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Autore Discussione: SOVRANITÀ, DEMOCRAZIA, EUROPA. RIFLESSIONI A PARTIRE DA GIUSEPPE CAPOGRASSI  (Letto 1400 volte)
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« inserito:: Gennaio 16, 2024, 07:20:08 pm »

SOVRANITÀ, DEMOCRAZIA, EUROPA.
RIFLESSIONI A PARTIRE DA GIUSEPPE CAPOGRASSI [1]

di Stefano Biancu
Université de Lausanne
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In this essay Biancu deals with the themes of sovereignty and democracy starting from the lesson of Giuseppe Capograssi. The Author approaches three thesis of Capograssi: 1) in democracy the sovereignty belongs to people, but it is “rich of prerequisites”; 2) the most important prerequisite of sovereignty (and democracy) is the “maturity” of people; 3) the State represents an important element of “practical experience”. According to Biancu, the lesson of Capograssi is still useful today.


Il principio di sovranità si afferma, all’alba dell’età moderna, con la nascita dei grandi stati nazionali e con il declino dell’idea – romana e poi medievale – di un ordinamento giuridico universale. Secondo Hobbes e i grandi teorici moderni della politica, il principio di sovranità costituisce il superamento dello stato di natura all’interno degli Stati, ma viene anche a coincidere con l’instaurazione di uno stato di natura (e sostanzialmente di guerra) all’esterno dello Stato: tra gli Stati.
Occorre riconoscerlo: oggi di questa impostazione teorica classica rimane ben poco. All’interno degli Stati essa è limitata dal principio di legalità, dalla divisione dei poteri e dall’affermazione dei diritti fondamentali; all’esterno essa trova un limite insuperabile negli ordinamenti giuridici internazionali nati in seguito all’esperienza tragica della seconda guerra mondiale con la Carta dell’ONU del 1945 e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. [2]
Eppure, nonostante questi significativi correttivi, il principio di sovranità fa ancora problema, sia per difetto che per eccesso, in Europa e oltre l’Europa: richiede dunque attenzione e riflessione.
In queste pagine mi propongo di presentare alcuni pensieri in proposito, e di farlo a partire dal contributo di un pensatore di eccezione, che ha iniziato a occuparsi del problema quasi un secolo fa: ovvero Giuseppe Capograssi. [3] Questo dovrebbe anche servire a relativizzare la diffusa sensazione di crisi del presente, come se oggi non andasse più da sé – e domandasse dunque un surplus di riflessione critica – ciò che nel passato funzionava invece molto bene: è chiaro che le cose non stanno affatto così. Presenterò dunque tre tesi di questo pensatore, per poi ricavarne alcune riflessioni intorno al problema attuale della sovranità in rapporto alla democrazia e alle difficoltà che il progetto europeo sembra oggi incontrare.

