrolio e alla rincorsa salariale verificatasi in molti Paesi.

L’instabilità si manifestava attraverso l’esplosione dell’inflazione e dei deficit pubblici e le politiche economiche furono gradualmente indirizzate al controllo dell’inflazione ed al contenimento dei deficit pubblici. Quelle politiche hanno avuto successo e da molti anni ormai l’inflazione è sotto controllo e, almeno nell’area dell’Unione monetaria, grazie alle regole concordate, il livello del debito pubblico rispetto al Pil si è stabilizzato.

L’instabilità tuttavia, non è scomparsa. Essa è andata manifestandosi, negli ultimi venti anni, attraverso le crisi finanziarie, cioè la formazione e l’esplosione di bolle speculative: negli ultimi venti anni se ne contano sei di grande portata. Le bolle speculative sono, in fondo, un’altra forma di inflazione, l’inflazione dei beni patrimoniali, che le statistiche ufficiali, però, non rilevano e della quale le politiche economiche finora non si sono occupate. Solo di recente la Banca Centrale Europea, distinguendosi da quella statunitense e seguendo gli orientamenti della Banca Internazionale dei Regolamenti, ha ammesso l’esistenza del problema ed ha assunto come principale indicatore della sua gravità il livello di indebitamento dei privati, visto la forte relazione che esiste fra questi due fenomeni.

Il «Patto di stabilità» fissa dei limiti al livello accettabile dell’inflazione, dei deficit e dell’indebitamento pubblici. Non che esista, come si sosteneva, un rapporto automatico tra deficit pubblico ed inflazione, che i fatti hanno smentito, anche di recente: l’esplosione del deficit statunitense, dopo l’11 settembre, non ha avuto effetti apprezzabili sull’inflazione.

Un effetto, a certe condizioni, tuttavia, può esistere e, comunque, un eccesso di indebitamento pubblico è un male perché menoma, in prospettiva, il funzionamento dello Stato e le possibilità di sviluppo e riversa il peso di questi limiti sulle generazioni future. Anche se sarebbe bene valutarne l’andamento non solo nel singolo anno, ma in un arco pluriennale per dare al bilancio pubblico la possibilità di contrastare eventuali fenomeni recessivi.

Negli ultimi quindici anni, tuttavia, almeno in Europa, e soprattutto nell’area dell’euro, il fenomeno principale non è l’indebitamento pubblico, ma quello privato, soprattutto delle famiglie. A trainare questo processo sono i paesi anglosassoni: in Usa, Uk, Nuova Zelanda, Australia il livello di indebitamento delle famiglie è oltre il cento per cento del reddito disponibile, superando il record raggiunto alla vigilia della crisi finanziaria del 1929. E poiché dopo l’11 settembre tali paesi hanno aumentato anche i deficit pubblici, si è rafforzata la loro attitudine ad importare capitali dall’estero: oggi essi assorbono oltre il 90% dei flussi netti mondiali di capitale. Ma anche gli altri paesi europei stanno seguendo quella traiettoria ed il paradosso è che i principali finanziatori di questi paesi ricchi sono paesi relativamente poveri, come la Cina e l’India, nel quadro di uno sviluppo mondiale profondamente distorto.

Con il «Patto di stabilità» si è stabilito, giustamente, che un eccesso di indebitamento pubblico è cosa cattiva. Ma non è detto che un eccesso di indebitamento privato sia cosa buona o meno cattiva. Irving Fisher fu un grande economista statunitense, uno dei sostenitori della «new economy» nella versione anni 20, giacchè pare che questa teoria, che sostiene la scomparsa del ciclo economico, si ripresenti puntualmente all’inizio di ogni nuovo ciclo economico. Quando i fatti, cioè la grande crisi degli anni ’30, smentirono clamorosamente la sua teoria, egli analizzò quella crisi e ci ha dato di essa la spiegazione più accreditata, che individua nell’eccesso di indebitamento privato la causa principale della crisi finanziaria e della «grande depressione» che ne seguì.

Oggi questo è il rischio principale, che il patto di stabilità non rileva e neanche la Commissione europea. E questo nonostante l’allarme ripetutamente dato dalla Banca internazionale dei regolamenti ed ora da una serie di banchieri centrali europei, tra i quali Draghi. Ma forse la più importante ammissione viene da Merving King, Governatore della Banca Centrale inglese, cioè di uno dei paesi che traina il fenomeno dell’indebitamento, che in un importante discorso dedicato alla necessità di riformare il sistema finanziario internazionale riconosceva che oggi l’elemento più critico da considerare è «...il rapporto fra gli asset ed i debiti sull’estero dei principali paesi industrializzati». La valutazione del concorso di ciascun paese alla stabilità o instabilità dell’economia mondiale dovrebbe essere misurata, allora, non dal solo livello dell’indebitamento pubblico, ma anche da quelli dell’indebitamento privato e del tasso di risparmio, in ultima analisi, dal livello di indebitamento sull’estero.

Qualcuno ha provato a rielaborare le graduatorie con questo nuovo criterio ed il risultato è che paesi che, come l’Italia appaiono molto viziosi lo apparirebbero molto di meno e paesi che, come l’Inghilterra, appaiono virtuosi apparirebbero decisamente viziosi.

Il prevalere ancora dell’idea che l’eccesso di indebitamento pubblico sia cosa cattiva e quello privato cosa buona, così come buona sarebbe la crescita trainata dall’aumento di consumi privati finanziati con indebitamento è il segno della perdurante egemonia cultuale neo-liberista di origine anglosassone e della sua ideologia. Un approccio riformista non può non misurarsi con questa dimensione dei problemi per tradursi in proposte di riforma delle istituzioni internazionali e del loro funzionamento.


Pubblicato il: 10.07.07
Modificato il: 10.07.07 alle ore 9.54   
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