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Autore Discussione: Albanese. Perché perderci tempo, osservare, valutare e andare avanti.  (Letto 122 volte)
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« inserito:: Ottobre 10, 2025, 07:35:30 pm »


DEMOCRAZIA AUTOREVOLE, RIGORE ETICO IN PATRIA e MORALITA' NEL MONDO.
Gianni Gavioli

Amministratore
Esperto del gruppo in Realtà virtuale
Persona sempre più attiva

Un solo Albero Sociale e Politico, una potatura a Vasi Policonici al posto delle parassitarie Correnti, persone diverse dalle attuali e il più lontano possibile dal fetore putiniano.
Presentazione alla Gente di veri progetti e non di chiacchiere e sorrisi.
Il Partito Democratico di Socialisti Cristiani (PDSC) deve ripartire da solo, fosse anche da un 20%  di consenso iniziale.
È una IDEA RESILIENTE, già tradita una volta dalla cattiva politica adesso, noi elettori, non ci si cadrebbe una seconda volta.
ggiannig

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Giulio Manfredi

Francesca Albanese. L’ultimo mito, il più cupo, della sinistra italiana
di  Andrea Romano

Da sempre la politica sceglie totem che riassumano l’identità (come Kirk a destra). La sinistra lo ha sempre fatto ma, da San Suu Kyi a Zapatero, erano miti di speranza. Ora è una maestra di livore indirizzato soprattutto contro Segre, reduce di Auschwitz
08 Ottobre 2025 alle 09:42
Non è indispensabile aver letto Roland Barthes per sapere che anche la politica contemporanea e il consenso democratico vivono di mitologie. D’altra parte succede tanto a destra quanto a sinistra di pescare un pezzo più o meno grande di realtà e di costruirci intorno quanto serve perché l’elettore o il militante possano riconoscervi subito un’identità politica. Si sa che in politica i miti servono a dire, senza usare troppe parole, “Noi siamo quella cosa lì”. Quindi nessuno scandalo se la destra italiana si è appropriata poche settimane fa dell’icona del povero Charlie Kirk, che pure non aveva mai citato neanche per sbaglio quando era ancora in vita, o se la sinistra italiana oggi è alle prese con il mito di Francesca Albanese.
Eppure non ricordo che nella storia recente della sinistra italiana vi sia mai stata una mitologia tanto cupa, torva e autolesionistica quanto la santificazione di Francesca Albanese. Giuro: mi sono sforzato di trovare qualcosa di simile andando indietro fino al 1989, quando a sinistra fu archiviata con il comunismo la mitologia più potente di sempre (cupa anch’essa, nella realtà di chi la subiva, ma vissuta dalle nostre parti come sincera attesa di emancipazione). Niente da fare. Tutti i precedenti che mi sono venuti in mente erano costruiti su mattoni di speranza, anche se di tonalità di volta in volta diverse.
Mentre tutto ad Est crollava già Achille Occhetto aveva provato a sparigliare con gli indios dell’Amazzonia, sfidando le perplessità di uno degli ultimi congressi del Pci per tentare l’azzardo di una svolta ambientalista. Poi i ragazzi di Tien An Men che ci conquistarono con l’illusione di poter democratizzare il regime cinese, da cui sarebbero stati letteralmente fatti a pezzi. E ancora la metà degli anni Novanta e la Terza Via. Per carità, troppo ottimistica vista con il famoso senno di poi: eppure che meraviglia vedere la sinistra europea che vinceva quasi ovunque parlando di crescita economica, Europa, diritti e coesione. E poi l’icona di Aung San Suu Kyi trasportata dalle lontanissime prigioni birmane all’Italia da Walter Veltroni, che della costruzione di mitologie aveva già fatto un mestiere, a significare quanto fosse universale la battaglia contro le dittature. A seguire, l’infilata di leader della sinistra mondiale tutti diversi ma per noi tutti uguali come scaldacuori. Tony Blair il cui nome ancora si poteva pronunciare senza timore di essere scomunicati; Inácio Lula che trionfava nel voto dopo decenni di clandestinità e prigionia; José Luis Rodríguez Zapatero che ai bei tempi in cui il problema con gli Stati Uniti si chiamava Bush junior ci restituiva un po’ di antiamericanismo soft e soprattutto d’impegno sui diritti di nuova generazione; persino su Alexis Tsipras abbiamo (hanno) costruito un mito, piccolino ma funzionale a quella parte della sinistra che era già sovranista senza neanche saperlo.
L’icona di Francesca Albanese non somiglia a nessuna di queste, perché nell’impasto con cui è costruito il suo mito manca anche il minimo tratto di speranza o di emancipazione. Invece del luminoso eroismo del testimone, il suo profilo vive di furbizia e dissimulazione. A partire dal nemico principale che si è scelta nel nostro dibattito pubblico. Un nemico che non è Israele ma Liliana Segre, verso la quale coltiva quella che il figlio Luciano oggi sul Corriere della Sera ha definito con precisione “un’ossessione”. L’Albanese non ha il coraggio di dire quello che affermano tutti coloro che come lei sono ossessionati dalla figura della Segre e da quello che rappresenta (farsi un giro sui social per averne conferma, digitare “#LilianaSegre" e prepararsi ad una valanga di fango nazistalinista). Ovvero che la Segre è un’impostora. E se non lo è allora si è meritata tutto quello che è capitato a lei, alla sua famiglia e a tutti i sei milioni di ebrei inceneriti dalla Shoah. L’Albanese non è così sprovveduta. Si limita ad affermare che la Segre non sarebbe “né imparziale né lucida”. Si fa ritrarre sorridente accanto al suo ritratto, aggiungendo “indifferenza” e “#GazaGenocide” e giù tutti a ridere alla sagace trollatura. Allude persino alle “pietre d’inciampo”, dalle quali manca effettivamente il nome della Segre perché persino l’Olocausto ebbe qualche inefficienza, trattandole come ostacoli arbitrari alla sua logica. La stessa logica che solo gli “accademici sionisti” avrebbero l’ardire di contestare, a sentir lei.
Io non so se l’Albanese sia antisemita, se sia una giurista capace, se sia solo una furbacchiona. Ho qualche sospetto, ma lo tengo per me. Quel che so è che la sinistra che mitizzava una volta Blair e l’altra Zapatero, scegliendosi con speranza e ottimismo il santo che meglio rappresentava quel certo spirito del tempo, avrebbe guardato al suo personaggio con totale estraneità. Forse senza metterla nel folto gruppo dei negazionisti della Shoah (che non è popolato solo da chi nega Auschwitz, ma anche da coloro che ne perseguitano la memoria e i testimoni attendendo con ansia il giorno in cui non ne rimarrà più neanche uno), ma certamente guardandola con l’indifferenza che si deve a chiunque tra tanti possibili avversari si sceglie una signora di 95 anni che ha l’unica colpa di essere sopravvissuta all’Olocausto. E invece no. Invece dell’estraneità abbiamo l’avvilente processione a renderla cittadina onoraria, il masochismo di sindaci che gioiscono delle sue frustate e del suo perdono, lo sgomitare nel volerle stringere la mano. Ma in fondo è proprio vero che ogni tempo (e ogni sinistra) ha l’eroe che si merita. E alla sinistra di questo tempo di sconfitte, rassegnazione e subalternità politica è toccata in dote l’Albanese.

da FB

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