Sovranità e democrazia secondo Giuseppe Capograssi

Le tesi di Capograssi sulle quali mi concentrerò furono originariamente elaborate tra il 1918 e il 1921, ma da lui continuamente riprese fin quasi alla fine dei suoi giorni: anche quando – nell’immediato dopoguerra – in Italia si discute di come ricostruire il Paese sulle macerie lasciate dal fascismo e dal conflitto.
Delle tre tesi che intendo qui presentare, le prime due hanno a che fare con i “presupposti” della sovranità; la terza riguarda invece più da vicino la natura essenziale dello Stato.
La prima tesi dunque: Capograssi è convinto che in democrazia la sovranità appartenga certamente al popolo, ma come qualcosa che rimane finalmente indisponibile. Non dunque come possibilità vuota di esercizio di una volontà slegata da qualsiasi presupposto previo, ma piuttosto come una libertà ed una volontà ricche di presupposti.
Nel 1918, nelle pagine del Saggio sullo Stato, [4] Capograssi espone la posizione tradizionale delle grandi teoriche sullo Stato (la posizione della «scienza», che egli definisce, con termine vichiano certo non neutrale, «filosofia degli addottrinati»): uno Stato sarebbe, dal punto di vista materiale, un «ente» formato «da un popolo e da un territorio», [5] dove per «popolo» si deve intendere l’insieme degli esseri umani presenti su un territorio, non però come semplicemente «coesistenti» nel medesimo spazio, ma – ben più profondamente – come «conviventi» in un medesimo spirito. [6]
Questo, dunque, per quanto riguarda la considerazione scientifica classica della materia dello Stato. Alla domanda intorno alla forma di uno Stato la scienza avrebbe poi tradizionalmente risposto – secondo Capograssi – formulando il concetto di «sovranità», di «imperio»: lo Stato sarebbe cioè, quanto alla sua «forma essenziale», «potestà assoluta di volere», volere «incondizionato ed illimitato». [7] In questo modo, lo Stato non sarebbe più considerato dalla scienza come un semplice «ente», ma come uno «Stato-persona»: una conclusione tradizionale che, secondo Capograssi, rappresenta un risultato importante, che egli definisce una «suprema astrazione» e una «perfetta costruzione». [8]
Un risultato al quale non ci si può però fermare. Se infatti – a suo giudizio – le teoriche del diritto e della politica hanno visto giusto nel riconoscere nella «sovranità» l’essenza formale dello Stato, questo riconoscimento non è però ancora sufficiente a dire l’essenziale. Esso lascia infatti ancora del tutto inevasa la vera questione, che consiste nell’individuare il detentore di questa sovranità: ovvero chi sia «il Sovrano». [9]
Qui il discorso di Capograssi si fa piuttosto interessante: a suo parere, infatti, la sovranità non può essere considerata una superiorità puramente formale: un potere «vuoto». Al contrario, essa deve essere considerata un potere «pieno»: una volontà che è certamente superiore alle singole volontà individuali, ma che lo è «appunto per il suo contenuto». [10] La sovranità – secondo Capograssi – non può cioè essere arbitrio, ma deve essere rappresentanza «dei costumi e delle idee del popolo», il quale è dunque il vero sovrano, in quanto «crea» il diritto ritrovandolo in se stesso:
nella verità di se stesso. La sovranità è insomma la stessa realtà storica in quanto «avverata nella sua sostanza, ritrovata nella vera attualità della sua natura e dei suoi principi». [11] Tutto questo rende dunque lo Stato il luogo in cui la verità di una data realtà storica viene a espressione e diventa norma.
Ora, accade però – secondo Capograssi – che nello Stato moderno questa idea di sovranità come un pieno di contenuto si perda irrimediabilmente. L’unico «scopo» che lo Stato ben presto si assegna diventa infatti quello di preservare la «libertà dell’individuo», dando così origine a una nozione di libertà fino a quel momento sconosciuta: ovvero una libertà intesa come «la possibilità garentita di vivere la propria vita sensibile a tutto suo agio, e poi la vuota possibilità di pensare il vero o il falso, il bene o il male, di pensare o di non pensare, di credere o di non credere». [12] Sia chiaro: Capograssi non contesta che una piena libertà di coscienza e di autodeterminazione debba essere garantita dalle leggi dello Stato. Che lo Stato, insomma, debba essere neutrale e laico. Egli contesta piuttosto che una libertà intesa come possibilità vuota e come radicale indifferenza verso le «più alte esigenze dello spirito» possa essere legittimamente posta come «ideale dello Stato». [13] A suo parere la legge deve certamente garantire una libertà di coscienza totale, ma questa libertà non può essere per principio fine a se stessa: deve essere funzionale ad altro. La crisi dello Stato moderno consiste così – secondo Capograssi – nell’aver posto come valore supremo e insuperabile ciò che doveva essere piuttosto considerato come mezzo (giuridico e politico) in vista di altro.
Ora, da questa trasformazione e involuzione dell’idea di libertà, deriva – e qui il discorso si fa ancora una volta di grande interesse – una involuzione dell’idea di sovranità, la quale conseguentemente «si spoglia anch’essa di ogni contenuto» e si riduce «a numero». Il risultato, secondo Capograssi, è che, in mancanza di ogni contenuto di valore, lo Stato si riduce a un «pulviscolo di individui» [14] e di egoismi contrapposti. La sovranità deve dunque essere legata a dei contenuti, i quali sono finalmente indisponibili: e lo sono non perché appartengano ad un astratto e iperuranico mondo dei principî, ma perché sono iscritti nell’esistenza reale del popolo: nei suoi costumi e nelle sue idee.
Quanto detto consente di passare agevolmente alla seconda tesi: se la sovranità appartiene al popolo non come arbitrio assoluto ma come esercizio di una volontà ed una libertà legate ad alcuni presupposti essenziali, è evidente che l’esercizio della sovranità postula e implica la capacità, da parte del popolo, di riconoscere tali presupposti, di portarli a parola e di esprimerli, traducendoli in norme. L’esercizio della sovranità domanda cioè una maturità del popolo. Detto altrimenti: in democrazia la sovranità si fonda sul presupposto inaggirabile di individualità piene e mature.
Nel 1921, tre anni dopo il Saggio sullo Stato e quando in Italia la crisi dello Stato liberale è già scoppiata in tutta la sua virulenza e le condizioni sociali e politiche favorevoli all’avvento del fascismo sono ormai mature, Capograssi pubblica le Riflessioni sull’autorità e la sua crisi. [15] In questo libro straordinario (destinato a diventare un classico nel corso degli anni), Capograssi individua «l’intimo nucleo il nucleo quasi religioso della democrazia» nella «esigenza fondamentale e finora inappagata di un’educazione della volontà individuale». [16] La forma democratica di Stato e di governo si regge insomma soltanto se essa è applicata a individui pienamente liberi e, dunque, pienamente umani. Qui sta infatti, a giudizio di Capograssi, la radice della «grande crisi della democrazia»: nel credere «che ogni individuo possa dire la sua parola sopra quella che è la sua realtà», ovvero «che l’immediatezza e il senso possano dire una parola». [17] Il grande compito della democrazia è così di carattere essenzialmente educativo: «poiché si è dato all’individuo la funzione augusta di esprimere il suo giudizio sulla vita» – scrive Capograssi – «tutto il problema della democrazia è proprio questo di rendere capace l’individuo di pensiero e di parola». Dovere sommo della politica è così «di convertirsi in quello che è la sostanza stessa del suo concetto, in educazione». [18
E dunque: la sovranità appartiene certamente al popolo, ma – dice Capograssi – essa «dev’essere meritata»: [19] la sovranità esige cioè l’esercizio di un dovere, il dovere dell’autoformazione, ma anche l’esercizio di un diritto, il diritto alla formazione. In altri termini: una democrazia è autorevole nella misura in cui i suoi membri sono essi stessi autorevoli: donne e uomini liberi, pienamente impegnati nel faticoso cammino che conduce ogni individuo verso la propria umanità.

