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Autore Discussione: Capitalismo di carta  (Letto 4873 volte)
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« inserito:: Agosto 21, 2007, 05:58:09 pm »

Capitalismo di carta
Laura Pennacchi


A pochi giorni dal manifestarsi delle implicazioni gravi della «bolla immobiliare» accumulatasi in tutto il mondo ma specie negli Usa, l’inatteso abbassamento di mezzo punto del tasso di sconto (per il mercato secondario) a cui si è risolta la Federal Reserve americana mostra quanto sia ardua l’opera di ristabilimento dell’equilibrio. All’opposto di quanto affermato sul «Corriere della sera» da Bill Emmott, è ora necessario porsi domande politiche su quanto accaduto e sta accadendo. Anche se l’ex direttore dell’Economist sconsiglia i politici, come Prodi e come Sarkozy, dall’“immischiarsi” nelle turbolenze dei mercati finanziari, diventa sempre più necessario che il mondo politico inizi a interrogarsi su fenomeni la cui naturalizzazione (come se obbedissero a leggi della natura) e tecnicizzazione (come se fossero trattabili solo da “esperti” presunti neutrali) sono gravemente fuorvianti. E non solo perché, nonostante i cospicui e corretti argini elevati dalle banche centrali e l’azione di “scudo” operata per l’Europa dall’euro, l’onda di piena non sembra ancora essere stata assorbita. Ma anche perché sta emergendo qualcosa di più profondo. La sequenza grosso modo è la seguente. La concessione di mutui subprime (a clienti a elevato rischio di insolvenza) - che ha fatto crescere esponenzialmente il prezzo delle abitazioni - è stata alimentata da cattive strutture di regolazione (produttrici di molti conflitti di interesse concentrati in particolare sulle agenzie di rating) e dalla politica di persistenti bassi tassi di interesse voluta da Greenspan, fino a qualche tempo fa presidente della Federal Reserve, a cui poi è succeduto Bernanke. Quando i tassi risalgono, i debitori più fragili diventano inadempienti e i titoli collegati ai loro debiti - inverosimilmente trasformati e “impacchettati” in strumenti sempre più opachi - cominciano a produrre perdite per chi (in prevalenza intermediari) li aveva acquisiti. I creditori - a loro volta venutisi a trovare in crescente rischio di perdita - diventano riluttanti a prestare ancora denaro: dagli hedge funds (i cui sottoscrittori sono esposti a crescente difficoltà di rimborso) alle banche (per i cui bilanci le insolvenze si palesano come ammanchi) agli operatori finanziari (per i cui titoli spazzatura si verifica la corsa a sbarazzarsene) l’esigenza di liquidità si fa impellente e spinge a disfarsi di qualunque cosa non sia un buono del Tesoro: obbligazioni, azioni, titoli di ogni genere. Se a tutto ciò si aggiunge l’evaporazione del mercato dei commercial paper (che serve a finanziare l’attività imprenditoriale corrente), una crisi di liquidità può coinvolgere tutte le società, bisognose di prestiti per le più svariate esigenze.

Il paradosso apparente è proprio questo: dopo il mare di liquidità che ci ha sommerso negli ultimi anni, ora la crisi si manifesta in primo luogo come carenza di liquidità. Ma interrogarsi politicamente, per l’appunto, porta a vedere che non di paradosso si tratta ma della conseguenza logica della accumulo di specifiche fonti di instabilità, intrinseche in particolare al modello di crescita adottato dagli Usa. Il punto di partenza dell’analisi non può non essere il loro deficit, dovuto per metà ai tagli fiscali a vantaggio dei benestanti, per metà alla spesa per la guerra all’Iraq, creato dall’amministrazione Bush (poiché l’attivo di bilancio del 2% lasciato in eredità da Clinton è stato totalmente dissipato). A quello pubblico e a quello privato - che insieme formano il famoso deficit “gemello” - si associa uno sbilancio delle partite correnti dei pagamenti che, dall’1% del 1996, nei primi anni 2000 non è mai sceso al di sotto del 5% del Pil americano. Lo squilibrio della bilancia commerciale, il deficit pubblico, l’elevatissimo indebitamento di tutti gli operatori privati (famiglie e imprese), la svalutazione del dollaro, si sono configurati come altrettanti elementi di vulnerabilità della crescita Usa, testimoniata in primo luogo dall’abnorme incremento della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi.

