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Autore Discussione: Sereni: la mia vita con la schizofrenia  (Letto 2743 volte)
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« inserito:: Marzo 21, 2008, 12:12:09 am »

Sereni: la mia vita con la schizofrenia

Cristiana Pulcinelli


Matteo in una scena del documentario "Un silenzio particolare"«Matteo è nato nel 1978, proprio quando è stata approvata la 180. Qualche volta ho cercato di immaginare cosa sarebbe stato di lui senza la legge. Ma non riesco a soffermarmi a lungo su questo pensiero perché è troppo spaventevole. Credo che sarebbe finito presto in un istituto e che noi non avremmo pensato a possibili alternative». Matteo è il figlio di Clara Sereni e di Stefano Rulli ed è schizofrenico. Clara Sereni ha affrontato il problema della malattia mentale nei suoi libri, a cominciare da Manicomio Primavera del 1989.

Stefano Rulli, sceneggiatore e regista, ha girato nel 2004 Un silenzio particolare, un film sulla storia della loro famiglia che ha vinto il Davide di Donatello. Da dieci anni tengono in piedi una fondazione che si occupa di persone con disagi psichici. Clara è la presidente.

La vostra storia personale vi ha portato ad affrontare il tema della malattia mentale?
«In realtà abbiamo iniziato ad occuparcene prima della nascita di Matteo. Stefano aveva girato Matti da slegare, il documentario sui manicomi uscito nel 1975. Inoltre, la psichiatria in quegli anni era un pezzo del movimento e quindi ci apparteneva. E il lavoro di quegli anni ci è stato molto utile, dopo, per non perdere la lucidità».

E poi cosa è successo?
«Poi ci siamo caduti dentro. All’inizio non abbiamo capito, ci sono voluti anni: capire non è stata una passeggiata. Non dico “accettare”, perché non si accetta mai fino in fondo».

Qual è il problema di Matteo?
«Matteo è schizofrenico ed è grave perché lo è dalla nascita. Se la crisi psicotica interviene più avanti, diciamo verso i 18 anni, la persona ha strutturato un pezzo di personalità: sa leggere e scrivere ad esempio. Ma se interviene presto, non ha la possibilità di farlo».

All’epoca abitavate a Roma, poi siete andati via. Perché?
«Roma non è una città vivibile per chiunque abbia problemi. Aveva in sé una dose di violenza per cui era difficile immaginare un futuro».

Ci vuole raccontare un po’ di quella violenza?
«Matteo e Stefano sono a piazza Argentina. Matteo avrà 10 anni ed è in piena crisi. Una crisi che nessuno può confondere con un capriccio. Vuole buttarsi in mezzo alla strada e Stefano fa l’unica cosa che può fare: bloccarlo. Lo spinge contro un’edicola, Matteo comincia a dare testate all’indietro contro la vetrina del negozio. Il proprietario si precipita fuori, non per aiutarli ma per urlare contro chi, secondo lui, voleva rompere il vetro».

Così è maturata la scelta di trasferirvi a Perugia?
«Sì, ma verso Perugia ci spingeva anche la volontà di entrare in una rete di familiari e servizi che in quella città erano abbastanza attivi. Ci eravamo resi conto che la risposta singola non esiste. Così siamo entrati in un’associazione di familiari che lavorava insieme ai servizi pubblici. I familiari non erano utenti, ma, in quanto portatori di conoscenze, erano attori del progetto. Dopo un po’ abbiamo capito però che i servizi pubblici da soli non bastano. Il problema è che il servizio pubblico ha per compito quello di dare il maggior numero di risposte, ma questo spesso avviene a scapito della qualità. Comunque, finché i figli erano piccoli avevamo tante di ipotesi di lavoro che, quando messe in pratica, funzionavano anche. Dopo un po’ però l’associazione è implosa».

Perché?
«Il nostro lavoro comportava che rendessimo i nostri figli più autonomi e soprattutto che ci arrendessimo all’idea che tutto quello che facevamo non poteva guarire i ragazzi. E queste due cose sono difficili da accettare. Io credo che qualche parte di me è ancora in attesa dell’ora x in cui Matteo guarirà. L’accettazione del fatto che le persone possano avere una vita degna di essere vissuta anche senza guarire va di pari passo con quella della loro autonomia. Nella visione della nostra società queste persone sono figli per sempre. Pensiamo ai reportage sui malati: anche quando sono in là con gli anni, li si definisce sempre “ragazzi”. D’altro canto, i familiari sanno che il mondo non sta lì pronto ad accoglierli a braccia aperte e non c’è quindi da stupirsi se hanno paura».

