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Autore Discussione: Epifani: «Emergenza salari e prezzi, Berlusconi non ne parla»  (Letto 2622 volte)
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« inserito:: Aprile 21, 2008, 02:02:23 am »

Epifani: «Emergenza salari e prezzi, Berlusconi non ne parla»

Oreste Pivetta


Anche i sindacati nella bufera postelettorale. A trascinarceli più che il voto, però, è stato l’addio di Montezemolo, dopo quattro anni alla testa di Confindustria. Al nuovo governo Montezemolo si è presentato con un attacco pesante ai sindacati, una «casta di professionisti del veto». Già che c’era, Montezemolo ha spiegato anche le elezioni: «I lavoratori non si sentono più rappresentati da forze politiche e sociali, incapaci di dare risposte vere ai loro problemi concreti». Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil, ha subito risposto: «Parole estremiste, soffia sul fuoco».

Epifani, sorpreso? Rispetto a quale pericolo ammoniva con quel «soffia sul fuoco»?
«Non è la prima volta che si esprime in questi toni. Cambia bersaglio: il sindacato, il governo, le banche, la pubblica amministrazione. Sempre collocando al centro dell’universo l’impresa, assolvendola da qualsiasi responsabilità».

Una “centralità” molto comoda. Epifani, ci faccia un esempio però.
«La sicurezza sui luoghi di lavoro. Noi non abbiamo perso un attimo a chiamare in causa anche i ritardi del sindacato, invitando a far di più sui luoghi del lavoro: più prevenzione, più formazione, più contrattazione. Quando il governo ha approvato il decreto di attuazione del testo unico sulla sicurezza, abbiano persino avuto il buon senso di intervenire sulla portata delle sanzioni per renderle più accettabili da parte di Confindustria. La risposta è stata il nulla, il vuoto di affermazioni del tipo: non si può far carico all’impresa... Ancora a proposito di sicurezza: non ho sentito la voce di Confindustria, dopo la tragedia di Torino, quando la Thyssen cercava di minimizzare, nascondere, impedire le cause, neppure quando si è letto di quel documento contro i lavoratori, così antidemocratico, al limite del razzismo. Invece, di fronte al decreto, s’è potuto solo misurare un attacco forsennato...»

Contro chi «soffia sul fuoco» Confindustria?
«Ho invitato alla prudenza, in un momento di difficoltà, quando sarebbe necessaria razionalità. Teniamo conto della condizione dei lavoratori, che è di bassi salari, di prezzi alti, di precarietà dell’occupazione, di prospettive incerte. Sì, penso proprio che Montezemolo, con quelle accuse, abbia rischiato e forse stia rischiando di accendere il fuoco della rivalsa».

Anche nel centrodestra c’è chi ha avvertito il pericolo: dal leghista Calderoli a Giuliano Cazzola del Pdl. Il momento è anche quello “elettorale”, che potrebbe indurre quella sinistra ormai extraparlamentare a giocarsi la rivincita inasprendo il conflitto?
«E sarebbe profondamente sbagliato. Sabagliata sarebbe la strada di chi non vuol fare i conti con il significato del voto e con gli umori del paese. Credo che la direzione debba essere un’altra. Vale per tutti: non cercare l’estremizzazione del scontro e misurarsi invece con il merito dei problemi. Assumendo anche la fatica del confronto che è il sale della democrazia...».

Lo stiamo dicendo anche a Montezemolo. L’ha stupita in versione filogovernativa?
«Non mi ha stupito un esplicito sostegno preventivo all’azione di governo. Quasi avesse da farsi scusare qualcosa. Solo che l’autonomia sempre rivendicata diventa così funzionale a un interesse del momento...».

Montezemolo poco strategico. Ma intanto mette le mani avanti.
«Appunto. Come al solito, vuole condizionare le scelte del governo, che comunque in buona parte andranno in direzione di alcune richieste di Confindustria. È prevedibile. Confindustria cerca di avere per sé il massimo delle politiche distributive e degli interventi di sostegno».

Dall’altra parte ci siete voi, i sindacati. Che chiederete?
«Chiederemo al nuovo governo quello che avremmo chiesto al vecchio. C’è un problema, che si chiama salari, pensioni, prezzi. Una riposta è urgente, mentre si è perso fin troppo tempo. La nostra idea è nota: uno sgravio fiscale per sostenere i salari e le pensioni, così come avevamo proposto con la nostra piattaforma. Come ha fatto in questi giorni il leader spagnolo Zapatero: per sostenere la domanda interna restituirà ai lavoratori dipendenti quattrocento euro, grosso modo la stessa cifra che noi riteniamo si possa restituire ai lavoratori e ai pensionati, attingendo al famoso tesoretto. Ci si poteva arrivare prima. Il guaio è che il nuovo probabile governo continua a tacere. Adombra due altre strade, l’eliminazione dell’Ici e la detassazione dello straordinario, evidentemente ignorando quella indicata da noi, che è preferibile perchè avrebbe effetto sui consumi e consentirebbe di dare respiro al paese in una fase di rallentamento dell’economia».

