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Autore Discussione: I trattori, l’Ue, la frenata sul Mercosur. E l’illusione dei pasti gratis.  (Letto 2580 volte)
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« inserito:: Febbraio 04, 2024, 07:22:21 pm »

Foglio, Europa Today, Les Echos

I trattori, l’Ue, la frenata sul Mercosur. E l’illusione dei pasti gratis

    di LUCA ANGELINI


   Magari esagera, David Carretta, corrispondente del Foglio da una Bruxelles sotto l’assedio dei trattori, quando scrive che «gli agricoltori sono per l’Unione europea ciò che i tassisti sono per l’Italia. Che si tratti dell’Ue geopolitica, del sostegno “incrollabile” all’Ucraina o della sostenibilità degli ecosistemi, nulla conta più della collera rurale» (assai più tollerata, in materia di blocchi stradali, anche dal governo italiano rispetto, per dire, a quella degli ambientalisti radicali, come sottolineato, sempre sul Foglio, da Luciano Capone). Ed è vero che qualche numero dà ragione a Carretta quando ricorda, sempre sul Foglio, che «la Politica agricola comune vale un terzo del bilancio dell’Ue: 400 miliardi su 1.200 miliardi per il 2021-27. I francesi sono i più viziati con 65 miliardi preallocati (38 miliardi per l’Italia). Secondo un rapporto della Commissione, negli ultimi dieci anni sono stati stanziati 2,5 miliardi di misure eccezionali per varie emergenze. Il quadro temporaneo sugli aiuti di Stato ha permesso ai governi di versare altre decine di miliardi agli agricoltori per le crisi del Covid-19 e della guerra in Ucraina. Gli effetti si vedono nelle loro tasche. Un documento pubblicato dalla Commissione a novembre dice che il reddito medio di un lavoratore del settore agricolo è passato da 18,4 mila euro nel 2013 a 28,8 mila euro nel 2021 (43 mila in Francia e 36 mila in Italia). Più 56 per cento, ben oltre l’inflazione. O dell’aumento del reddito di qualsiasi altra categoria meno protestataria e meno viziata dall’Ue».

Ma, come ha scritto Francesca Basso in America-Cina, «c’è qualcosa che non torna. La Politica agricola europea, nota con l’acronimo di Pac, vale un terzo del bilancio Ue, che per il periodo 2021-2027 è di 1.216 miliardi. Una bella cifra. La Pac ha l’obiettivo di fornire un sostegno più mirato alle aziende agricole di piccole dimensioni e rafforzare il contributo dell’agricoltura nella transizione climatica. Eppure lo scontento tra gli agricoltori è altissimo, le proteste si stanno susseguendo in diversi Paesi europei, dalla Germania alla Romania, dalla Francia alla Polonia passando per Belgio e Olanda, con episodi anche in Italia». Il qualcosa che non torna è, in parte, il carico burocratico che opprime (anche) gli agricoltori. Poi — oltre all’aumento dei costi e alla diminuzione dei ricavi, legati però spesso a dinamiche internazionali — c’è il fatto che «la maggior parte dei fondi Ue viene intercettata soprattutto dalle grandi aziende e non dai piccoli agricoltori che non ne percepiscono appieno i benefici, mentre a Est i fondi strutturali sono un po’ una promessa mancata perché si fermano nelle città. Nonostante l’Ue investa in modo massiccio sull’agricoltura, una parte di quel mondo si sente dimenticato. Una vera beffa».

Posto, dunque, che le difficoltà nel mondo agricolo ci sono eccome, va anche detto che accogliere le loro richieste, come è decisa a fare la Commissione europea («la Commissione ha confermato di aver messo di fatto in pausa i negoziati per concludere un accordo di libero scambio con il Mercosur, partner commerciale considerato strategico per materie prime ed esportazioni, che l’Ue vorrebbe sottrarre all’influenza della Cina, introdurrà delle “salvaguardie” sulle importazioni di prodotti agricoli dall’Ucraina, provocando un danno a un’economia già messa in ginocchio dalla guerra della Russia.

E proporrà una nuova proroga alla deroga sulla messa a riposo del 4 per cento dei terreni coltivati, che era stata decisa per tutelare gli ecosistemi con incentivi finanziari. Agricoltori tre, Ue zero», sempre Carretta), non è a costo zero.