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SOVRANITÀ, DEMOCRAZIA, EUROPA.
SOVRANITÀ, DEMOCRAZIA, EUROPA.
RIFLESSIONI A PARTIRE DA GIUSEPPE CAPOGRASSI [1]
di Stefano Biancu
Université de Lausanne
A un popolo di schiavi, incapace di darsi altri fini che non siano quelli immediati, particolari, e finalmente egoistici dei propri bisogni quotidiani (siano essi reali o indotti), non può che corrispondere una democrazia serva, a disposizione di chi sappia meglio accarezzarne gli egoismi e i capricci. La democrazia necessita insomma di donne e uomini liberi e maturi e presuppone dunque una vasta opera educativa. Altrimenti la sovranità del popolo si trasforma in un dominio sul e contro il popolo.
Di qui, la terza tesi capograssiana che mi propongo di richiamare. Essa concerne la natura essenziale dello Stato. Si tratta dell’idea – già chiarissima fin dal Saggio del 1918 – in forza della quale lo Stato rappresenta un elemento importante della «esperienza pratica», ovvero un ambito fondamentale dell’azione umana. Agli occhi di Capograssi, lo Stato svolge cioè una essenziale funzione antropogenetica e generativa: appartiene a quelle “mediazioni” storiche che l’uomo mette in campo nel suo interminabile sforzo di giungere alla pienezza della propria umanità. Per questo Capograssi reagisce con allarme alla epocale perdita di autorevolezza e di credibilità dello Stato moderno (uno Stato che gode di un potere enorme, sconosciuto nel passato, ma che a suo giudizio vive al contempo una drammatica crisi di autorevolezza): egli è convinto che non si tratti di una perdita senza conseguenze. Se lo Stato si riduce a «giuoco e illusione» il rischio è infatti che ogni azione umana diventi tale. Per scongiurare questo pericolo occorre così – secondo Capograssi – «riconsacrare» questa forma di esperienza, per poter conseguentemente «riconsacrare tutta l’esperienza». Si tratta cioè, di fare «nostro» lo Stato: di «rispecchiare la nostra umanità nella sua sostanza». [20] Occorre insomma riscoprire lo Stato come opera profondamente umana, come istituzione di un’umanità che, attraverso le grandi opere della storia e della cultura, si umanizza: si appropria della sua stessa umanità, compiendola. Lo Stato è in questo senso un mediatore di umanità: l’uomo fa la storia (e le sue istituzioni) per fare se stesso. La storia è così il risultato del continuo sforzo dell’uomo di compiere la propria umanità e lo Stato rappresenta una produzione importante di questa azione umana nella storia. Esso – scrive Capograssi – «è una determinazione vivente e produttiva della nostra personalità considerata nella sua concretezza». [21]
Secondo il nostro autore, la considerazione scientifica non ha saputo riconoscere questa natura profondamente umana (e umanizzante) dello Stato: l’ha interpretato come prodotto di una necessità in qualche modo superiore e indifferente alla storia, dimenticando il suo essere frutto dell’azione umana: di un’azione pienamente umana, attraverso la quale l’uomo si umanizza, si fa uomo.
Qui sta dunque la grandezza dello Stato: nell’essere un prodotto e un’istituzione umana capace di produrre e di istituire sentieri di umanità. Ma qui sta anche la dichiarazione più netta e più chiara dei suoi limiti. Leggere lo Stato come tappa del cammino dell’uomo verso la pienezza della propria umanità significa infatti anche riconoscere che in esso è già iscritto il principio del suo superamento: è cioè iscritta «una realtà più alta» rispetto alle particolarità dei popoli e delle loro istituzioni statuali. Si tratta di ciò che Vico chiamava «civitas magna»: l’utopia di un mondo unito e profondamente eguale, ben oltre i vari particolarismi statali. Per questo, secondo Capograssi, ogni vera ricerca sullo Stato non può che essere «una profonda meditazione sulla sua fine»: [22] sul suo superamento. Lo Stato, in quanto istituzione della storia, non è insomma niente di assoluto. Esso è una tappa in vista di altro: in vista di un’umanità capace di adeguare pienamente la propria umanità, di essere perfettamente eguale a se stessa e di essere, dunque, eguale al suo interno: unita e in pace.
Lo Stato, in quanto mediazione della soggettività e della socialità, non è né una parola prima né una parola ultima: la parola prima è infatti l’umanità dell’uomo in quanto umanità da compiere, e che si compie attraverso le istituzioni della storia; la parola ultima è ancora una volta l’umanità dell’uomo, in quanto umanità compiuta, anche grazie allo Stato, ma comunque oltre esso. Sbaglia dunque, secondo Capograssi, chi affida troppo allo Stato, giacché esso non è niente di assoluto. Ma sbaglia anche chi nega troppo allo Stato, perché questo significa non riconoscere alcune condizioni inaggirabili della nostra umanità.
Sovranità, democrazia, Europa

