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Autore Discussione: Valeria Viganò. Storie di mogli ammazzate  (Letto 2650 volte)
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« inserito:: Febbraio 29, 2008, 02:38:11 pm »

Storie di mogli ammazzate

Valeria Viganò


Siamo in tante qui, centinaia. Esangui, camminiamo una accanto all’altra, senza peso, senza corpo. I nostri corpi sono rimasti sdraiati sul pavimento della cucina, o sul grigio dell’asfalto. Sono volati fuori da una finestra, galleggiano in rivoli fangosi. I nostri corpi sono stati uccisi. Qui, molto in alto, ci teniamo qualche volta per mano, quando osiamo guardare giù, al mondo che abbiamo lasciato. Da cadaveri. Pieni di sangue, e di lividi. Abbiamo tutte lo stesso destino, e anch’io, che di nome faccio Maria Rosa, non ci ho potuto fare niente. Chi se lo poteva immaginare, quando mi sono innamorata e poi sposata e poi ho messo al mondo due figli, che sarebbe finita così?

Eravamo una famiglia e come tutte le famiglie non eravamo una bella famiglia. Eppure non si scappa, la famiglia rimane il sogno da ragazze, ci ostiniamo a perseguirlo, lo otteniamo e lo difendiamo a ogni costo. Anch'io l'ho fatto. Mio marito, io, e i nostri due figli piccoli, nel nostro appartamento nel nostro paese, Caninaro, vicino a Gricignano D'Aversa, provincia di Caserta. Sembrava normale, sembrava vero. Mio marito Angelo è un imprenditore edile, ha la sua ditta, con il suo nome. Ha lavorato tanto nella zona, aveva tante responsabilità, gli operai da comandare. Non che lui non si sporcasse le mani, gli piaceva tirar su case, e tornava la sera coperto di polvere e cemento. Insomma non ce la cavavamo male. Quando sono rimasta incinta la prima, e anche la seconda volta, è stato un dono che Dio ci offriva, un dono per il futuro. Io ci ho creduto, nelle foto del matrimonio, sulla scalinata della nostra chiesa, accanto al parroco noi sorridiamo. E nelle foto dove teniamo in braccia i nostri piccoli neonati, sorridiamo. Angelo si era emozionato mentre partorivo, piangeva e rideva quando ha visto i bimbi in culla. Ma a ripensarci erano stati gli unici momenti in cui mi ha sorriso accanto. Non so cosa gli sia successo, quando accade agli altri, che se ne leggono e sanno di litigi e contrasti che finiscono male, pare una cosa che non ci riguarda. Ci hanno scritto delle barzellette sul marito che ubriaco picchia la moglie. Credevo non mi riguardasse, no, non a me. Eravamo una famiglia per bene, noi.

La prima volta Angelo non mi ha colpito, né con un pugno né con uno schiaffo, e io non sono caduta per terra. Mentre sparecchiavo in cucina, una domenica sera, abbiamo cominciato a discutere, perché proprio d'accordo non siamo mai andati. E io ho provato a dirgli quello che pensavo. I suoi occhi si sono improvvisamente infiammati, mi ha tirato per i capelli, le parole sono uscite pesanti, puttana, troia, mi fai schifo, devi strisciare ai miei piedi, in ginocchio ti voglio, te la faccio pagare. Le sue urla le sentivano fino in fondo alla strada. Io mi vergognavo, lo imploravo di tacere, per i bambini, per i nostri vicini. Che poi in un paese così piccolo, le voci si spargono in fretta e non te ne liberi più. Angelo non ha alzato le mani, mi ha solo stretto le braccia, così forte che il giorno dopo erano viola e non le potevo muovere. Quella volta i bambini dormivano, la volta dopo anche, non si sono nemmeno accorti delle sedie sbattute, dei piatti rotti, del crack del mio polso che lui mi aveva piegato e rotto. Ma la terza volta ho visto la testa di nostro figlio spuntare dalla porta della cucina. E mi sono spaventata per lui. Ci guardava con occhi assonnati e tristi, suo padre, rosso in volto, furibondo che gridava parolacce sputando, sua madre schiacciata nell'angolo accanto al frigorifero cercava di ripararsi il viso ma non poteva evitare i colpi di mestolo sulla testa. Non è un bello spettacolo, per nessuno. Il mestolo mi aveva squarciato la cute, il sangue colava tra i capelli spettinati, mi scendeva lungo il collo, che lo sentivo caldo, con quel sapore di ferro.

