LA-U dell'OLIVO
Novembre 01, 2024, 12:48:35 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Dalla parte dei più deboli  (Letto 2413 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Marzo 18, 2008, 08:52:10 pm »

Dalla parte dei più deboli

Laura Pennacchi


L’ulteriore tonfo delle borse mondiali segue i più recenti avvenimenti che si sono prodotti sul fronte finanziario negli Usa, cioè il collasso del fondo Carlyle e il vero e proprio salvataggio “pubblico” della banca d’affari Bear Stearns. Si comincia a profilare con più chiarezza la ramificazione e la profondità degli squilibri economici americani, la percezione dei quali, così come ha imposto domenica la improvvisa anticipazione della decisione della Federal Reserve di abbassare il tasso di sconto al 3,25%, impone oggi il consulto di emergenza tra Bush e i responsabili statunitensi della politica economica e monetaria.

Nel valutare il da farsi non si deve perdere di vista, però, che sono due i fenomeni che stanno sconvolgendo l’economia mondiale: la recessione che promana dalle fonti di instabilità accumulatisi negli USA da un lato, l’accelerazione delle dinamiche innovative sulle frontiere tecnologiche dall’altro. Entrambi tali fenomeni per l’Italia pongono le questioni di politica economica e sociale a+l centro del dibattito elettorale e, tanto più, dell’attività del governo che nascerà dal voto del 13-14 aprile. Essi reclamano, infatti, l’immediata attivazione di una politica al tempo stesso anticiclica e strutturale, la quale, per avere il respiro e l’ampiezza adeguati, deve essere di dimensione europea e dotata di un profilo strategico che, per parte mia, non esiterei a definire neo-keynesiano. Un profilo, cioè, tale da agire rapidamente e congiuntamente, oltre che sulla offerta, su ambedue le componenti delle domanda aggregata: quella per consumi, espressa dai redditi, e quella per investimenti, in primo luogo in Ricerca e Sviluppo e in formazione.

L’esigenza di una prospettiva neo-keynesiana di "sviluppo umano" a scala europea nasce dalla consapevolezza delle iniquità presenti nella globalizzazione in atto e delle opportunità per l’Europa di ergersi a soggetto di una globalizzazione equa, a partire dalla sollecitazione di un nuovo ordine, economico e monetario, mondiale cha abbia la statura di quello disegnato da Keynes a Bretton Woods nel 1944 (del quale parlavo diffusamente in un articolo comparso su "l’Unità" del 28 settembre scorso). Tale prospettiva costituisce l’unica, vera, drastica alternativa al "colbertismo" protezionista riscoperto dal duo Berlusconi-Tremonti in campagna elettorale, con la sua natura chiusa, miope, fossilizzante, e con il suo corredo populista mirante a sollecitare un vero e proprio disprezzo dell’argomentazione razionale (un commentatore non riusciva a trovare la fine di possibili definizioni per l’ultimo Tremonti: "antimercatista, colbertista, antieuropeista, citazionista, familista, federalista, catastrofista, localista, nuclearista, tributarista, fiscalista, antiglobalista…"). Per una prospettiva di "sviluppo umano" a scala europea si tratta di fare leva su quell’immenso tesoro di cui dispone l’Europa - e di cui l’Euro è "scudo" (grazie alla forza che sta acquisendo come moneta di riserva mondiale) - costituito dalla sua "domanda interna", predisponendo un grande progetto di sviluppo ispirato alla logica del Piano Delors (infrastrutture e grandi reti), facendone la "lancia" oggi mancante in grado di veicolare verso investimenti produttivi i capitali richiamati dalla forza dell’Euro. Il senso di fondo di questa progettualità dovrebbe essere il seguente: porre le nuove tecnologie - che scaturiscono dagli straordinari avanzamenti in atto nelle scienze della vita, in quelle della materia, in quelle dell’informazione - al centro e al servizio di una maturazione della domanda interna europea le cui trasformazioni diventino il motore di un generale elevamento della qualità della vita, di un più equilibrato modello di sviluppo, di una nuova stagione di umanesimo. Tutte le aree del vivere associato dovrebbero essere coinvolte in questo bagno innovativo: società civile, sanità e welfare, trasporti e distribuzione, ambiente e energia, scuola e risorse umane, lavoro e impiego, sicurezza pubblica e protezione civile, economia e industria, pubblica amministrazione, affari internazionali. Sfera economica, sfera tecnologica, sfera sociale dovrebbero essere poste finalmente in sinergia e un paese come il nostro, afflitto da storiche carenze di qualità, di capitale sociale e di efficienza, dovrebbe trarne giovamento, sia in termini di produttività sia in termini di equità. Infatti, i ritardi accumulati dall’Italia in questi campi possono essere trasformati, grazie al progresso tecnico e alle nuove tecnologie, in altrettanti atout. Occorre, però, basandosi sulla vigorosa operazione di risanamento compiuta dal governo Prodi, varare grandi progetti, adottare una politica economica e sociale che susciti slancio concentrando gli sforzi sul rilancio della ricerca scientifica e tecnologica, dell’innovazione, della formazione. Su questa urgenza c’è un punto illuminante: tanto la bassa crescita italiana quanto la stagnazione dei redditi sono una conseguenza della scarsa dinamica della produttività e quest’ultima, a sua volta, è una conseguenza della stasi e della inadeguata composizione degli investimenti, in particolare di quelli volti ad alimentare lo stock di capitale, rimasto inalterato in Italia negli ultimi anni. È cruciale l’interrelazione negativa bassa crescita-bassi salari-bassa produttività-bassi investimenti. Dal 2000 al 2007 l’incremento medio dei salari reali è stato appena dello 0,7%, in diretta connessione con il decremento della dinamica della produttività, passata dal 2,4% medio annuo della seconda metà degli anni ’80 all’1,1 della seconda metà degli anni ’90, allo zero nel periodo 2001-2006, quando si è attestata su un livello inferiore del 26% a quello della Francia e del 20% a quello della Germania. In particolare, la produttività totale dei fattori - vero indicatore della capacità di un sistema di valersi di progresso tecnico, conoscenza, capitale organizzativo - fino alla fine degli anni ’90 sempre elevata in Italia pur con un trend decrescente, dal 2000 al 2004 ha fatto registrare un decremento medio dello 0,6 all’anno, a fronte di incrementi dell’1,8 in Francia e dello 0,7 in Germania.

