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Autore Discussione: L'establishment lancia la rinascita di San Francisco. Poi tocca all'America...  (Letto 1569 volte)
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« inserito:: Febbraio 16, 2024, 05:56:59 pm »

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L'establishment lancia la rinascita di San Francisco. Poi tocca all'America...
Perché l'esperimento californiano può servire da modello
Saranno i “poteri forti” a salvare San Francisco dal suo degrado, e magari a trasformarla in un modello utile per altre città? L’ultima speranza per fermare la spirale della decadenza urbana viene dalla mobilitazione dei milionari (e qualche miliardario) della Silicon Valley? Sarebbe un caso in cui l’establishment economico torna a interpretare un ruolo positivo, esprime una classe dirigente impegnata in prima persona nella ricostruzione di una società funzionante… dopo che lo stesso establishment aveva contribuito a lungo a seminare ideologie del caos. Se l’esperimento dovesse produrre risultati positivi a San Francisco, chissà che il concetto di una “rinascita guidata dai poteri forti” non si possa applicare ad altre zone del paese o all’intera nazione. Magari includendo in questo ruolo un intervento dell’establishment sull’emergenza Joe Biden: il caso drammatico di un presidente che rischia di essere incapacitato e purtuttavia ostinato a restare in carica e ricandidarsi.
La decadenza di un ex-paradiso
Ho raccontato in passato la discesa agli inferi di San Francisco, città che mi è personalmente cara perché lì ebbe inizio la mia vita americana un quarto di secolo fa, e perché mia figlia è rimasta a vivere nelle vicinanze (insegna all’università nella Silicon Valley). Il declino di quel gioiello di città avvenne “prima lentamente, poi tutto d’un colpo”, per citare la celebre descrizione di una bancarotta da parte del romanziere Ernest Hemingway. L’ideologia ebbe un ruolo determinante, come in altre metropoli governate da un’ala sinistra molto radicalizzata del partito democratico: sindaci e procuratori generali convinti di essere dei Robin Hood con la missione di svuotare le carceri, decisi a usare il meno possibile il codice penale quando i delinquenti appartengono a minoranze etniche, persuasi che la depenalizzazione dei reati fa bene ai poveri. Autorità scolastiche impegnate in una crociata contro la meritocrazia quasi che sia una perfida “invenzione bianca” per sottomettere gli altri: quindi esami sempre più facili, promozioni a tutti, corsie preferenziali per i ragazzi di colore.
Le radici nella rivoluzione anni Sessanta
Questa deriva a sinistra s’innestava su tradizioni antiche: San Francisco era stata la culla della prima rivoluzione di costumi all’insegna del giovanilismo antiautoritario, il Free Speech Movement (Berkeley 1964) aveva anticipato di quattro anni il Maggio Sessantotto europeo; la Summer of Love del 1967 aveva dato alla nascita il movimento hippy. Tante cose buone erano nate in quella stagione movimentista: femminismo, ambientalismo, pacifismo, tolleranza verso tutte le diversità. In quegli anni era nata anche una cultura della droga, di cui però si sono misurati ben presto la pericolosità e i danni. La San Francisco di oggi è diventata una caricatura di tutto ciò che può andare storto nelle rivoluzioni. Tutti gli ideali degli anni Sessanta si sono rovesciati nella loro interpretazione più estremista, distruttiva, fanatica e intollerante. Il diritto a uccidersi con le droghe è diventato sacrosanto e la conseguenza è un’ecatombe di morti per overdose sui marciapiedi della città. “Obbligare” un tossicodipendente a curarsi contro la sua volontà viene considerato un abuso contro la libertà.
Pandemia e fuga dalla città, consegnata alle gang
Nella decadenza recente di San Francisco l’acceleratore finale è stata la pandemia. Da una parte, con il dilagare del lavoro remoto, ha aggravato la fuga dalla città da parte di tanta manodopera tecnologica, uno svuotamento che ha “consegnato” sempre più il centro cittadino a drogati, malati mentali, senzatetto, e bande criminali. D’altra parte, sempre durante la pandemia nella primavera-estate del 2020, l’uccisione dell’afroamericano George Floyd da parte di un poliziotto bianco a Minneapolis, l’esplosione del movimento Black Lives Matter, hanno portato il movimento anti-razzista a una deriva estremista con l’uso della violenza contro la polizia, la demonizzazione di tutte le forze dell’ordine, manifestazioni degenerate in saccheggi. San Francisco, pur senza raggiungere le punte estreme della vicina Oakland o di Portland nell’Oregon, è stata una delle città trasformate in laboratori anarchici quando i sindaci di sinistra hanno tagliato fondi alla polizia e certi magistrati hanno trattato i poliziotti come gli unici presunti criminali. Fra i danni, va annoverata la chiusura di supermercati e grandi magazzini da parte di catene come Banana Republic, Nordstrom, Whole Foods: presi di mira da gang di rapinatori organizzati, che la polizia non poteva o non voleva più contrastare (inutile arrestarli se la procura li libera subito; e se corre molti più rischi del ladro il poliziotto, il cui arresto verrà passato al vaglio per sospetti abusi). Questo lo stato dell’arte negli ultimi anni.