Quando mio padre l'ha saputo, ci sono voluti due zii e un cugino per fermarlo sulla soglia di casa nostra. Angelo gli urlava vieni qui che ti faccio vedere chi comanda, mio padre gli urlava sopra in dialetto, ti spacco quella faccia di cazzo. Poi, quando si era calmato mi aveva abbracciato e accompagnato in ospedale. Io non volevo lasciare i miei figli soli con Angelo. Mia madre, santa donna, che forse qualche pugno da mio padre l'ha ricevuto anche lei, ne ha preso uno da una parte e uno dall'altra e li ha trascinati via che piangevano e strillavano.

La vergogna mi paralizzava quanto le botte, la vergogna era più forte dei lividi. Non mi faceva respirare, non mi faceva reagire, e mi rintanavo in bagno quando il tremolio del mento mi diceva, stai per scoppiare. Mio marito non l'ho mai denunciato, come hanno fatto tante di quelle che sono qui, con addosso gli occhi del rimpianto, dell'errore fatale. E nel cuore spezzato la lontananza dai figli che crescono senza più madri.

Angelo non era cattivo, ma perdeva il controllo, si accecava della sua stessa rabbia e ogni tanto mi rifilava un paio di calci. Così, quando è partito per un appalto edilizio a Venezia, i miei bambini ed io abbiamo vissuto momenti felici, caldi di intimità e dolcezza. I piccoli venivano nel mio letto e giocavano tra le lenzuola, leggevo loro delle fiabe, raccontavo le storie dei nonni, li stringevo a me, baciavo i loro capelli, e annusavo l'odore di talco della loro pelle. Non sono mai stata tanto felice, era una felicità assoluta. Era quando dimenticavo che mio marito sarebbe tornato e tutto sarebbe ricominciato, gli insulti e le botte. Mi telefonava da Venezia la sera, chiedeva dei bambini, mai di me. Ma sapevo che mi controllava, che aveva parlato con degli amici suoi pronti a riferirgli cosa facevo, quando, come. Anche se più in là del paese non andavo e tutt' al più veniva a trovarmi qualche amica, la signora Esposito del piano di sotto cucinava delle torte e poi me le portava.

Il giorno che Angelo è tornato a casa da Venezia non si è nemmeno tolto il giubbotto, i bambini erano a scuola, e mi ha tempestato di domande, cosa hai fatto, chi hai visto, adesso cambia la musica. E giù un pugno tremendo che mi ha stordito e mi ha fatto sanguinare l'orecchio. Allora mio padre, che aveva lavorato nella Polizia Penitenziaria e conosceva la pochezza della giustizia, ha preso il coltello dell'arrosto, ha aspettato che Angelo uscisse in strada, forse per proteggere i bambini, e ha ficcato la lama nella pancia di mio marito. È uscito tanto di quel sangue, era tutto rosso. e io sono svenuta. Mio padre è finito in carcere, lui che raggiunta la pensione dopo quarant'anni non ci voleva mettere più piede. Nel parlatoio i suoi colleghi lo proteggevano e durante il colloquio ci lasciavano soli. Lo dovevo uccidere, mi ha bisbigliato mio padre, lo dovevo sventrare come un porco. Ma vedrai la lezione gli servirà, eccome se gli servirà, non mi importa di essere ritornato dentro una cella, non mi importa niente. Se lo meritava quello stronzo, non lo dovevi sposare, ci ha fregato a tutti.

Io uscivo dal carcere e entravo in ospedale. Angelo era lì disteso, il bendaggio gli fasciava l'addome, gli avevano dato venticinque punti di sutura, dentro e fuori. Non mi parlava più, grugniva maledizioni, gridava alle infermiere. Se avesse potuto, ci scommetto, avrebbe preso a calci anche loro.