Al cuore di questa scarsa dinamica della produttività stanno l’andamento degli investimenti e quello della costituzione di stock di capitale. Per gli investimenti, nell’epoca di "innovazione continua" nella quale viviamo a livello globale, non c’è niente di più eloquente della quota sul Pil delle spese in Ricerca e Sviluppo. Quella italiana è ferma da alcuni decenni all’1,1%, con una componente privata bassa, pari allo 0,5%. Nell’Europa a quindici, che presenta una media del 2%, il nostro paese è agli ultimi posti, distanziato di tre-quattro volte dagli altri partners. La Germania ha una quota di spese in Ricerca e Sviluppo sul Pil del 2,5% (1,75 per le imprese), la Francia del 2,2% (1,4 per le imprese), gli Usa del 2,7 (1,9 per le imprese), il Giappone del 3,1 (2,2 per le imprese). Ma anche per lo stock di capitale le cose non sono lusinghiere per l’Italia e, in minor misura, per l’Europa. Sapevamo che negli anni ’90 la vera differenza tra Europa e Usa è consistita, in realtà, oltre che nelle politiche macroeconomiche (negli Usa basate sui "deficit gemelli" e sull’uso aggressivo del tasso di cambio), nel tasso di crescita degli investimenti, alto in America e in termini di capitale per lavoratore (soprattutto attraverso il miglioramento del contenuto di investimenti in Ict), basso in Europa per entrambi gli aspetti. Ora dobbiamo anche rilevare, come ci spinge a fare una recente ricerca del Cer presieduto da Giorgio Ruffolo, che, mentre negli Usa i salari reali sono aumentati allo stesso ritmo della produttività e sono rimasti associati a un notevole processo di investimenti, in Italia la moderazione salariale - che ha abbassato il costo del lavoro rendendolo un fattore più economico - ha paradossalmente fatto sì che le aziende avvertissero "una pressione minore ad aumentare l’intensità di capitale della loro produzione" ed è proprio questo che da un lato ha causato un rallentamento della produttività, dall’altro non ha spinto i più alti margini di profitto a tradursi in più investimenti, più rapido aumento dello stock di capitale totale, maggiore estensione della capacità produttiva. Invertire queste tendenze e rilanciare l’innovazione, ideare e mettere in atto un grande progetto che utilizzi le leve del capitale umano, dei redditi e degli investimenti, è cruciale per sostenere la crescita e alimentare la produttività, facendo perno su giovani, donne, patrimonio ambientale e culturale, le risorse più preziose e al tempo stesso più inutilizzate che l’Italia oggi possiede.

Pubblicato il: 18.03.08
Modificato il: 18.03.08 alle ore 12.16   
© l'Unità.
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!