Minoranze etniche contro il degrado
Ora i segnali di un’inversione di tendenza, per quanto limitati, cominciano a moltiplicarsi. Dietro sembra proprio esserci la regìa dei “poteri forti”, mobilitati per salvare una città ricca di storia e tradizioni imprenditoriali, una culla di rivoluzioni tecnologiche. Nel 2022 ci fu il referendum locale, vittorioso, che cacciò il procuratore generale Chesa Boudin (carica elettiva): figlio di “terroristi rossi” degli anni Sessanta-Settanta, fedele all’ideologia rivoluzionaria dei genitori, convinto di fare il bene del popolo lasciando i criminali in libertà (un tratto comune con i terroristi rossi italiani: la totale indifferenza verso la sorte delle vittime). Un’altra vittoria, sempre nel 2022, in un altro referendum cittadino che licenziò in tronco i membri eletti dello School Board, una sorta di Sovrintendenza delle scuole: costoro avevano abolito certi esami di matematica per migliorare “l’equità” visto che alcune minoranze etniche (black, latinos) avevano risultati inferiori alla media. La rivolta contro quella forma assurda di “egualitarismo” fu tanto più interessante in quanto a guidarla erano le famiglie asiatiche: le più penalizzate da quelle misure di appiattimento e impoverimento dell’istruzione, perché i loro figli sono sistematicamente i migliori in matematica. Sta diventando sempre più frequente negli Stati Uniti che siano proprio le minoranze etniche a ribellarsi contro quelle élite che “per fare il loro bene” impongono forme di egualitarismo insopportabili perfino ai presunti beneficiari.
Il miracolo provocato da Xi Jinping
 Tra gli altri segnali di una parziale inversione di tendenza, a San Francisco ci fu il caso dell’azienda locale Salesforce (specializzata nella ricerca del personale) che minacciò di spostare in altra sede la propria convention annua Dreamforce a causa dell’insicurezza; e di colpo ottenne garanzie su una maggiore presenza di polizia dalla sindaca London Breed (una donna afroamericana che all’origine era molto radicale, ora si è spostata su posizioni più moderate). La prova generale di un possibile miglioramento c’era stata nel novembre scorso quando San Francisco aveva ospitato il summit internazionale dell’Apec-Asean e il bilaterale Biden-Xi Jinping: di colpo eano scomparsi i senzatetto, tossicodipendenti e spacciatori che abitualmente “possiedono” il centro. A riprova che, volendo, si può anche agire contro la loro volontà. Ora chi vuole che il miglioramento prosegua sta facendo campagna per eleggere dei politici più moderati nel Board of Supervisors, una sorta di Politburo del consiglio comunale che ha poteri di veto sul bilancio municipale e sulle decisioni della sindaca. Il Board è in mano all’estrema sinistra e questo lega le mani alla sindaca London Breed.
Di recente la sinistra radicale dominante a San Francisco ha fatto notizia anche perché vorrebbe distribuire delle Reparations (risarcimenti) a tutti i black per compensarli dello schiavismo dei loro antenati. Le somme che San Francisco dovrebbe stanziare secondo i promotori sarebbero tali da provocare la bancarotta municipale. 
In tutte le vicende recenti – i referendum vinti contro l’estremismo, i piccoli passi verso un ritorno di ordine pubblico – si è vista una regìa degli imprenditori locali. Un’inchiesta del Wall Street Journal ricostruisce il loro ruolo, fa nomi e cognomi, elenca le ong e le associazioni locali a cui hanno dato vita.