Per me non c'era più speranza, sangue chiama sangue. Eppure, quando è guarito, non ce l'ho fatta a non riprenderlo in casa. Ai bambini era mancato, loro lo amavano, era il loro padre. Indegno, violento, ma era come se facessero finta di niente, e anche se dentro avevano paura, quando lui li portava alla partita della Casertana, teneva per mano il più grande e sulle spalle il più piccolo. E loro ridevano insieme, affamati di un gesto d'amore. Sembrava che i venticinque punti di sutura fossero dimenticati. Angelo aveva ripreso lentamente a stare nei cantieri, ad andare al bar, a tornare tardi. Non mi ha più picchiata però, e per un attimo ho creduto che finalmente si sarebbe arreso stanco delle sue stesse ire, stanco e ferito. Io continuavo la mia vita, accompagnavo i bambini all'asilo e alla scuola, facevo la spesa, pulivo, preparavo da mangiare e li riandavo a prendere all'una, quando uscivano schiamazzando e correndo verso di me. Per fortuna, per fortuna, quella mattina piovosa ero in anticipo. Altrimenti i miei figli avrebbero visto tutto con i loro occhi, e niente di ciò che potevano vedere si sarebbe mai più cancellato dalla loro mente.

È successo che, mentre stavo arrivando al cancello aperto della scuola, pronta ad accogliere sotto l'ombrello i miei cari bambini, e li cercavo con lo sguardo tra una folla di ragazzini vocianti, ho sentito dei passi affrettati e conosciuti alle spalle, un respiro affannato familiare che mi investiva come il vento. Ho capito ma non volevo credere.

Intorno a me le macchine erano in doppia fila, la pioggia era fine e silenziosa, perché quando i passi si sono fermati è sceso un silenzio, un silenzio che non si può neanche immaginare, dell'altro mondo. Lo stesso silenzio che avvolge me e tutte le altre, qui, dove stiamo adesso. Il silenzio delle morte. Non mi sono voltata, ma non ho fatto in tempo a raggiungere le altre mamme in attesa davanti alla scuola. Uno potente schiocco nell'aria e la mia gamba si è piegata, un altro schiocco assordante e il braccio ha ceduto e l'ombrello è caduto. Non ho fatto in tempo a girarmi e vedere Angelo con la pistola puntata contro di me, Angelo non aveva mai avuto una pistola. Ho solo sentito il petto bruciarmi, il sangue andare dovunque, mi aveva sparato nella schiena e i miei polmoni non hanno più respirato. Mentre mi schiantavo sul marciapiede come un sacco di patate, ho dato un ultimo sguardo al cancello. Ho fatto in tempo a sentire la campanella, ho pianto per i miei figli che avrebbero trovato la loro madre riversa in una pozza scura, e visto il loro padre scappare con la nostra Toyota bianca. Poi proprio non ce l'ho fatta più, ho provato a resistere mentre tutti intorno urlavano, ma in un attimo me ne sono andata.

Qui, dove mi trovo adesso, siamo spaventosamente tante. Ognuna ha accanto la sua morte. Proiettili per me, proiettili per molte. Ma la maggior parte di questi resti umani e pallidi ha incontrato coltelli, martelli, mani feroci al collo, stupri. Tutte avevano un marito, un fidanzato, un ragazzo, che non volevano diventare ex mariti, ex fidanzati ex ragazzi. Tutte avevano provato a gridare no agli sconosciuti, a chi conoscevano troppo bene. Tutte hanno pagato, pagato amaramente il loro no. Quassù, proprio dove siamo insieme, l'unica cosa che ci resta è la solitudine della nostra fine, ma forse, calpestate ogni giorno, aggredite ogni giorno, umiliate ogni giorno per ogni giorno dell'anno, eravamo più sole in vita.

Pubblicato il: 28.02.08
Modificato il: 28.02.08 alle ore 8.23   
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