Mentre Ici e straordinari proprio non vi vanno giù...
«L’ho già detto e lo ripeto. Va bene un processo graduale di riduzione dell’Ici. Ma in virtù delle scelte compiute dal governo Prodi già l’Ici non si pagherà per la metà o quasi delle case italiane e abolirla da subito per tutti avrebbe un costo molto alto. Con il rischio di mettere in difficoltà le amministrazioni...»

Cancellando l’unica imposta di peso “federale”...
«Anche la misura sugli straordinari presenta controindicazioni. In Francia, dopo quasi un anno dalla sua istituzione, secondo la commissione parlamentare che se ne occupa, il bilancio non è positivo proprio dal punto di vista dell’impresa, perchè ci sarà una spinta a lavorare di più per guadagnare di più, ci sarà un’occasione più forte di flessibilità, ma poi si mettono in discussione gli equilibri retributivi, si chiude all’occupazione giovanile, cade l’attenzione sulla sicurezza, si determina una differenza tra il reddito degli uomini e quello delle donne e talvolta, paradossalmente, si riduce la possibilità di riconoscere il merito e la capacità professionale, il tutto in una logica puramente di quantità, che è esattamenie il contrario di quanto imporrebbe la sfida internazionale, che chiede invece qualità, conoscenza, innovazione... Non mi sfugge il fatto che detassare gli straordinari per una parte dei lavoratori significherebbe rispondere a una esigenza di maggior retribuzione. Ma è una soluzione al ribasso che dividerà i lavoratori, indebolirà la contrattazione di secondo livello, quella che a parole anche Confindustria vuole incentivare. Allo stesso modo si dovrebbe considerare l’idea di detassare altre parti variabili del salario...»

Una settimana dopo le elezioni, siamo un’altra volta a interrogarci sul voto operaio. Che fine hanno fatto le tute blu?
«È da quindici anni che la Cgil ha mostrato come il voto dei lavoratori sia molto più mobile che nel passato. Da tempo abbiamo analizzato questi flussi a favore della Lega in regioni come la Lombardia e il Veneto. Il punto è che il cosiddetto voto operaio è mobile in un senso come nell’altro: due anni fa, ad esempio, questo voto tornò al centrosinistra. Anche in questa circostanza in molte altre parti del nord si è andati perso il Pd, ad esempio nelle cinture industriali di Genova, Torino e della stessa Milano. Non è la condizione operaia a dare la differenza, lo è invece il rapporto con il territorio. I lavoratori sono cittadini che non vivono solo nel lavoro, ma vivono in una città, in un paese, in una comunità, frequentano un determinato ambiente e ne sperimentano tutti i problemi. Se si vuole quel voto, bisogna far fronte a quei problemi...»

Anche questo, cioè l’insufficienza o l’astrattezza della risposta, spiega la sconfitta della sinistra radicale?
«Che la sinistra radicale non stia in parlamento è grave. Mi pare grave anche la tentazione di spiegare come sono andate le cose dando la colpa agli altri. Come dicevo, sarebbe un errore cercare, per rivalersi subito, di accentuare la radicalità del conflitto. Si andrebbe in direzione opposta ad una esigenza palese di concretezza, come esprime un voto così poco ideologico».

“Radicamento” è diventata parola chiave di qualsiasi interpretazione politica. La convince l’idea di alcuni che il Partito democratico per radicarsi dovrebbe intanto filiare un partito democratico del nord?
«Quello che mi convince è un partito che si radica in tutti i territori. Penso al nord, al centro, al sud. Radicarsi dovrebbe essere l’obiettivo di qualsiasi partito, che dovrebbe costruire una propria fisionomia territoriale, sapendo che il cuore batte là dove sono i cittadini, in un processo che va dal basso e che si alimenta, di luogo in luogo, di autonomia nelle scelte che contano, cominciando dalla costruzione della rappresentanza e dalla scelta degli amministratori».

Dicono molti che tra sinistra o centrosinistra dovremmo tutti copiare la Lega.
«Bisognerebbe guardare alla nostra storia, considerando quella che fu la forza di insediamento di culture politiche come quella socialista, comunista o cattolica popolare. Ovunque. Dove i nostri luoghi organizzati ci sono e dove sono riferimento, abbiamo visto come è andato il voto».

Pubblicato il: 20.04.08
Modificato il: 20.04.08 alle ore 8.12   
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