Quali industriali scendono in campo
Spiccano nomi come l’asiatico-americano Garry Tan, chief executive dell’incubatore di start-up Y Combinator. Secondo Tan la San Francisco degli anni scorsi “si era cavata gli occhi da sola”, talmente rifiutava di vedere la realtà del degrado e di riconoscerne le cause. Un altro esponente della riscossa imprenditoriale è Marc Benioff, chief executive di Salesforce. C’è anche Bob Fisher, erede della dinastia che ha creato il marchio Gap: a lui si deve una campagna pubblicitaria che vuole ricostruire l’orgoglio cittadino, ricordando a tutti i capitoli esaltanti della storia di San Francisco: dalla creazione dei jeans Levi’s al ponte del Golden Gate, fino all’invenzione dell’iPhone nella vicina Silicon Valley, o la nascita di Twitter, Uber, Airbnb. Nessun’altra città al mondo forse può vantare di aver dato i natali a così tante imprese innovative. Bei tempi: perché non dovrebbero poter ritornare? Tra le associazioni mobilitate per questa rinascita ci sono TogetherSF Action (dietro c’è Michael Moritz che fu presidente del fondo d’investimento Sequoia), GrowSF e AbudantSF, tutte sostenute e finanziate da imprenditori locali.
La politica "manipolata dal denaro"? Ma nessuno obiettava quando i soldi andavano a Black Lives Matter
Queste campagne hanno già scatenato contro-narrazioni e controffensive. L’estrema sinistra che domina il consiglio comunale denuncia il “potere del denaro”. Non lo denunciava quando lo stesso establishment finanziava proprio i politici più radicali, com’è accaduto fino a pochi anni fa. Peraltro, le ultime campagne degli imprenditori sono a sostegno di candidati democratici: San Francisco è una città pressoché mono-partito, i repubblicani sono talmente marginali da essere irrilevanti. La battaglia in corso da parte dei “poteri forti” tenta di sostituire l’estrema sinistra con la componente più moderata del partito democratico.
Si può obiettare in generale sul ruolo del denaro nella democrazia americana. E' una tradizione antica: qui le lobby agiscono alla luce del sole, il Primo Emendamento interpretato in modo elastico offre una tutela molto ampia a chiunque voglia raccogliere fondi, finanziare campagne e candidati. E' un modello controverso, certo. Ma le obiezioni sui "poteri forti" erano silenti quando fiumi di denaro andavano a cause progressiste o sedicenti tali: ong ambientaliste, movimenti Lgbtq, Black Lives Matter sono stati inondati di donazioni da parte di miliardari. I procuratori che da anni scarcerano criminali hanno fatto campagna elettorale con i soldi di George Soros. Se questo è il sintonomo di una democrazia malata, bisognava accorgersene anche quando i beneficiari erano altri. Comunque i soldi da soli non fanno la differenza, altrimenti Hillary Clinton avrebbe stravinto nel 2016 contro Donald Trump: disponeva di fondi molto superiori a lui. L'intervento dei "poteri forti" più spesso ha segnalato, sottolineato e accompagnato degli spostamenti di umore nell'opinione pubblica.
L’esperimento va seguito con attenzione, sia perché San Francisco è una città-laboratorio, con un ruolo speciale nella storia americana, sia perché un eventuale successo potrebbe ispirare degli emuli. La mancanza di un establishment oggi si sente a livello nazionale. Se ci fossero i “poteri forti” di una volta, con l’influenza che esercitarono in altre epoche storiche, oggi avrebbero già costretto sia Donald Trump sia Joe Biden a farsi da parte. E’ lecito sognare? E’ paradossale che il sogno in questione auspichi il ritorno di una “classe dirigente”?   

La Cina si mimetizza. Come il Giappone negli anni 80 (ovvero: il protezionismo funziona!)
Il protezionismo bipartisan Trump-Biden ha spinto la Cina a imitare ciò che fece il Giappone negli anni Ottanta, all’epoca di un altro presidente americano protezionista, Ronald Reagan. Viste le barriere doganali sotto forma di dazi introdotte dall’Amministrazione Trump e mantenute perfettamente intatte dal suo successore; visti i generosi aiuti pubblici che l’Amministrazione Biden offre a chi reindustrializza l’America (un’altra forma di protezionismo) i cinesi si comportano di conseguenza: anziché limitarsi a fabbricare in casa propria per esportare sul mercato Usa, ora cominciano a costruire fabbriche negli Stati Uniti oppure in altri paesi nordamericani e da lì vendono negli Stati Uniti. È iniziata così la delocalizzazione alla rovescia, dalla Repubblica Popolare verso il suo principale mercato di sbocco.