Fin qui dunque, in estrema sintesi, le riflessioni di Capograssi. Evidentemente esse lasciano intravedere alcune notevoli differenze tra i problemi ai quali egli si trovava confrontato nel suo tempo rispetto ai problemi di oggi, allorché alla crisi di autorevolezza dello Stato si è aggiunta una evidente crisi di esercizio, dovuta sia ad un decentramento dei centri di potere (con un evidente primato dell’economico e del finanziario sul politico), sia ad una crisi di esercizio della democrazia, minacciata dal virus del populismo e da una mancata composizione tra la forma e il contenuto, tra la procedura e i suoi necessari presupposti. Eppure mi pare evidente che il contributo di Capograssi possa ancora oggi dare a pensare: mi propongo dunque di partire da esso per alcune riflessioni.

1. Innanzitutto la sovranità non può non appartenere al popolo. Un principio che, com’è noto, la Costituzione italiana ha recepito all’articolo 1. Conseguentemente il diritto non può che esprimere, sotto forma di norma giuridica, la volontà che emerge dall’esperienza vivente di questo popolo (Capograssi parla a questo proposito di una «esperienza giuridica» fondata sulla «esperienza comune»). [23] Il diritto non può cioè essere arbitrio: esso non è mai del tutto disponibile al sovrano (chiunque egli sia). In fondo non è del tutto disponibile neanche al popolo, nella misura in cui quest’ultimo non può tradire i presupposti reali della sua esistenza «comune». Qui sta, evidentemente, un principio antitotalitario fortissimo.