Occupiamoci, ad esempio, della «messa in pausa» dell’accordo con il Mercosur (ossia Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay). Qualche settimana fa, il quotidiano economico francese Les Echos spiegava così, in soldoni, perché quel patto di libero scambio — difeso in queste ore a Bruxelles sia dal cancelliere tedesco Olaf Scholz che dal premier spagnolo Pedro Sanchez, ma molto osteggiato dal presidente francese Emmanuel Macron, che ha salutato con favore la «frenata» Ue — converrebbe all’Ue: «Se un solo dato dovesse riassumere l’interesse dell’Ue a concludere un accordo di libero scambio con i quattro paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay) sarebbe quello della bilancia commerciale. Nel 2022, per la prima volta, i paesi dell’Ue hanno registrato un deficit (7,3 miliardi di euro). Se negli ultimi anni gli scambi tra i due blocchi si sono intensificati, resta il fatto che in vent’anni la quota di mercato dell’Ue nel Mercosur è crollata a vantaggio della Cina. Si è passati dal 25% al 18%. L’accordo firmato nel 2019, ancora in fase di negoziazione, consentirebbe alle aziende europee di aprire un mercato di circa 260 milioni di consumatori. Il blocco sudamericano – la quinta economia più grande del mondo se consideriamo i 4 Paesi insieme – è ancora in gran parte protetto da barriere tariffarie. I dazi doganali all’importazione vanno dal 14% al 35%, addirittura al 90% per alcuni prodotti. L’eliminazione di queste tasse su oltre il 90% delle merci esportate dall’Ue verso i paesi del Mercosur, come menzionato nell’accordo redatto nel 2019, costituisce una reale opportunità per l’Ue di correggere la situazione e riprendere la crescita»
Allevatori e agricoltori italiani ed europei temono, però, un’invasione di carni bovine, suine, pollame e zucchero sudamericani sul mercato europeo. Per dirla con le parole di Ettore Prandini, presidente di Coldiretti: «Chiediamo che sull’import ci sia un netto stop all’ingresso di prodotti da fuori dei confini Ue che non rispettano i nostri stessi standard. Non possiamo più sopportare questa concorrenza sleale, che mette a rischio la salute dei cittadini e la sopravvivenza delle imprese agricole». È davvero così? Forse. Ma Jean-Luc Demarty, ex direttore generale della DG Commercio della Commissione Ue, aveva spiegato, sempre a Les Echos, che «i contingenti tariffari sulla carne bovina e il pollame sono limitati a circa l’1% del consumo totale europeo. Sommando le quote di tutti gli altri accordi commerciali conclusi dalla Commissione o in corso di negoziazione, restiamo al di sotto della soglia del 4% del consumo totale che i Paesi europei si erano prefissati durante i negoziati del Doha Round dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) definitivamente falliti nel 2008. Abbiamo semplicemente riciclato quella quota». Inoltre, gli europei hanno ottenuto una clausola di salvaguardia nel caso in cui le importazioni di carne dal Mercosur dovessero destabilizzare il settore nell’Ue.
Si dirà che un conto sono le previsioni, un conto è quel che accade nella realtà e quindi la Commissione potrebbe aver fatto bene a tirare il freno, dando retta agli agricoltori. Ma c’è un precedente, in materia di intese commerciali, a cui si può guardare: l’accordo Ceta con il Canada, approvato, tra molte proteste di una parte del mondo agricolo italiano ed europeo, nel 2016. Si sono avverate o no, le previsioni di sventura, in quel caso legate soprattutto all’importazione di «grano al glifosato»?
Se si guarda all’export generale dell’Italia, decisamente no — nonostante gli anni della pandemia — come dimostra il grafico qui sotto, su dati Eurostat: a 5 anni dall’entrata in vigore dell’accordo, l’export italiano verso il Paese nordamericano è cresciuto molto di più che quello medio verso altri Paesi non Ue (e più del doppio nel 2021). «Con aumenti di oltre l’80%, in cinque anni, nell’ortofrutta trasformata, del 24% nel comparto bevande, alcolici e aceto, e del 20% in quello dei formaggi» aveva sottolineato Confagricoltura. Il cui presidente, Massimiliano Giansanti, a riprova che le anime del mondo agricolo sono tante, aveva aggiunto: «L’unica strada perseguibile per rilanciare l’export, in base a principi di reciprocità ed equilibrio tra le parti, è quella dei negoziati bilaterali. L’alternativa, in seguito alla difficoltà di intese regolate dalla Wto, finisce per essere quella dei rapporti di forza basati sull’imposizione di dazi e sulle inevitabili misure di ritorsione» (va detto che lo stesso Giansanti ha però espresso molti dubbi sull’intesa con il Mercosur).
Quanto al grano, ha ricordato in questi giorni il direttore del Centro studi Italia-Canada, Paolo Quattrocchi, «nel 2017, 2018 e 2019 e quindi dopo l’entrata in vigore del Ceta, probabilmente anche in conseguenza della intensa pubblicità (negativa) del quale è stato fatto oggetto il grano canadese, la sua importazione da parte dell’Italia (storicamente il primo acquirente di grano canadese) si è drasticamente ridotta. (...) Non sussistono quindi i rischi da più parti paventati al momento dell’entrata in vigore dell’Accordo, e ancora oggi riproposti, vale a dire che il Ceta avrebbe consentito l’ingresso nella Ue di prodotti alimentari non in linea con gli standard qualitativi previsti dalla medesima Ue.
Nei sei anni di vigenza dell’Accordo nessun prodotto non in linea con le norme Ue ha fatto ingresso semplicemente perché la normativa europea non lo consentirebbe».
Ma anche a livello comunitario le cose sembrano essere andate piuttosto bene. Anche nel settore agricolo. A dicembre, il sito del Consiglio europeo ha pubblicato alcuni dati più aggiornati sul Ceta: l’export generale dell’Ue verso il Canada è cresciuto, dal 2016 al 2022, del 60%, trascinato in particolare dai prodotti farmaceutici (+74%), dal settore agricolo (+50%) e dai macchinari (+42%). I posti di lavoro legati al commercio Ue-Canada risultavano, nel 2019, 694 mila; il 79% delle imprese Ue che esportano verso il Canada sono piccole e medie e i milioni di euro in dazi risparmiati nel 2022 sono stati 587.
Difficile dare torto al commissario Ue al Commercio, Valdis Dombrovskis, quando dice «Abbiamo cinque anni di prove solide del fatto che il Ceta contribuisce a sostenere l’occupazione e la crescita nell’Ue, senza alcuna ripercussione negativa. (...) È questo il tipo di partenariato dinamico di cui abbiamo bisogno nell’attuale clima geopolitico turbolento». O a Quattrocchi quando conclude «se si considera la pessima pubblicità di cui ha goduto e, soprattutto, la scarsa attenzione che gli è stata attribuita, con la conseguente totale assenza di azioni di promozione, divulgazione e formazione in favore degli operatori, il Ceta ha prodotto ottimi risultati».
Tant’è che qualche ripensamento c’è stato anche in chi vedeva il Ceta come il fumo negli occhi. «Il Ceta è una porcata contro i bisogni dei popoli. FdI si batterà in Italia contro la ratifica» aveva detto, nel febbraio 2017, una Giorgia Meloni allora all’opposizione. «La nostra posizione è chiara: per Fratelli d’Italia chi voterà in Parlamento la ratifica del Ceta è un traditore dell’Italia e del Mezzogiorno e non potrà mai essere nostro alleato» e «Chi vota il Ceta fa un favore alle grandi produzioni e sputa in faccia agli italiani che si sono rifiutati di mettere schifezze nei loro prodotti», aveva ribadito in altre dichiarazioni dello stesso anno. A ricordarle era stato il Fatto Quotidiano, a marzo 2023, quando era arrivato l’annuncio dell’inversione di rotta, da parte del ministro dell’Agricoltura, e cognato della premier, Francesco Lollobrigida: «Ci sono alcuni accordi che sono avviati, che hanno sviluppato alcuni dati, che pragmaticamente sono a vantaggio delle nostre produzioni o mettono noi in condizione di competere con produttori di altri continenti. E questi accordi io penso che possano vedere una discussione in Parlamento che possa metterci nella condizione di arrivare alla sottoscrizione» (che dovrebbe essere imminente in Parlamento e comunque non decisiva per l’operatività, già in essere, di gran parte dell’accordo).
Vero è che, nella stessa occasione, Lollobrigida aveva invece inserito l’accordo con il Mercosur fra quelli «da attenzionare di più». E altrettanto vero è che, se un accordo di libero scambio ha funzionato, non è automatico che debbano funzionare tutti. Nel caso specifico dell’intesa con il Mercosur, c’è anche un’importante questione di sostenibilità ambientale delle produzioni agricole sudamericane che merita un supplemento di riflessione (senza, però, usarla per introdurre un protezionismo «mascherato»).

