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Autore Discussione: Bergman ammirava Hitler  (Letto 3338 volte)
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« inserito:: Agosto 29, 2007, 05:47:44 pm »

29/8/2007 (8:48) - POLEMICHE IN SVEZIA

Bergman ammirava Hitler
 
La cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Berlino del 1936.
 
Arte e politica il passato che non passa

FRANCESCO SAVERIO ALONZO
STOCCOLMA


All’indomani della morte del regista Ingmar Bergman, alcune donne coraggiose sono partite all’attacco dell’intellighenzia svedese per l’omaggio al grande scomparso. «Piú vigliacchi dello stesso Bergman - dichiara in un grande articolo sullo Svenska Dagbladet la scrittrice Maria Pia Boethius - così servili da squalificare la nazione. Hanno taciuto le sue colpe».

Ma in cosa consisterebbero le colpe di Bergman? Nell’aver nutrito per ben dieci anni una smisurata ammirazione per Adolf Hitler. Di questo periodo, segnato da un’esaltazione quasi mistica per un Ordnung perfetto capace di elettrizzare un’intera nazione, lo stesso Bergman parla ampiamente nel libro autobiografico Lanterna Magica e non fa mistero del modo in cui, assistendo a una parata in occasione delle Olimpiadi di Berlino del 1936, si sentisse trascinato dall’entusiasmo unanime per il «salvatore della Germania».

Io stesso ebbi a domandargli, alla presentazione della prima del film Le uova del serpente se egli conservasse alcun ricordo di quell’epoca ed egli mi rispose su per giú cosí: «Allora c’erano soltanto due strade: il bolscevismo e il fascismo. Io avevo soltanto 18 anni la prima volta che vidi Hitler. In lui noi giovani vedevamo un uomo capace di ristabilire l’ordine e il benessere in una nazione sconvolta dai disordini e assediata dal pericolo comunista. È vero, tornai in Svezia con un’immagine quasi ieratica di quel condottiero».

Ricordo che mi guardò a lungo, con quegli occhi magnetici, ma abbozzando un sorriso molto affabile e mi dette un buffetto sulla nuca: «Anche voi, in Italia...» disse infine, allontandosi.

La Boethhius non intende tanto attaccare Bergman quanto coloro che, nel tesserne il curriculum artistico, hanno saltato il periodo in cui il regista era influenzato dalle teorie naziste e che coincideva con la sua formazione di regista teatrale e, in seguito, cinematografico. In una lunga intervista, che la Boethius usò nella seconda edizione del proprio libro sulla seconda guerra mondiale, Ingmar Bergman le fece delle confessioni talmente scottanti che, rileggendo le bozze, egli si vide costretto a cancellare in gran parte per non esporsi troppo.

Dice la scrittrice: «Nel libro ci sono i passi approvati dell’intervista, ma in qualche ricettacolo in soffitta, conservo l’intervista integrale. Gli piaceva parlare con me perché ero ben documentata sull’argomento e potevo fargli delle domande spregiudicate, provocanti, ma prima della pubblicazione si risvegliò in lui l’istinto del regista e dovetti rispettare la promessa che gli avevo fatto di cancellare ciò che non gli andava a genio. Un bel giorno però consegnerò tutto il materiale a qualche studioso coraggioso».

La Boethius non critica tanto l’entusiasmo giovanile di Bergman per Hitler quanto il modo in cui fra gli osanna universali si sia tralasciato di parlarne. Da uno stralcio dell’intervista si legge: «Quando furono aperti i campi di sterminio, non riuscivo a credere ai miei occhi. Credevo che si trattasse di propaganda alleata. Ma quando appresi tutta la verità, subii uno shock terribile. In un modo violento e brutale venni strappato alla mia ingenuità. L’uomo è una voragine e provo terrore a scrutare nel suo fondo, come dice George Büchner nel suo Woyzcek».

Ingmar Bergman ha parlato spesso dell sua giovanile ammirazione per Hitler come della piú grande truffa che egli avesse commesso ai danni del proprio io. Ma la giornalista Cornelia Edwardsson aggiunge altri dettagli sul pentimento tardivo di Bergman. «Nella sua autobiografia, Bergman descrive il pianto dirotto in cui scoppiò apprendendo la notizia della morte del Führer e questa confessione, per quanto sorprendente, gli fa onore. Ma quando egli spiega come già da lungo tempo avesse perdonato a se stesso gli errori di gioventú, sbaglia di grosso. Chi si era lasciato incantare da un’ideologia che assegnava a certi esseri umani la qualifica di "untermenschen" non aveva il diritto di perdonare se stesso. Sono infatti le vittime, caso mai, ad avere il diritto di perdonare e questa legge del pentimento vale anche per gli artisti».

da lastampa.it
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