Il protezionismo funziona, dunque. Ha effetti benefici, al contrario di quel che predica il “pensiero unico” in voga tra gli economisti.
Pannelli solari, fabbriche cinesi in Ohio e Texas
Il risultato netto della doppia offensiva Trump-Biden a base di dazi e sussidi statali è ben visibile per esempio nella produzione di pannelli solari. Per molti anni gli Stati Uniti – come l’Europa – hanno subito una invasione di pannelli fotovoltaici “made in China”. Spesso venduti sottocosto, in dumping, perché Pechino praticava gli aiuti di Stato molto prima di noi, quei prodotti a basso costo hanno sgominato l’industria americana facendo fallire molti produttori nazionali. Adesso però le aziende cinesi hanno scoperto che conviene venire a fabbricare pannelli sul territorio Usa: per aggirare i dazi e per incassare le sovvenzioni federali dell’Inflation Reduction Act (IRA), la legge di Biden che contiene abbondanti aiuti alle energie rinnovabili. Da quando è entrata in vigore l’IRA ha consentito la creazione di nuove fabbriche di pannelli solari per una capacità produttiva pari a 80 gigawatt; di questa nuova capacità un quarto fa capo ad aziende cinesi. Le nuove fabbriche cinesi che sorgono sul territorio Usa, dall’Ohio al Texas, appartengono a giganti come Longi Green Energy Technology e Trina Solar. Che quindi danno lavoro a ingegneri, tecnici e operai americani. E’ proprio questa la logica virtuosa del protezionismo: creare incentivi ed opportunità tali per cui conviene venire a produrre in casa nostra anziché venderci ciò che viene prodotto altrove. Funzionò ai tempi di Reagan con l’industria automobilistica giapponese, che stava invadendo il mercato americano e metteva in gravi difficoltà Detroit. Reagan usò dei contingenti – limiti quantitativi all’importazione – oltre a pressioni politiche su Tokyo. Fu così che giganti come Toyota cominciarono a costruire fabbriche negli Stati Uniti e ad assumere personale americano. Oggi più di metà dell'occupazione operaia nell'industria automobilistica Usa è impiegata alle dipendenze di case straniere.
Il Messico ruba alla Cina il primato sul mercato Usa
La stessa logica contribuisce a spiegare un dato clamoroso, il sorpasso storico del Messico sulla Cina come esportatore numero uno verso gli Stati Uniti. Non accadeva da vent’anni che la principale fonte di importazioni sul mercato Usa fosse il vicino meridionale. Nel 2023 il deficit commerciale degli Stati Uniti verso la Cina si è ridotto in modo sostanziale, perché le importazioni di beni “made in China” sono scese del 20% a quota 427 miliardi di dollari. Invece le importazioni dal Messico sono state pari a 476 miliardi. Di qui il sorpasso.
A questa storica sostituzione nella classifica dei paesi esportatori hanno contribuito molte cose. La pandemia, e le tensioni geopolitiche Washington-Pechino, hanno consigliato a molte aziende americane di accorciare le proprie catene di fornitori, avvicinandole a casa. Dazi e altre misure protezionistiche hanno colpito la Cina mentre hanno risparmiato i paesi partner degli Stati Uniti nel mercato comune nordamericano, cioè Canada e Messico.

È in corso quel processo di “friend-shoring” o rilocalizzazione in paesi amici, di cui si parla da quando i rapporti tra le due superpotenze sono antagonisti.
Ma a questo rimescolamento degli equilibri e delle mappe della globalizzazione contribuiscono attivamente le stesse multinazionali cinesi. Le grandi aziende della Repubblica Popolare hanno aumentato i loro investimenti, oltre che dentro gli Stati Uniti, anche in Messico. Sicchè una parte delle esportazioni dal Messico verso il mercato settentrionale sono opera di marche cinesi. Anche qui, nulla di nuovo: trent’anni fa avevano cominciato le multinazionali giapponesi e sudcoreane a costruire “maquiladoras” a Tijuana, a pochi km dalla città di San Diego in California, a ridosso del confine Messico-Usa.   
La parola ai lettori
Scrive Loni Mevorah: "Attendevo con molto interesse il Suo reportage dopo la Sua visita, ma a parte un articolo da Riad non ho visto nulla . Mi è sfuggito qualcosa sicuramente perché non credo che sia rimasto “imbavagliato” dalle locali autorità. Mi fa sapere dove lo posso trovare?"
