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Autore Discussione: L’anima spenta della scuola  (Letto 3252 volte)
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« inserito:: Luglio 07, 2007, 05:12:01 pm »

L’anima spenta della scuola

Marina Boscaino


«Raddoppiamo gli stipendi agli insegnanti italiani» è il titolo di una interessante riflessione di Pietro Citati apparsa su La Repubblica di qualche giorno fa. Il forum è stato letteralmente preso di mira, scatenando in alcuni casi il risentimento e la rivendicazione da parte di altre categorie professionali - costituite soprattutto da giovani - spremute come agrumi succulenti e poi buttate via in questo precario mondo di precariato: una triste guerra tra poveri. Sono seguite poi le risposte del ministro Fioroni e di Enrico Panini, sostanzialmente d’accordo con le affermazioni di Citati. Che, nella prima parte del suo intervento, sviluppa un percorso nostalgico sugli insegnanti della «sua» scuola (Citati è nato nel 1930) che produce l’effetto di sottolineare inequivocabilmente il divario tra quella classe di insegnanti e l’attuale. Una dicotomia che - pur presentando dei lati deboli nell’analisi - trova un proprio motivo d’essere se si osserva la scuola oggi.

La crisi degli insegnanti (iniziata, nell’analisi di Citati, dopo il ‘68 e sostanziata dalla riforma delle elementari, dall’immissione in ruolo di pessimi insegnanti, dalle inottemperanze ministeriali e dall’inadeguatezza dei programmi: molti elementi che - assieme alla citazione della Mastrocola - non condivido, pur trovandomi d’accordo con l’affermazione generale) si acutizza a partire dagli anni ‘90. Fu allora che due particolari categorie di utenti cominciano a pressare la scuola con richieste tra loro del tutto diverse. Gruppi di opinioni - entrambe dal forte potere contrattuale e dalla grande capacità di incidere - che hanno determinato indecisione, perdita di uno statuto istituzionale convincente, nel tentativo di accontentare quelle sollecitazioni rispondenti a esigenze diverse: domanda di sapere e di istruzione da parte di un certo tipo di utenza (animata da coscienza critica, consapevolezza culturale e volontà di fronteggiare ogni deriva qualunquista), che chiedeva alla scuola risposte che - pur ancorate all’impianto culturale tradizionale - tenessero conto del rapido cambiamento di eventi, condizioni e visioni del mondo e trovassero strumenti per la loro decodificazione e interpretazione.

Dall’altra parte, la presenza di un’utenza progressivamente maggioritaria, sensibile alla facile e violenta lusinga di modelli culturali alternativi, che della scorciatoia e della logica dell’improvvisazione, del culto del successo immeritato, dell’apologia di una versatile superficialità ha creato esemplari mistificazioni. Una maggioranza che ha scelto (o è stata indotta a scegliere) e ha preteso sempre più un modello di scuola prevalentemente depotenziata da funzioni istituzionali forti (la scuola delle «tre i» della Moratti ne è la conseguenza più illuminante), sempre più ridotta a mercato di sottocultura e di sottoformazione, aggredita nel suo statuto di luogo della conoscenza, di ritrovo di intelligenze e intellettualità. Una maggioranza per lo più deprivata da un punto di vista culturale, vittima inconsapevole degli incanti del mercato globalizzato, acquirente incauta tanto di merci e facili suggestioni quanto di prodotti culturali di livello sempre più infimo.

Gli altri hanno taciuto, non hanno avuto né la capacità né la possibilità di avanzare richieste, di incidere in maniera significativa sul processo di trasformazione: fuori per estrazione culturale ed economica dalla possibilità di creare opinione.

E gli insegnanti dove erano? Non più unicum indiscutibile quanto a competenze, conoscenze, autorevolezza (dal momento che, intanto, sommari criteri di reclutamento ne indebolivano progressivamente lo spessore culturale); quanto a rigore e riconoscimento sociale (si andava maturando la rottura del patto educativo con le famiglie, in una complessiva delegittimazione della funzione dei docenti). Insegnanti progressivamente allontananti da qualunque reale possibilità di intervento rispetto ai propri destini, demotivati e disorientati, interpreti ambigui della cosiddetta «modernità»: alcuni aborrendola anche nei suoi aspetti costruttivi di sollecitazione e cambiamento rispetto alla complessità e alla diversità che caratterizzano il mondo oggi, per le quali gli strumenti tradizionali risultano inadeguati e obsoleti. Stabilendo, altri, in maniera dilettantesca e nel tentativo di scrollarsi di dosso responsabilità culturali, educative e politiche, un’impropria equazione acritica tra moderno e positivo (occhieggiare alla quale è anche il vizio di molti rappresentanti politici, che per la rincorsa alla «modernità» hanno liquidato sommariamente idee e pezzi fondamentali della nostra storia). Attestandosi - questi ultimi - su posizioni di subordinazione a logiche di mercato, rifiutando la sfida di una globalizzazione sostenibile anche in campo culturale, rinunciando a gettare semi per la formazione di coscienza critica.

Il problema è tentare di definire se nasca prima l’uovo o la gallina: se, cioè, la demotivazione degli insegnanti sia il prodotto degli stipendi indecenti che essi percepiscono, anche a fronte dei luoghi comuni rispetto ad una serie di prerogative che avrebbero (vacanze lunghissime, tempo libero indeterminato); o se la causa dell’inconsistenza dei salari sia da individuarsi nel fatto che troppi sfruttano la reale possibilità (che pure esiste) di far poco. Sentendosi, di conseguenza, legittimati a non investire in termini - anche etici oltre che professionali - sul proprio lavoro. Il resto è stato propiziato da uno sviluppo non coordinato di tipo liberistico, che in una malintesa accezione di autonomia scolastica ha ritenuto di qualificare l’offerta formativa della scuola attraverso l’erogazione spregiudicata di progetti, che ne hanno intaccato la qualità sostanziale. Si è tentata - di fatto - con la stagione dei tanti progetti una scelta di modernizzazione senza procedere ad una contestuale azione di riforma.

La scuola italiana oggi vive succhiando parassitariamente le energie di folti gruppi organizzati di resistenza attiva. Gente che, nonostante questo panorama sconfortante, l’umiliazione economica e sociale, la noncuranza della politica, l’accidia di molti colleghi e dirigenti scolastici, decide di non mollare: si aggiorna, partecipa, interviene, studia, educa, motiva, ci crede, ci sta. Non è civile. Perché è il gioco al ribasso di chi sa di poter contare sui soliti idealisti: là dove - paradossalmente - l’idealismo sta nell’interpretazione corretta del mandato costituzionale. Non è civile da parte dello stato, che nella scuola dovrebbe investire in termini di risorse economiche che si traducono in democrazia, libertà, progresso. Né da parte di chi interpreta in maniera impiegatizia un lavoro fondamentale per ciò che il nostro paese diventerà. Che ha rinunciato alla propria dimensione intellettuale e alla nobiltà della propria funzione; che segue i collegi dei docenti con la busta della spesa sotto la sedia, nell’impazienza di archiviare una pratica noiosa; e che segue i propri allievi con l’automatismo, l’indifferenza, la non adesione che non possono essere mai riservati a bambini e ragazzi. Se gli insegnanti italiani sono ridotti a una specie di sottoproletariato, come sostiene Citati, la responsabilità - oltre che del disinvestimento politico - è anche dei troppi tristi travet che circolano nelle nostre scuole.

Pubblicato il: 07.07.07
Modificato il: 07.07.07 alle ore 11.18   
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