Non bisogna, però, perdere di vista il fatto che le grandi intese commerciali non impattano soltanto sul settore agroalimentare, ma sull’economia più in generale. «Ciò che l’Europa guadagna dai servizi, dai beni industriali e dall’apertura dei mercati pubblici val bene qualche tonnellata di carne bovina — ha detto a dicembre l’ex direttore della Wto Pascal Lamy a Les Echos —. Vedo chiaramente che in Francia sta emergendo un fronte tra alcuni verdi e alcuni ambienti agricoli.
Rispetto le loro considerazioni, ma la politica è fare delle scelte. Ora dobbiamo scegliere tra una strategia a lungo termine e riflessi a breve termine». Lamy aveva parlato di «ragioni geoeconomiche e geopolitiche» per la firma dell’intesa con il Mercosur. E Carretta conferma che «lo stop ai negoziati con il Mercosur rappresenta un duro colpo per l’agenda di von der Leyen, che vuole usare il commercio con Paesi amici per proiettare la forza dell’Ue nel mondo».

E, a proposito di geopolitica, non è un mistero che i sussidi alle agricolture «ricche» (Ue e Usa in primis) sono uno degli ostacoli all’uscita dalla povertà di molti Paesi del Sud globale. Costretti così a «esportare» — spesso nel modo tragico che conosciamo — persone anziché prodotti.

Insomma, ci i possono essere ottime ragioni — ambientali, paesaggistiche, sanitarie, economiche, di tradizione, di immagine e, perché no, elettorali (per cavalcare o invece imbrigliare l’agro-populismo di cui ha scritto Maurizio Ferrera sul Corriere) — per difendere a spada tratta il settore agroalimentare italiano ed europeo. Senza però dimenticare che, anche in questo campo, non esistono pasti gratis.

Da Il Punto del Corriere della Sera <rcs@news.rcsmediagroup.it>
   

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