Risponde F.R. Ne sono già uscite diverse puntate, tra cui questa, questa e ancora questa. Ma poiché non posso diventare mono-tematico, e avendo raccolto nei miei viaggi un materiale sovrabbondante, penso che sarà uno dei temi del mio prossimo libro.
Scrive Guido Maione: "Non possiamo meravigliarci di quanto accade in Arabia Saudita. È al potere un monarca illuminato in grado , quindi , di concedere benevolmente alcune riforme ma sempre altrettanto in grado di chiudere la porta nel caso in cui il popolo reclamasse troppe libertà.
L'odiato ex presidente Renzi lo va dicendo da anni che in Arabia è in atto un nuovo rinascimento , ovviamente deciso dall'alto come in tutti gli stati della penisola . Vogliamo farci degli scrupoli o approfittare di questa situazione?  Dopo lo sdegno provocato dall'uccisione del giornalista e aver messo  su un cipiglio severo  con la buffonata di Biden (mi spiace dirlo) che non strinse la mano di Bin Salman ora tutti i politici fanno a gare per vendere armi , tecnologia avanzate in tutti i settori . La nostra Webuild costruirà un pista per la neve (sic) per eventuali olimpiadi invernali nel deserto alla faccia di tutti problemi connessi con l'ambiente. Sarà questa la strada da seguire che ci consentirà di ridurre il vuoto con la Cina e la Russia che ambientalisti sono a corrente alternata ?  Basta decidersi una volta per tutte  e organizzare una politica comune europea (forse avverrà dopo il 2100)"
Scrive Alessandro Bassi: "Lei ha scritto: "Visto da Jeddah tutto ciò che sta facendo Biden per reindustrializzare l’America è un esperimento interessante ma abbastanza marginale, rispetto all’onnipresenza del «made in China» in tutto ciò che mi circonda." La penso esattamente come i Sauditi e non solo loro. Mi piacerebbe visitare l'Arabia Saudita, ma per quanto riguarda la non-reindustrializzazione dell'Occidente basta andare in un centro per il bricolage. L'80/90 % di quello che trova è Made in PRC E cosi in tanti altri centri commerciali. Dalla ciotola per cani all'ago della macchina da cucire."
 Scrive Sonia Marson a proposito del mio reportage dal porto di Jeddah sul Mar Rosso: "Ci tengo a sottolineare che molte delle cabine di manovra delle gru portuali, dirette o da remoto, sono prodotte in Italia da un’azienda friulana e adottate nel protocollo di produzione dalle aziende cinesi. Noi italiani siamo molto capaci ma a piccoli spot!"
Scrive Enzo Berus: "Vorrei obbiettare a quanto lei scrive in apertura del suo articolo del 12/01, e cioè che: «Lo scivolamento verso quella che papa Francesco chiama la terza guerra mondiale rischia di essere evitato, paradossalmente, da una ritirata Usa sotto la presidenza dell’isolazionista Donald Trump». E spiego: mi è capitato di seguire una ottima ricostruzione del conflitto medio orientale su la7 sotto la titolazione di “Atlantide files”, evidentemente sotto la guida del compianto Andrea Purgatori, da cui si capiva bene (finalmente) che all’origine di tutti gli eventi recenti era l’isolamento nel quale era stato per anni tenuto il regime teocratico degli ayatollah iraniani, e che il primo, e l’unico finora che si era mosso in senso contrario era stato Obama, con l’accordo sul nucleare iraniano del 2015, che aveva revocato le sanzioni a Teheran, in cambio di un controllo sulla proliferazione nucleare. Forse sono stato distratto, ma mi sembra che lei non abbia sottolineato abbastanza l’importanza di questo accordo, ma soprattutto la successiva uscita unilaterale da questo stesso accordo voluta da Trump su richiesta di Israele. Credo che sia evidente come la radice di tutta la malapianta che stiamo vedendo crescere oggi sia proprio lì, e mi dispiace molto che proprio lei, di cui sono un appassionato lettore, non abbia fatto chiarezza su questo, non solo ricordando una delle cose migliori fatte da quello che lei ama definire il suo presidente, ma soprattutto una delle peggiori fatte da Trump. E che quest’uomo finirà per essere rieletto è uno di quegli eventi che non si possono proprio spiegare, una sciagura che pagheremo cara tutti".

Federico Rampini, New York 10 febbraio 2024
Da corriere.it
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