In effetti, la crescita da un lato è stata troppo minacciosamente legata alla spesa per la guerra all’Iraq (a cui si deve più della metà dell’incremento verificatosi del Pil), dall’altro non è apparsa chiara nella sua effettiva corrispondenza al funzionamento dei “fondamentali” dell’economia, essendo in notevole misura il frutto di una riattivazione “drogata” della borsa, dopo l’esplosione della “bolla speculativa” nella primavera del 2000 e tre anni consecutivi di pesanti ribassi di Wall Street e di crollo dei mercati azionari in tutto il mondo. Proprio alla riattivazione borsistica ha concorso la condotta di Greenspan, il quale già nel 1995-96 parlò di “esuberanza irrazionale” della Borsa, senza però fare molto per contenerla, il che gli valse l’accusa di Stiglitz: «Poteva prendere delle iniziative per attenuare il fenomeno, ma scelse di non farlo. Al contrario parlò a lungo della nuova era di grande produttività diventando uno dei tifosi della bolla».

La circostanza paradossale che negli ultimi quindici anni il Paese più ricco sia diventato anche il maggiore debitore globale del mondo sottende un più generale processo di indebitamento, causa ed effetto delle onde che attraversano i mercati finanziari, del resto all’uopo deregolamentati e tuttavia sconvolti da periodiche crisi. Poiché l’economia reale si mostra non in grado di convalidare l’eccesso di finanza e di aspettative di rendimento che si è lasciato maturare, le crisi finanziarie (con contorno di enormi speculazioni e di singoli, giganteschi scandali) sembrano modi con cui si procede a distruzioni di parte della ricchezza finanziaria esistente, il che solleva radicali interrogativi sulla tanto decantata efficienza dei mitici mercati finanziari. Il fatto è che, vista la lentezza di reazione di consumi, investimenti, esportazioni, per le loro successive riprese gli Usa sembrano aver puntato sulla capacità di trascinamento dei mercati finanziari, capacità che - senza curarsi del rischio di creare successive, nuove “bolle speculative” - è stata attivamente alimentata dall’amministrazione Bush anche attraverso la detassazione dei dividendi azionari e l’abbandono della politica del dollaro forte, nel perseguimento di un impatto immediato sulla Borsa. In effetti, gli Usa hanno cercato ogni mezzo per continuare ad attrarre capitali da tutto il mondo - replicando la gigantesca “idrovora” che a tutt’oggi consente all’economia americana di risucchiare più di due terzi dei flussi netti internazionali - e così finanziare il “debito gemello” e sostenere il proprio sviluppo. In questo quadro si colloca - insieme all’andamento dei prezzi delle materie prime, in particolare del petrolio - la svalutazione del dollaro, l’altra faccia di un’inconfessata “guerra valutaria”, di cui ha risentito soprattutto l’Europa nella difficile fase di riassetto economico e istituzionale seguita all’adozione della moneta unica.

Se per gli Usa di Bush di “droga” si è trattato, essa ha avuto ed ha, però, come tutte le droghe, le sue dolorose controindicazioni: i deficit di bilancio hanno sostenuto la domanda ma, nella misura in cui sono stati alimentati da riduzioni permanenti di entrata (tagli fiscali) e da permanenti aumenti di spesa (per difesa e sicurezza interna, non certo per il welfare anzi drammaticamente tagliato), hanno generato problemi insoluti; il deprezzamento del dollaro stimola le esportazioni, ma costituisce una fonte di precarietà negli equilibri del sistema finanziario internazionale, capace di alimentare una spirale di sfiducia interna ed esterna; la rimonta dei profitti delle imprese americane (dovuta in non piccola misura ai vertiginosi sgravi fiscali) ha come contropartita il fatto che, nel settore privato, i saldi finanziari migliorano esclusivamente per le imprese e peggiorano ulteriormente per le famiglie, indebitate ai livelli record del dopoguerra e con un reddito medio in decremento in termini reali; il costo del denaro bassissimo ha permesso di offrire beni a rate senza interessi, ma ha innescato la formazione di bolle nei mercati delle attività finanziarie (azioni) e reali (case), a una delle quali oggi, ancora una volta, siamo di fronte.

Pubblicato il: 21.08.07
Modificato il: 21.08.07 alle ore 10.48   
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