2. Ma il principio di un radicamento del diritto – e dunque dell’esercizio della sovranità – nella vita reale del popolo ha una sua ben precisa condizione di possibilità: che il popolo sia capace di ritrovare nella sua esperienza i contenuti normativi propri del diritto. Che sia cioè capace di distinguere tra diritto e capriccio, tra dovere e imposizione arbitraria, tra bisogni reali e bisogni indotti (magari dalla propaganda commerciale o politica). Per dirla con Capograssi: se la sovranità non può non essere del popolo, il popolo deve però meritarsela. Un popolo sensibile alle moine del populismo non è un popolo né autorevole, né libero.
E il populismo non è l’apice della sovranità popolare, ma una forma subdola di dominio sul popolo. Affinché l’autorità sia del popolo, il popolo deve essere autorevole.

3. Ora, questo significa almeno due cose. Innanzitutto significa che la libertà politica è necessaria, giacché senza libertà non c’è diritto, ma soltanto arbitrio: al popolo – e ad ogni individuo in esso – deve dunque essere formalmente riconosciuta la libertà (nel senso delle libertà tipiche di uno stato di diritto democratico). In secondo luogo significa però anche che la forma di questa libertà ha delle condizioni ben precise e che essa non è affatto un dato immediato che possa semplicemente essere dato per scontato. Come diceva Capograssi, la libertà non può cioè essere libertà di pensare o di non pensare: essa è certamente una condizione indispensabile del pensiero, ma – allo stesso tempo – è anche un risultato del pensiero. La politica non può, in altri termini, limitarsi a garantire la forma della libertà: deve occuparsi anche della forza di questa libertà. Pensare è certamente un diritto, ma è anche un dovere, che si deve essere messi in condizione di esercitare. In questo senso, la democrazia presuppone l’educazione: la maturazione di una diffusa capacità di pensiero.

4. Ora, in democrazia il pensiero necessita almeno di due condizioni. In primo luogo necessita di uno «spazio pubblico» in cui possa aver luogo la pubblica argomentazione. [24] Spazio pubblico neutro e laico che spetta alla politica garantire. Senza spazio pubblico non solo non c’è pensiero pubblico (nel senso, minimo, dell’opinione pubblica), ma il pensiero tout court risulta gravemente deficitario. E questo in quanto il pensiero non è mai un esercizio esclusivamente individuale e solipsistico: esso è insuperabilmente dialogico e il dialogo necessita di uno spazio di incontro. Lo diceva già Kant (in maniera quasi sorprendente): «Fino a che punto penseremmo, se non pensassimo per così dire in comunità con altri, ai quali partecipiamo i nostri pensieri ed essi a noi i loro?». [25]

5. Ma c’è ancora una seconda condizione affinché in democrazia sia possibile il pensiero. Si tratta della garanzia non soltanto di uno «spazio pubblico», ma pure di una «durata pubblica» [26] : di un dialogo non solo in estensione (tra posizioni diverse appunto, tra destra e sinistra… – si tratta sempre, non a caso, di metafore spaziali), ma pure in profondità (con il passato e con il futuro). Solo una durata pubblica può infatti favorire la maturazione di quella che Böckenförde chiama una «base pregiuridica comune»: [27] ciò che – per dirla con Capograssi – rende un insieme di individui semplicemente «coesistenti» (nello spazio) un popolo di «conviventi» nello spirito. Si tratta, in altri termini, di quell’esperienza comune che sta alla base dell’esperienza giuridica, sulla quale deve a sua volta fondarsi la norma positiva. Se dunque alla forma della libertà potrebbe teoricamente bastare uno spazio pubblico, la forza della libertà richiede anche una durata pubblica: contenuti che, giunti in eredità dalla storia, sono fondamentali per l’identità di una comunità e per la forza della sua democrazia.

