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« inserito:: Marzo 08, 2008, 04:42:37 pm » |
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Yehoshua, l´impossibile addio a Israele
Maria Serena Palieri
«Il fuoco è l´unica cosa sulla faccia della terra che l´uomo può sopprimere o riportare in vita. Il fuoco è un amico che aiuta a vivere, disinfetta, purifica, ma è anche un temibile nemico. Forse, nel dominio sul fuoco, è insita anche la chiave per comprendere la morte». Così un paleontologo tanzaniano, Selohe Abou, nel suo linguaggio evocativo da animista, alla fine di un banchetto, nel nuovo romanzo di Abraham B. Yehoshua (Fuoco amico, trad. Alessandra Shomroni pp. 399, euro 19, Einaudi) brinda all´elemento su cui si basa il titolo.
Fuoco amico è un´espressione che allude alla morte doppiamente tragica in cui il giovane soldato israeliano Eyal è incappato per mano di un commilitone. E questa morte indigeribile è il motore che, a distanza di anni, proietta i personaggi di qua e di là, due a distanza di molte ore di volo, in Africa, gli altri in strani posti di Israele, sulla tettoia di un palazzo a Gerusalemme o, a Tel Aviv, dentro la tromba di un ascensore.
Ma di fuochi, in questo romanzo di Yehoshua, ne divampano di tutti i generi: anzitutto le candele che, accese una sera dopo l´altra, scandiscono la settimana festiva di Hanukkah durante la quale, divisa in sette capitoli, si svolge la vicenda. L´aritmetica temporale - un giorno, una settimana, un mese, un anno - è uno degli attrezzi stilistici cui Yehoshua ricorre abitualmente nel costruire i suoi edifici narrativi. L´altro, e questo ha più a che fare col luogo tra conscio e inconscio da cui gli scaturiscono le trame, sono delle immagini concrete che, ripetute, acquistano valenza metaforica.
Qui, per esempio, i gemiti che, complice il vento, provengono da quell´ascensore e che logorano i nervi dei condomini del grattacielo, ma anche il miagolio quasi affettuoso che accompagna la salita di un vecchio montacarichi, in casa di una vecchia signora, nella vecchia Gerusalemme. O la gamba ferita di una giovane «ascoltatrice di suoni» israeliana, Rorale, e l´arto anch´esso sanguinante su cui ballonzola allegro, nella foresta sub-equatoriale, un ragazzino tanzaniano; ma soprattutto - potentissimo - l´occhio da ciclope azzurro e color deserto, frutto di un difetto genetico, con cui un elefantino, nella foresta, guarda i suoi visitatori, una tonalità d´occhio che in Israele torna in chiave umana in Efrat, giovane donna eccessivamente bella, bella da far incupire suo marito Moran.
E poi c´è il sonno, sonni brevi e torpidi, ma per lo più profondi e ristoratori, con cui i personaggi ogni tanto si sottraggono (noi lettori con loro) alla tensione emotiva della vicenda. Fuoco amico insomma è un romanzo che segna il ritorno di Yehoshua ai suoi registri classici e migliori, compreso un ritmo di narrazione, sostenuto dal suo uso peculiare dell´indicativo presente, che rotola di scena in scena. E che cancella il meccanicismo degli ultimi suoi titoli, pur interessanti, La sposa liberata e Il responsabile delle risorse umane.
E allora, eccoci alla trama. Amotz e Daniela sono due coniugi di mezza età - legatissimi, premuroso e apprensivo lui, viziata e saggia lei - genitori di Moran e di una femmina, Nofar, e nonni di due bambini. Daniela ha perso la sorella maggiore, Shuli, morta dopo aver perso appunto «per fuoco amico» il figlio Eyal. E, un anno dopo la scomparsa di Shuli, va in Tanzania per vivere a pieno, ebraicamente, il lutto con il cognato Yirmy che si è rintanato nella foresta con una spedizione di paleontologi. Ma il cognato con l´essere ebreo e israeliano ha chiuso.
L´esilio in cui si è autoconfinato Yirmy è di certo la leva che ha mosso la creazione di Yehoshua: immagina di non vivere più in un Paese in guerra dalla nascita, deve essersi detto, di non essere più ebreo né israeliano, immagina di vivere in un continente, l´Africa, che è stato la culla dell´umanità ma non ha una Storia a gravarlo... Yirmy dice appunto alla cognata Daniela: «Qui non ci sono antichi sepolcri né pavimenti di sinagoghe in rovina; non ci sono musei con i resti di una parochet bruciata né testimonianze di pogrom o dell´Olocausto; non c´è diaspora né dispersione; non ci sono reminiscenze di un´epoca d´oro né c´è mai stata una comunità ebraica che abbia contribuito ad arricchire la cultura mondiale». Va oltre: tanto è deciso a recidere il cordone che fa questa terribile affermazione, «se mio figlio Eyal tornasse gli direi: cercati un altro padre».
Ma nel mentre, nonostante questo desiderio del personaggio (e del suo autore) di essere altrove, in Israele la vita continua. In questa settimana da solo, la prima dopo trentacinque anni di matrimonio, Amotz vive tutt´altro che da scapolo: sta dietro al suo lavoro di ingegnere di ascensori, fa il nonno, fa il genitore, fa il figlio col patriarca Yaari ammalato di Parkinson. Quello in cui si muove è un Paese per certi versi tremendo: un amico cinico gli spiega che lui riconosce i padri che hanno perso in guerra un erede maschio dalla loro aggressiva petulanza. E gli arabi che si stagliano nelle pagine - pochi stavolta - oppongono un definitivo silenzio agli ebrei, anche a quelli che li blandiscono. Però Amotz è così affettivo che la vita, appunto, gli fiorisce sotto le mani. Mentre qui in Israele, come di là, in Africa, scorre esplicito, più che in altri romanzi di Yehoshua, il tema del desiderio sessuale. E, dunque, il romanzo che Abraham Yehoshua ha creato partendo dal più doloroso disincanto - il desiderio di dare un gelato addio a una tragedia chiamata Israele e Palestina - gli si ribella. E, malgrado tutto, dimostra a lui e a noi lettori che invece la vita, con il suo calore, continua.
Pubblicato il: 08.03.08 Modificato il: 08.03.08 alle ore 13.28 © l'Unità.
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