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« inserito:: Marzo 02, 2008, 11:11:57 pm » |
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Aldrovandi, una notte senza verità
Marcello Fois
La morte di Federico Aldrovandi è un banco di prova attraverso il quale si misura la nostra fiducia nelle Forze dell'Ordine e nel nostro sistema investigativo e giudiziario. Quanto più si ha fiducia tanto più si dovrebbe richiedere a gran voce chiarezza e verità. Quanto più si ribadisce la necessità di sentirsi tutelati tanto più si dovrebbero stigmatizzare tutti coloro che inquinano questa fiducia. Collaborare con le Forze dell'Ordine in questo preciso momento significa fare distinzioni e ribadire che quattro poliziotti indagati non corrispondono ad indagare tutto il corpo di Polizia, ma anche ribadire che, se questi quattro poliziotti fossero ritenuti colpevoli, non è ammissibile alcuna impunità.
Il pasticcio Aldrovandi ha tutta l'aria di una storia semplice e, come siamo abituati a pensare ormai da tempo, le storie semplici, nel nostro paese, non sono mai abbastanza semplici. Per chi non ricordasse Federico Aldrovandi, diciotto anni, è morto soffocato dal suo sangue durante un intervento di Polizia, la notte del 25 settembre del 2005. Ma prima di «soffocarsi» si sarebbe sottoposto a una serie di atti autolesionisti che l'avrebbero sfigurato e fratturato in vari punti del corpo. Quel sabato sera Federico esce con amici per recarsi a Bologna in un Centro Sociale, qui assume droghe in modica quantità.
Gli ingredienti del borderline ci sono tutti, già in questo prologo c'è il sapore di una storia già scritta. Due luoghi comuni a confronto producono il sonno della ragione perché in via Ippodromo a Ferrara la notte del 25 settembre, nel sentire comune, si affrontano due campioni del tanto al chilo con cui ci siamo abituati a giudicare il prossimo: il drogato contro il poliziotto della fiction. Ma Federico ha 18 anni, non è un «drogato» abituale, forse è solo un ragazzo incosciente, di quelli che tornati a casa avrebbero preso una bella ramanzina dai genitori. Una distinzione non da poco. Mentre i quattro poliziotti sono agenti stanchi di rischiare la pelle per quattro soldi. Vedersi nemici, scambiarsi per opposti, produce l'orrore del pregiudizio. Un continuo vicendevole sospettarsi a cui è stato ridotto questo paese in anni di veleno pubblico, in anni di politica del nemico. Con chi abbiamo a che fare quando ci imbattiamo in un poliziotto? Con quello che muore per la nostra sicurezza negli stadi o con quello che ci pesta durante una pacifica contestazione? E quando ci imbattiamo in un giovane dei centri sociali con chi abbiamo a che fare? Con un drogato marcio che ci frega il portafogli e spaccia crac nelle discoteche o con il ragazzetto in cerca di esperienze estreme? C'è chi pensa che considerare queste sfumature sia una perdita di tempo, soprattutto in questo paese di commissariati televisivi edulcorati e di «giovani che son tutti drogati». C'è chi si illude che la tutela dipenda dal grado con cui si sorvola su certe licenze, perché l'idea è che allentando la guardia sulle garanzie del cittadino si garantisca la sicurezza diffusa.