6. Qui si apre però il problema – oggi esasperato – delle identità. Parlare della necessità di garantire una “durata pubblica” non significa infatti forse indulgere alla retorica delle identità? Certamente significa questo se con “durata pubblica” si intende una continuità sostanziale di contenuti: questo sarebbe fissismo e, se esasperato, fondamentalismo. Ma “durata pubblica” non è questo.
Per comprendere bene cosa sia la durata pubblica occorre richiamarsi a quel modello di socialità che l’etimologia del termine “comunità” suggerisce e sottende: la parola latina “communitas” dice infatti di un “cum-munus”, [28] di un dono comune, ricevuto (da ciascuno) e rimesso in circolo arricchito (ancora una volta da ciascuno). Questo dono – che è scambiato non solo nello spazio, ma pure nel tempo e nello scorrere delle generazioni – è certamente ciò che ci identifica: ciò che ci consente di affermare un «io» e un «noi». Ma è anche ciò che ci impedisce di interpretare l’identità come un possesso: come qualcosa da difendere contro l’esterno. Perché il cum-munus, il dono comune che ci assegna un’identità, non è un possesso, ma è piuttosto un debito che è nostro dovere restituire rimettendolo in circolo (“dovere” è peraltro uno dei significati della bella parola latina “munus”). In questo senso, la durata pubblica ci abilita a pensare, ma non lo fa “immunizzandoci” rispetto alla relazione con l’altro. Ci costringe anzi ad entrare in una logica di scambio non mercantile, nel quale ne va di quello che noi stessi siamo. Lo scambio non è cioè soltanto esterno all’identità, ma è anche interno ad essa: non c’è insomma prima l’identità – un’identità già da sempre costituita – e poi lo scambio, ma questo è costitutivo di quella (come d’altronde l’identità lo è per lo scambio). Detto altrimenti: l’identità ha natura dinamica, non statica.


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RIFLESSIONI A PARTIRE DA GIUSEPPE CAPOGRASSI [1]
di Stefano Biancu
Université de Lausanne
7. Ora, prendere sul serio la necessità di garantire una durata pubblica mi pare comporti due conseguenze molto importanti. In primo luogo essa svolge una funzione antitotalitaria fortissima. Per spiegarlo mi paiono preziose le categorie di Giorgio Agamben, secondo il quale – com’è noto – la figura del diritto romano arcaico dell’homo sacer è il paradigma della «nuda vita», la quale è finalmente il presupposto della teoria hobbesiana (e dunque occidentale) della sovranità. [29] Secondo Agamben, la sovranità si è cioè tradizionalmente legittimata per la sua capacità di sospendere quello stato di guerra di tutti contro tutti nel quale ciascuno è nuda vita, homo sacer, per l’altro: nel quale ciascuno è finalmente uccidibile da chiunque.
Tradizionalmente, il potere sovrano si legittima dunque per la sua capacità di togliere la vita di ciascuno dalla disponibilità di tutti gli altri, mettendola nella esclusiva disponibilità del sovrano stesso. Ora, secondo Agamben, questa nuda vita che costituisce il presupposto ultimo del pensiero politico occidentale (in quanto ragione ultima della necessità della sovranità), è soltanto una finzione: un prodotto artificiale, non naturale. Nella realtà nessun uomo è infatti mai una nuda vita, ma è piuttosto una forma-di-vita indissociabile da un contesto, da un mondo linguistico e culturale: ovvero da ciò che abbiamo chiamato una «durata pubblica». Secondo Agamben l’ambizione suprema del biopotere moderno è invece proprio quella di realizzare una separazione assoluta tra il vivente e il parlante: tra la nuda vita e l’individuo inserito in una comunità e in una durata pubblica. La politica mira cioè a convertirsi integralmente in biopolitica, decidendo della identità umana, di ciò che pertiene o non pertiene all’umano, di ciò (e di chi) appartiene alla comunità degli esseri umani (gli esempi nella storia non sono purtroppo mancati). Ecco dunque la prima funzione di una presa in carico della nozione di «durata pubblica»: il riconoscimento che la vita umana non è mai nuda vita: non è mai del tutto disponibile al potere.

8. Ma c’è ancora una seconda importante conseguenza di una seria presa in considerazione della durata pubblica. Si tratta di un notevole ridimensionamento di quelle spinte localistiche che, per esempio, mettono in crisi il progetto di un’Europa unita. Se durata pubblica significa un’identità a partire dalla quale pensare, ma anche un’identità più prossima alla natura del debito che non a quella del possesso, è evidente che ogni spinta localistica che miri alla “immunizzazione” della comunità locale nei confronti del fuori e dell’altro non fa altro che tradire non solo le radici e la storia della comunità, ma pure il suo avvenire. Solo il rapporto con l’altro – nel tempo e nello spazio – abilita infatti a dire «io» e a dire «noi». Non riconoscere il debito che ci lega gli uni agli altri significa sciogliere le comunità e inferocire le persone.

