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« Risposta #2 inserito:: Marzo 02, 2008, 09:03:43 am » |
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Ventiquattro ore su ventiquattro, bruciati dalla fretta
Oreste Pivetta
Arrabbiati, forse rassegnati. Il dolore è silenzioso e la scritta, «Basta morti sul lavoro», uguale a quella letta un anno fa, quando la tragedia colpì Enrico Formenti (era il 13 aprile e Enrico era poco più che un ragazzo), uguale a quelle lette davanti ai cancelli della Thyssen e in mille altri luoghi d’Italia (mille quanti i morti del lavoro in un anno), sembra firmare l’impotenza. Il corteo, la protesta, il lutto cittadino, lo sciopero generale. Stavolta nessuno s’è sognato di bruciare i copertoni, come era accaduto un anno fa. Qualcuno, dietro lo striscione della Culmv, la compagnia dei portuali, se l’è presa con i giornalisti: con i giornali, che qualche volta testimoniano le tragedie del lavoro, molto spesso le dimenticano dentro una notizia a una colonna, come il mondo dei porti e dei cantieri e delle fabbriche... «C’è un paese reale, diverso da quello virtuale delle cronachette quotidiane, che vive una realtà dura e faticosa, che lavora di notte un’ora in più per sostenere la propria famiglia». Il richiamo è del presidente dell’Autorità portuale di Genova, Luigi Merlo (nominato, dopo l’arresto di Giovanni Novi, al centro di un’inchiesta giudiziaria, che tocca appunto i criteri di assegnazione dei terminal). C’è ancora bisogno di parole così per ricordare il mondo autentico, non quello televisivamente filtrato dalla politica o dallo spettacolo. Walter Fabiocchi, segretario della Camera del lavoro aggiunge qualcosa alla descrizione del “paese reale”: che nel porto c’è tanta fatica manuale, che si può sganciare un container camminando tra stretti corridoi senza spallette di protezione, che si lavora giorno e notte, che il tempo è denaro. «Bisogna accelerare - dice Fabiocchi - scaricare e caricare più alla svelta possibile, liberare le banchine. Una volta il lavoratore del porto era considerato fortunato tra gli operai: adesso arriva a mille euro al mese e se vuole di più deve sommare turni a turni. Finchè c’è richiesta».
Dentro il porto, ventiquattro ore su ventiquattro, sette ottomila lavoratori combattono la battaglia del tempo. La sicurezza è un risultato difficile nella fretta. Sulle sponde delle navi alle banchine ci dovrebbero essere le catene: «Dirà la magistratura che cosa è accaduto. Se si cade da dieci metri d’altezza, come è capitato a Fabrizio, non ci si salva».
Formenti, un anno fa, morì schiacciato da una balla di cellulosa da due tonnellate caduta da una pila alta otto metri. Dopo di allora, si cercò un rimedio, qualcosa che aiutasse a prevenire. Si arrivò a una intesa tra istituzioni regionali, asl, inail, sindacati, padroni e pandrocini, terminalisti (cioè i gestori dei terminal), un protocollo che anticipava certi contenuti della legge 123 voluta da Cesare Damiano. Adesso i sindacati protestano: il protocollo è rimasto lì, in attesa di fatti. Il centro era la responsabilità affidata a otto lavoratori del porto, eletti dai loro compagni, di accompagnare nell’opera di controllo gli istituti tradizionali. Otto lavoratori, stipendiati grazie ad un piccolissima tassa sulle merci in transito, “rappresentanti della sicurezza”. Fabiocchi protesta: non si è andati avanti. Lo segue Ivano Bosco, segretario della Filt Cgil: «Solo i lavoratori hanno fatto la loro parte, mettendo a disposizione otto persone che sono state formate opportunamente». Claudio Montaldo, ex vicesindaco di Genova e ora assessore regionale alla Salute, e Giovanni Vesco, assessore al Lavoro, rispondono che la regione ha speso quarantamila euro per la fomazione dei “vigilanti” e altri ottantamila ne ha destinati all’asl, perchè avesse più mezzi per i controlli. Fra un po’ gli otto operai avranno pure una sede. Ma non possono muoversi più di tanto. «Il problema - spiega Vesco - è che, essendo innovativo, in certi punti il nostro protocollo non è sostenuto da una norma di legge. Dobbiamo muoverci noi e abbiamo pensato che la soluzione stesse in un’altro accordo che definisse compiti e ambiti». Come gli otto insomma possono controllare davvero. «La Compagnia unica ci ha fornito macchina e telefonino per lavorare al meglio - insiste Davide Traverso della Uil -, ma se io vedo un lavoratore di un altro terminal che non lavora in sicurezza mi devo girare dall’altra parte. Noi non possiamo intervenire se non nel nostro circuito. Giriamo come fantasmi».
Qualcuno latita. Nessuno fa nomi. Ma ai terminalisti il protocollo non è mai piaciuto e ancora meno piace che un lavoratore, per quanto “rappresentante di sicurezza”, eletto dai compagni di un altro terminal, venga a ficcare il naso... «Hanno firmato - commenta un portuale - con la pistola alla tempia».
Pubblicato il: 01.03.08 Modificato il: 01.03.08 alle ore 14.23 © l'Unità.
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