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« inserito:: Febbraio 14, 2008, 07:28:08 pm » |
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Due missioni distinte, con regole d'ingaggio diverse e nessun coordinamento fra i comandi
I dissidi fra Stati Uniti e Nato primo pericolo per i nostri militari
di GUIDO RAMPOLDI
E se il maresciallo Giovanni Pezzulo fosse morto in combattimento? Se non l'avessero ucciso a tradimento mentre distribuiva medicinali, come afferma lo stato maggiore, ma fosse caduto sparando e uccidendo durante una missione? Lo ricorderemmo con lo stesso rispetto, la stessa commozione? Oppure saremmo sconcertati, perplessi, delusi? Ci terremmo a distanza da quel soldato e dalla sua bara, così come ci teniamo a distanza dall'idea che si possa uccidere ed essere uccisi per una causa giusta?
Non finiremmo per espellerlo dal nostro orizzonte, così come abbiamo espulso l'idea della guerra, del tragico, in definitiva del male? Beninteso, non abbiamo motivi per credere che lo stato maggiore abbia mentito né intendiamo celebrare in chiave epica quell'evento orribile che è ogni guerra. Ma ogni volta che un soldato italiano muore in una missione decisa dal nostro Parlamento, decenza vuole che ci si domandi per quale motivo l'abbiamo mandato a rischiare la pelle in un conflitto armato; e ci si interroghi con onestà, senza necessariamente spacciare quel soldato per una crocerossina.
Nel caso afgano queste domande sono particolarmente scomode, perché incrociano non solo gli affanni della Nato ma anche questioni fondamentali che tendiamo a rimuovere, oppure ad esorcizzare con un largo impiego di pensiero magico: dal nostro rapporto con lo strumento militare fino alla tortuosa relazione con gli Stati Uniti.
Se torniamo agli inizi della missione Nato in Afghanistan ci accorgiamo che tutto era già scritto. Quando i soldati occidentali sbarcarono a Kabul, con il compito di vertebrare la Forza multinazionale autorizzata dalle Nazioni Unite, la capitale pareva tranquilla e i Taliban svaporati. Ma sin da subito si stabilì un equivoco che col tempo è ingigantito. L'Occidente in realtà si era sdoppiato tra l'Isaf, cioè la Forza multinazionale guidata dalla Nato, e l'Operazione Enduring Freedom, al 100% statunitense.
Due comandi, due tattiche, due obiettivi non coincidenti. L'Isaf deve dare sostegno al governo legittimo e stabilizzare l'Afghanistan affinché si formi un'idea di statualità, estranea a due generazioni di afgani cresciuti nella guerra civile. Invece Enduring Freedom ha per scopo la cattura o l'uccisione dei capi di Al-Qaeda e dei Taliban: insomma ha una prospettiva interamente militare.
Nel concreto accade questo, anche se non più con la frequenza del passato: raid condotti dagli americani con particolare sommarietà, provocando la morte di innocenti per "danno collaterale" distruggono in un'ora il rapporto di fiducia con la popolazione costruito da un contingente Nato in mesi e mesi di lavoro. Come riferiva il New York Times, in agosto un comandante britannico era così esasperato che ha intimato agli americani di non mettere mai più piede nella propria zona. Unico tra i ministri della Difesa occidentali, Parisi ha posto pubblicamente il problema di quell'Occidente bicefalo, ottenendo perlomeno un maggior coordinamento. Ma lo sdoppiamento rimane, ed è sempre più evidente che rimanda ad un vizio strutturale dell'Alleanza. A volerlo minimizzare potremmo parlare di una differenza tra culture militari.
Al Pentagono sembrano convinti che la preponderanza della tecnologia bellica sia sufficiente a garantire la vittoria, basta essere pazienti. Perfino i più fedeli alleati degli Stati Uniti, i britannici, dissentono, non fosse altro che per l'abitudine ad interpretare i conflitti con la duttilità e la furbizia politica di chi un impero lo è stato davvero.
Ma la questione cruciale è il rapporto malsano che ormai lega Europa e Stati Uniti. Gli americani guardano all'Alleanza atlantica come ne fossero gli azionisti di maggioranza assoluta, in virtù di quell'80% di alta tecnologia Nato che indubbiamente appartiene alle loro Forze armate: eppure un'alleanza strategica è qualcosa di più molto complicato di una società per azioni, non fosse altro perché mette in gioco anche principi e ideali. A loro volta gli europei pretendono che siano sempre gli americani ad accollarsi i rischi e gli oneri maggiori, quasi che fosse loro dovere reggere quasi tutto il peso dell'Alleanza atlantica. Questa relazione patologica è riflessa da un'insofferenza reciproca ormai evidente negli attriti provocati dall'inconcludente guerra afgana.
Washington chiede agli europei più soldati e più determinazione: ma non accetta di unificare le due missioni sotto un solo comando (Nato). A loro volta gli europei non intendono rinunciare ai loro "caveat", cioè alle clausole per le quali il comando Nato può impiegare alcuni contingenti fuori dal territorio di loro competenza soltanto nel caso in cui truppe dell'Alleanza, attaccate, stiano per soccombere. Queste riluttanze nascono dal timore che gli americani utilizzino i soldati europei come truppe cammellate.
Nel caso italiano pesano anche i limiti (peraltro controversi) posti dalla Costituzione all'impiego di militari in missione estere. Tuttavia alti ufficiali considerano i "caveat" pericolosi, perché abituerebbero i Taliban a distinguere i soldati Nato in "morbidi" e "duri". E' possibile che nello stato maggiore altri siano di diverso parere. Quello che è incredibile è che in Italia una questione tecnica, da cui potrebbe dipendere la sicurezza maggiore o minore dei militari italiani, si trasformi in un dibattito ideologico, come al solito egemonizzato da due subalternità diverse ma egualmente mediocri. La subalternità del centrodestra all'amministrazione Bush. La subalternità di molto centrosinistra ad un pacifismo semplicistico.
Non sappiamo a quanti degli uni e degli altri importi qualcosa del maresciallo Giovanni Pezzulo, ma siamo sicuri che spenderanno molte e contrite parole. E ci sarà probabilmente un sacerdote o un parente, com'è comprensibile in questi casi, che chiederà: perché? Perché l'hanno mandato a morire? Le persone intelligenti conoscono la risposta esatta: non possiamo sfilarci dalla Nato, per quanto stolta sia quella missione. A noi meno intelligenti pare che quel motivo si affacci anche in due episodi occorsi di recente.
Nell'Helmand i Taliban hanno impiccato un quindicenne (tredicenne secondo l'agenzia di stampa cinese). L'hanno appeso ad un palo e gli hanno ficcato in bocca il dollaro che gli avevano trovato in tasca, forse regalo di un soldato occidentale per un qualche minuscolo aiuto reso. Malgrado il pensiero egemone ci inviti a tenere nel massimo conto le differenze culturali, possiamo garantire che anche per la cultura afgana un tredicenne è poco più che un bambino. Nello Swat i Taliban pakistani hanno sfigurato con gli scalpelli un gigantesco Buddha di pietra. Era lì da venti secoli, neppure gli arabi di Ghazni né gli spietati guerrieri Sikh avevano mai pensato di ridurlo in frantumi. Se il maresciallo Pezzullo fosse morto con il mitra in pugno, combattendo quella gente, meriterebbe meno rispetto?
(14 febbraio 2008)
da repubblica.it
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