9. Tutto questo ha evidentemente delle ricadute molto concrete anche sull’attualità. Penso al problema, oggi urgentissimo, di un’Europa messa in difficoltà da spinte localistiche e centrifughe. L’Europa non è oggi messa in crisi dalle sovranità nazionali in sé stesse, ma da una certa e peculiare forma di sovranità, formalmente fondata sul popolo, ma spesso sostanzialmente compromessa da un populismo che ha interesse a mantenere i popoli in un costante «stato di minorità».
All’interno degli Stati membri, infatti, spesso la politica agita paure globali col fine di creare consenso attorno a un nemico comune: un consenso che però toglie sovranità al popolo, invece che riconoscergliela. Esso mira non tanto a esprimere l’«esperienza comune» del popolo, ma a dominarlo attraverso la seduzione e la paura. Si tratta cioè di un consenso che garantisce forse la forma della libertà, ma la svuota di ogni forza. Con Capograssi (e oltre Capograssi), si potrebbe dire che oggi in Europa l’autorità della sovranità viene, sì, formalmente riconosciuta al popolo, ma che essa facilmente degenera in una sovranità contro il popolo. E questo può accadere a causa di una crisi di autorevolezza dei popoli europei. La crisi di autorità dell’Europa è così finalmente una crisi di autorevolezza
dei popoli europei, che faticano a liberarsi da un populismo che vive e si nutre di spinte localistiche che tradiscono la storia e l’avvenire delle comunità (la durata pubblica, appunto). Spinte che riducono in maniera sostanziale le possibilità di uno spazio, pubblico e comune, quale luogo di incontro e di confronto.
Non credo che si possa consentire con le tesi di coloro secondo i quali il progetto europeo è in sé stesso sintomatico di una generale sovversione del politico da parte del giuridico (e dunque finalmente il sintomo di un diffuso individualismo: è la tesi di Marcel Gauchet). [30] Credo piuttosto che l’Europa possa realmente ambire ad ampliare i confini del politico – classicamente coincidenti coi confini dello Stato-nazione – e ad andare oltre lo Stato, secondo l’intuizione vichiana e capograssiana di una «civitas magna». E questo proprio con lo scopo di creare un ambiente cosmopolitico favorevole alla stabilizzazione delle conquiste irrinunciabili tipiche dello Stato di diritto democratico (è la tesi di Jean-Marc Ferry): [31] conquiste oggi messe in pericolo da un governo non democratico dell’economia e della finanza su scala globale. Ma perché l’Europa possa avere l’autorità necessaria a operare questa riconquista politica dell’economico, il popolo europeo deve essere libero e autorevole: attento alla delicatezza non solo del proprio spazio pubblico ma anche delle differenti durate pubbliche che di quest’ultimo sono una imprescindibile condizione di possibilità.

