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« inserito:: Febbraio 24, 2008, 11:23:38 pm » |
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Storia di Zoran, morto all’ambasciata
Marina Mastroluca
Non sa ancora la Serbia se ha trovato un nuovo eroe o solo un criminale, ora che ha un nome e una storia quel corpo carbonizzato rimasto tra i detriti anneriti dell’ambasciata americana a Belgrado. Zoran Vujovic, 21 anni, profugo serbo fuggito dal Kosovo, morto tra le pareti extraterritoriali della sede diplomatica della potenza che più ha spinto a favore dell’indipendenza di Pristina. Ucciso dal fuoco che lui o i suoi compagni avevano appiccato. Potrebbe essere la trama di un film, il simbolo tragico del destino di una nazione che finisce per subire i colpi che ha tentato di infliggere ad altri.
Invece Zoran era un ragazzo vero, nato quando Milosevic infiammava i serbi del Kosovo, promettendo che mai avrebbero dovuto giacere sotto il tallone albanese. Come sia andata la storia è cronaca di questi giorni. Ma per Zoran e la sua famiglia è cominciata prima, nel luglio del ’99, poche settimane dopo la fine della guerra: non erano giorni facili per i serbi del Kosovo, i Vujovic si sono incolonnati come gli altri verso il confine, lasciando Caglanica, un sobborgo alle porte di Pristina, per ricominciare a Novi Sad, in Vojvodina.
«Era un bravo ragazzo», racconta la famiglia Matovic, vicini di casa. Sono sempre bravi ragazzi, dopo. Zoran studiava al politecnico, giocava a pallacanestro. Giovedì scorso con il fratello minore Lazar era andato a Belgrado per la manifestazione. Si sono persi di visti. Dopo una notte di tentativi inutili sul suo cellulare, il padre Milan ha cominciato a cercarlo nelle stazioni ferroviarie, negli ospedali, ai posti di polizia, in carcere - come hanno fatto tanti altri genitori in attesa di notizie. Milan si è fermato davanti all’obitorio, ha potuto riconoscere Zoran solo da una collanina e da una fibbia, il dna ha confermato.
Sarà difficile accertare come siano andate le cose nel corridoio al primo piano del’ambasciata Usa dove è stato trovato il ragazzo, la polizia mette le mani avanti: gli assalitori erano incappucciati, le telecamere hanno ripreso volti coperti. Le tifoserie belgradesi fanno un passo indietro, chiamandosi fuori dal pasticcio di giovedì sera. I Delije - gli audaci - dello Stella Rossa esprimono condoglianze. «Alla manifestazione siamo andati organizzati, ma non c’entriamo con quello che è successo», dicono i Grubari, i becchini, del Partizan.
Unica rivendicazione giocata in anticipo sugli eventi è quella del movimento neonazista, che proprio a Novi Sad ha trovato terreno fertile. «Partecipate alla manifestazione con rabbia e furore contro i paesi stranieri, come abbiamo fatto nei giorni scorsi», era il proclama di Goran Davidovic, leader del Nazionalni stroj, alleanza nazionale, dell’ultradestra, alla vigilia del raduno. Nell’appello indicava tra gli obiettivi le ambasciate, le sedi dell’Ldp, unico partito serbo non contrario all’indipendenza del Kosovo. «Ci chiameranno vandali, fascisti, neonazisti, hooligan, non importa, non abbiamo niente da perdere».
Ti aspetteresti tg infervorati, dibattiti, una riflessione comune su come sia stato possibile, sul che fare ora. E invece no, esclusi i rari blog su internet, c’è un’aria imbarazzata intorno a questa morte, neanche fosse un fatto privato, i leader politici tacciono o ripetono il ritornello già trito della responsabilità made in Usa. Il ministro serbo per il Kosovo, Slobodan Samardzic lo ha fatto anche ieri, ricordando che sono gli Stati Uniti «i principali responsabili di tutti gli incidenti avvenuti dal 17 febbraio». Passa in secondo piano il fatto che la polizia quella notte non ci fosse, che dal palco lo stesso premier avesse invitato a ritrovarsi «tutti a Pristina tra un anno».
«È terribile - dice Dragan - ma bisogna chiedersi che cosa c’è andato a fare questo ragazzo dentro l’ambasciata? Perché non è restato con il grosso della manifestazione?». Sul forum di Radio B92, tornata in questi giorni nel mirino dei nazionalisti che giovedì scorso dopo le ambasciate hanno tentato un assalto anche alla sua sede, fioccano messaggi di condoglianze, ma anche critiche. «Zoran è stato forse ucciso dall’Uck? - si chiede Nada -. È stato Kostunica piuttosto. Fino a quando cercheranno i nostri voti davanti alle tombe dei nostri figli?» Qualcuno si indigna. «Era insieme a criminali venuti a distruggere Belgrado, perché anche le ambasciate sono Belgrado».
Eroe o criminale, un confine indefinito attraverso il quale passa l’immagine che la Serbia, i serbi, hanno di sé. E che al di là dei proclami è il ritratto di un paese lacerato, solo apparentemente unito nel nome del Kosovo. Ne è un po’ il simbolo in queste ore la storia di Zoran, come quella delle ragazze sorprese a saccheggiare i negozi nel furore notturno di Belgrado. Oggi anche loro hanno un nome, si lasciano intervistare. «Eravamo lì per il Kosovo, non per rubare, ma lo facevano tutti. Trecentomila persone hanno partecipato al saccheggio», dicono Maja e Jovana. Su YouTube le insegue il disprezzo dei serbi e lo scherno dei Balcani. «Popolo di ladrei - scrive Ismaili, dal Kosovo - finiti i posti da saccheggiare, non vi è rimasto che derubare voi stessi».
Pubblicato il: 24.02.08 Modificato il: 24.02.08 alle ore 12.42 © l'Unità.
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