Federico Aldrovandi è morto in circostanze sospette, testimoni affermano che è stato immobilizzato e tenuto a terra dopo essere stato pestato dai poliziotti. L'autopsia rivela che nessuna delle contusioni che gli hanno sfigurato il volto o scassato la gabbia toracica possono essere autoinferte. Due anni dopo l'accaduto si scopre che gli originali degli atti compiuti la notte del 25 settembre differiscono dai documenti depositati. Due anni dopo, in un frigorifero della Questura vengono trovati vari tamponi insanguinati ascrivibili alla vicenda in questione, sarebbe a dire che referti col sangue di Federico Aldrovandi non sono stati consegnati agli organismi deputati. Né sono stati fatti esami sui manganelli, o sopralluoghi in loco. Ergo la tragica morte di Federico Aldrovandi, magari bravo ragazzo che ha sbagliato, magari drogato marcio, non è questo che conta, era una storia che non si doveva raccontare. In questa omissione consiste la sostanza del sospetto. Se la madre di questo ragazzo diciottenne, che non è mai rientrato a casa da un sabato sera d'eccessi, non si fosse impegnata a non farci dimenticare noi avremmo già dimenticato. E questo dimostra non tanto che questa donna non si fida delle Forze dell'Ordine, quanto, al contrario, che se ne fida sopra ogni cosa. Perché pensa, insieme a molti poliziotti, che solo attraverso la verità si possa avere la certezza della tutela. Rompere questo schema secondo cui chiedere verità significhi necessariamente compiere un atto di delegittimazione è un dovere che molti, persino all'interno delle Forze di Polizia, propugnano a gran voce. Quasi a dire che gli unici a delegittimare in questo Paese sono coloro che preferirebbero insabbiare anziché mettere in luce. Basterebbe guardare il balletto di trasferimenti e richieste di congedi e dimissioni che hanno attraversato l'inchiesta intorno alla morte di Federico Aldrovandi, diciott'anni. Basterebbe considerare il fatto che a dirigere le indagini è stato chiamato il convivente di uno dei poliziotti (l'unica donna) implicati nel fattaccio. Basterebbe d'altro canto considerare con quanta giusta preoccupazione il SIULP, sindacato di Polizia, chiede chiarezza. Così, tanto per ribadire che, come i drogati, nemmeno i poliziotti sono tutti uguali.
Da un documento filmato, terribile, lo potete vedere tutti su You Tube, risulta che, come in un'Antigone urbana, il corpo di Federico Aldrovandi viene abbandonato a sé stesso mentre qualcuno riprende e qualcuno ride. È l'alba, un cellulare squilla, ma nessuno risponde, sul display del cellulare la scritta «mamma». In quest'oggi la pietà per il morto passa attraverso gli squilli di una madre angosciata perché sono le sette del mattino e ancora non ha notizie del figlio uscito la sera prima. Intanto chi filma e chi staziona davanti a quel corpo esposto, con la maglietta sollevata sul petto, con la nuca in una pozza di sangue, non sente il dovere né di coprirlo, né, tantomeno, di rispondere agli squilli. Si dirà che Federico Aldrovandi, nonostante avesse il cellulare, era privo di documenti e quindi non immediatamente identificabile. Quest'offesa è inestinguibile, è un sofismo cavilloso. Tre ore dopo, siamo arrivati alle 10,45, tre poliziotti si presentano dai genitori per avvertirli che Aldrovandi Federico, diciott'anni, è morto per overdose e per le conseguenti lesioni autoinflitte. Il mattinale della polizia già riporta questa versione: schiamazzi notturni denunciati da qualche cittadino, pattuglia che accorre e si trova davanti un ragazzo drogato che «sbatte la testa da una parte all'altra». Muore dunque senza che nessuno l'abbia toccato Federico Aldrovandi, dei due manganelli che si sono rotti mentre nessuno lo toccava, non c'è notizia fino a quando il Ministro Giovanardi deve risponderne al question time in Parlamento. E allora? E allora è interesse della Polizia stessa che sia chiaro aldilà di ogni ragionevole dubbio che quando il cittadino vede una divisa deve avere la garanzia che non si trova davanti a un delinquente. Ecco, se oggi il sospetto cresce e si gonfia è solo perché quando si disattende alla propria funzione si finisce per tirare verso il fondo anche coloro che alla loro funzione ci credono sopra ogni cosa, e perché la regola invocata dalla Polizia per i cittadini, e cioè che chi tace è complice, vale, a maggior ragione, per le Forze dell'Ordine.
Pubblicato il: 02.03.08 Modificato il: 02.03.08 alle ore 10.39 © l'Unità.
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