Quando è nata la Fondazione La città del sole?
«Nel 1998. L’idea su cui si fonda è che tutti abbiano bisogno di normalità e queste persone più degli altri. Così, non facciamo niente apposta per loro, ma creiamo contesti di normalità forti e buoni, tanto da essere in grado di accogliere anche chi ha gravi problemi. Un esempio: la residenzialità. Invece di fare case famiglia, mettiamo insieme 3 persone che hanno un normale bisogno abitativo, ad esempio ragazzi che non hanno soldi per pagare l’affitto ma vogliono andare a vivere per conto loro, e una persona con problemi. La Fondazione paga la casa e ognuno si paga le spese quotidiane. Dalle 8 di sera alle 8 della mattina vivono insieme, poi ognuno prende la sua strada. Questo permette una vita normale, come in una casa abitata da studenti. In questo modo anche la persona con problemi può avere una vita come quelli della sua età, con il concerto, il cinema, le uscite del sabato sera. Una vita degna di essere vissuta».

Chi sono i coabitanti?
«Non sono operatori, ma vengono scelti con qualche criterio, primo fra tutti una sensibilità verso il sociale. Qualcuno se ne è andato, ma nel complesso funziona e spesso anche loro percepiscono un elemento di arricchimento personale dall’esperienza».

E i bellissimi casali che si vedono in «Un silenzio particolare»?
«Quelli fanno parte del progetto “turismo per tutti”. Nei casali, che sorgono sul monte Peglia, si fa una normale accoglienza turistica, ma con una particolare attenzione alle persone con problemi. Vengono da noi famiglie, associazioni, Asl. Una volta l’anno facciamo una festa che chiamiamo il Merendanzo: si mangia, ci sono eventi come la lettura di poesie, si canta, c’è la pesca, il mercatino. Lo scopo è duplice: la divulgazione di quello che facciamo e la raccolta fondi. Ma il Merendanzo è anche un momento in cui si vede che se metti insieme “sani” e “diversi” in una situazione buona, si può stare bene. Quest’anno la festa sarà l’8 giugno».

Come Fondazione avrete molti contatti con i familiari dei malati, quali sono i loro problemi?
«Quando sento frasi come “questi genitori eroici” penso sempre “beato il paese che non ha bisogno di eroi”. La difficoltà delle famiglie è reale e prevalente. Le famose strutture intermedie che la legge 180 prevedeva sono poche, i figli spesso stanno in collo ai genitori con un danno doppio: non solo i genitori non possono “liberarsi” dei figli, ma si elimina il fatto che anche questi figli hanno il diritto di essere liberati dai genitori. Io che sono una privilegiata per cultura, censo, posizione sociale, se ripercorro la mia vita negli ultimi 30 anni mi accorgo che è largamente condizionata da mio figlio. Ci sono famiglie in cui questo condizionamento è enormemente più pesante».

Quanto conta nella sua vita la Fondazione?
«È la mia maternità vicaria e la mia prima occupazione. La scrittura, a dire il vero, viene molto dopo».

Dopo la chiusura delle strutture manicomiali negli anni Novanta, sono sorte molte imprese sociali. Sono utili?
«Sono una bellissima cosa, ma qualcuno deve occuparsene. Voglio dire che la parte pubblica deve programmare, qualche volta può anche fare dei progetti assieme alla cooperativa o al privato, ma sempre e in ogni caso deve verificare e controllare. Noi siamo privati ma, avendo contributi pubblici, abbiamo chiesto un tavolo di valutazione condiviso, che peraltro non siamo mai riusciti ad ottenere. Perché chiunque, anche con le migliori intenzioni, può ritrovarsi ad essere Pagliuca. Soprattutto oggi che fondazioni e cooperative si moltiplicano, la rete di controllo deve essere stretta. E non mi sembra che lo sia».

Che cosa serve oggi?
«Servono più fondi perché si tratta comunque di attività costose, anche se un tempo si diceva “nessun progetto costa quanto un giorno di manicomio” ed è vero. Serve più personale nei servizi. Serve un progetto-obiettivo che dia linee di indirizzo più chiare di quelle disponibili al momento. Serve che si lavori di più con le famiglie. Un lavoro che si articoli in ascolto e terapia, perché una famiglia in cui c’è un disagio si ammala. E serve un po’ di memoria storica: oggi ci dicono di nuovo che l’elettroshock va bene. Si ricomincia sempre da zero».

Pubblicato il: 20.03.08
Modificato il: 20.03.08 alle ore 14.28   
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