 
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[1] Testo redatto dall’Autore relativo alla relazione tenuta nella Sessione dedicata a “Principio di sovranità e democrazia moderna” (con L.M. Bassani e C. Lottieri) in occasione della Lectio Magistralis di Hans-Hermann Hoppe (Università degli Studi di Padova, 9 dicembre 2010).
[2] Cfr. su questo L. FERRAJOLI, La sovranità nel mondo moderno. Nascita e crisi dello Stato nazionale, Laterza, Roma-Bari 1997.
[3] Non mi è qui possibile dilungarmi sulla figura di Giuseppe Capograssi (1889-1956). Per ulteriori approfondimenti rimando a S. BIANCU, La rivoluzione cristiana: l’autorità come educazione e come carità, introduzione a G. CAPOGRASSI, Educazione e autorità: la rivoluzione cristiana, La Scuola, Brescia 2011. Su Capograssi si veda anche: Due convegni su Giuseppe Capograssi (Roma-Sulmona 1986), a cura di F. MERCADANTE, Milano, Giuffrè 1990; A. PIGLIARU, Saggi capograssiani, a cura di A. DELOGU, Edizioni Spes – Fondazione Giuseppe Capograssi, Roma 2009; Esperienza e Verità. Giuseppe Capograssi: un maestro oltre il suo tempo, a cura di A. DELOGU e A. M. MORACE, Bologna, Il Mulino 2009; M. D’ADDIO, Giuseppe Capograssi. «La vita non c’è, bisogna farsela» 1889-1956, Giuffrè, Milano 2011. Per quanto riguarda in particolare la riflessione del giovane Capograssi sullo Stato si veda anche F. GENTILE, Il giovane Capograssi nei due saggi sullo Stato: 1911-1918, in Due convegni su Giuseppe Capograssi, cit. pp. 305-318.
[4] G. CAPOGRASSI, Saggio sullo Stato, in: Id., Opere, Giuffrè, Milano, 1959-1990, vol. I, pp. 1-147 (ed. or. Bocca, Torino 1918).
[5] Ivi, p. 36.
[6] Ivi, p. 38.
[7] Ivi, pp. 40-41.
[8] Ivi, p. 42.
[9] Ivi, p. 102.
[10] Ivi, p. 103.
[11] Ivi, p. 107.
[12] Ivi, p. 137.
[13] Ivi, p. 138.
[14] Ibidem.
[15] G. CAPOGRASSI, Riflessioni sull’autorità e la sua crisi, a cura di M. D’ADDIO, Giuffrè, Milano 1977 (ed. or. Carabba, Lanciano 1921; disponibile anche in: G. CAPOGRASSI, Opere, cit. vol. I, pp. 149-402).
[16] Ivi, p. 216.
[17] Ivi, p. 223.
[18] Ivi, pp. 223-224.
[19] Ivi, p. 225.
[20] G. CAPOGRASSI, Saggio sullo Stato, cit., p. 8.
[21] Ivi, p. 9.
[22] Ivi, p. 17.
[23] Com’è noto, si tratta di categorie ricorrenti nell’intera opera capograssiana. Ma, in particolare, in due opere dei primi anni Trenta: Analisi dell’esperienza comune (1930), in: Opere, cit., vol. II, pp. 1-207 e Studi sull’esperienza giuridica (1932), in: Opere, cit., vol II, pp. 209-373.
[24] Cfr. J. HABERMAS, Strukturwandel der Öffentlichkeit. Untersuchungen zu einer Kategorie der bürgerlichen Gesellschaft (1962), Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2009.
[25] KANT, Was heisst: Sich im Denken orientieren? (1786), in Kant’s Gesammelte Schriften, Reimer, Berlin 1900ss, vol. VIII, pp. 131-147; ed.it. a cura di F. DESIDERI, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, in I. KANT, Questioni di confine. Saggi polemici 1786-1800, Marietti, Genova 1990, p. 14.
[26] Cfr. M. MERLEAU-PONTY, L’institution dans l’histoire personnelle et publique / Le problème de la passivité: le sommeil, l’inconscient, la mémoire: notes de cours au Collège de France (1954-1955), Belin, Paris 2003; M. REVAULT D’ALLONNES, Le pouvoir des commencements. Essai sur l’autorité, Seuil, Paris 2006; S. BIANCU, La questione dell’autorità, in S. BIANCU – G. TOGNON (a cura di), Autorità. Una questione aperta, Diabasis, Reggio Emilia 2010, pp. 9-77.
[27] E.-W. BÖCKENFÖRDE, Der Säkularisierte Staat. Sein Charakter, seine Rechtfertigung und seine Probleme im 21. Jahrhundert, Carl Friedrich von Siemens Stiftung, München 2007, p. 11-43; tr.it. Libertà religiosa e diritto: lo stato secolarizzato e i suoi valori, in Il Regno-Attualità, n. 18, 2007, pp. 637ss.
[28] Cfr. su questo l’ormai classico contributo di R. ESPOSITO, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 20062. Sul tema del dono e sulla socialità che ne deriva il riferimento obbligato è però evidentemente al saggio di M. MAUSS, Essai sur le don, «Année sociologique», serie II, 1923-24, t. I.; poi in: Id., Sociologie et anthropologie, Puf, Paris 1950; tr.it. di F. ZANNINO, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965. La prospettiva aperta da Mauss ha dato vita nel XX secolo a molteplici correnti di studio, alla ricerca di un modello di socialità differente rispetto alle prospettive classiche del liberalismo e del comunitarismo. Su questo si veda almeno: A. CAILLÉ, Anthropologie du don. Le tiers paradigme, Desclèe de Brouwer, Paris 2000.
[29] È la tesi fondamentale di G. AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995.
[30] Cfr. M. GAUCHET, La condition politique, Gallimard, Paris, 2005.
[31] Cfr. J.-M. FERRY, La république crépusculaire. Comprendre le projet européen in sensu cosmopolitico, Éditions du Cerf, Paris 2010.

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