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Autore Discussione: Le profezie di Italo Calvino - ALESSANDRO CARRERA.  (Letto 1487 volte)
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« inserito:: Ottobre 20, 2023, 07:25:39 pm »

Le profezie di Italo Calvino
ALESSANDRO CARRERA

A cento anni dalla nascita, di Italo Calvino possiamo valutare oggi la capacità profetica unica. Non ha mai sopravvalutato il capitalismo di casa sua, che conosceva meglio di quanto non lo conoscesse Pasolini, ma è stato un profeta delle trasformazioni del sapere, del processo di conoscenza che di continuo viene rinegoziato tra ciò che accade nella nostra mente interna, dovunque essa sia, e ciò che avviene nella grande mente esterna dell’universo, alla quale cerchiamo disperatamente di accedere. E ha previsto un mondo esterno che ci sorveglia e ci condanna, dove non ci si può più muovere, ogni angolo è affollato, anche per chi come Palomar sta cercando di compiere il gesto che tra tutti è il più semplice, quello di alzare gli occhi al cielo: il gesto fondatore dell’umanità.

“Una notte osservavo come al solito il cielo col mio telescopio. Notai che da una galassia lontana cento milioni d’anni-luce sporgeva un cartello. C’era scritto: TI HO VISTO”. Così inizia Gli anni luce, penultimo racconto delle Cosmicomiche di Italo Calvino. Passato lo stupore, il protagonista, che non ha nome ma è identificabile come Qfwfq, il proteico personaggio che attraversa l’intero ciclo stagionale dell’universo, fa subito i suoi calcoli. Se la luce di quella galassia impiega cento milioni di anni a raggiungere il suo pianeta, vuol dire che da quell’altro pianeta l’hanno visto con altri cento milioni di anni di ritardo. Quel cartello deve quindi risalire a qualcosa che è accaduto duecento milioni di anni prima. Ora, Qfwfq si ricorda che duecento milioni di anni prima, proprio quel giorno, aveva fatto qualcosa di cui non era propriamente orgoglioso, fino a sperare poi che nessuno l’avesse visto, oppure che tutti se ne fossero dimenticati. Ma non era andata così e quel cartello ne era la prova.

Qfwfq deve quindi decidere come rispondere, perché ignorare l’avvertimento non si può. Quale scritta innalzerà a sua volta, anche sapendo che sarà vista solo dopo cento milioni di anni? All’inizio pensa a una strategia obliqua come: “Lasciate che vi spieghi” o magari: “Avrei voluto vedere voi al mio posto”, ma una risposta del genere è troppo difensiva. Pensa allora di provocare l’anonimo autore di quel cartello rispondendogli: “Ma hai visto proprio tutto o appena un po’?” O magari: “Vediamo se dici la verità: cosa facevo?”.

Ma non basterebbero duecento milioni di anni per ricevere una risposta. Le galassie, come si sa, dal Big Bang in poi non hanno mai smesso di allontanarsi l’una dall’altra. E siccome più si allontanano dal nucleo iniziale più aumenta la loro velocità, ci vorrebbero duecento milioni di anni più qualche milione ancora per poter continuare la conversazione, se di conversazione si può parlare. Qfwfq decide dunque di rispondere con un puro e semplice: “E con ciò?”. Un’alzata di spalle, insomma, che dovrebbe convincere quel tale dell’altra galassia che lui, Qfwfq, non è minimamente preoccupato di essere stato visto in quella circostanza non proprio ideale. Dopotutto, pensa Qfwfq, nella mia vita non ho molte cose di cui mi devo preoccupare o pentire, quello che ho fatto è sotto gli occhi di tutti e in gran parte parla a mio favore. Anche se laggiù si sono fatti un’opinione negativa di me, prima o poi se ne dimenticheranno o in qualche modo gli passerà.

Però c’è una cosa che lo preoccupa, e non è tanto quell’isolato cartello ma la possibilità che altri potrebbero averlo visto in quella circostanza infelice. Magari c’è un’opinione negativa nei suoi confronti che proprio in quel momento sta circolando nel vuoto cosmico, ingigantendosi e rifrangendosi da una galassia a un’altra. Così Qfwfq riprende a osservare l’universo temendo di trovare un altro “TI HO VISTO” su un’altra galassia. E infatti lo trova. E non solo uno, altri ne spuntano. Qfwfq non vuole cedere e risponde con sdegno: “Ah sì? Piacere”, “M’importa assai”, o anche “Tant pis”.

Ma i cartelli continuavano a spuntare, inclusi quelli che dicevano: “Ho visto il ti ho visto”. Bisognava correre ai ripari. Per esempio, c’era stato un giorno in cui Qfwfq aveva compiuto un’azione di cui era abbastanza orgoglioso. Magari era sufficiente a cambiare l’opinione che sulle altre galassie si erano fatti di lui. Poteva anche essere il momento giusto per tirarla fuori perché i cartelli “Ti ho visto”, “Pare che ti abbiano visto”, “Di là sì che ti hanno visto” continuavano a spuntare. Se l’attenzione nei suoi confronti era così alta, non bisognava perdere tempo e scatenare la controffensiva. Qfwfq di nuovo fa i suoi conti e trova la galassia in cui proprio quel giorno dovrebbe essere arrivata, insieme alla luce del suo pianeta, l’immagine di quell’azione virtuosa di cui poteva vantarsi. Ma invece di essere congratulato dagli abitanti di quell’altra galassia vede solo un cartello con su scritto: “Hai la maglia di lana”. È vero che qualcun altro aveva innalzato un cartello con su scritto: “Quel tizio sì che è in gamba”, ma perché “quel tizio”? Possibile che nessuno l’avesse riconosciuto? No, non era stato riconosciuto, tant’è vero che qualcun altro aveva alzato un suo cartello con su scritto: “Chi sarà?”. Sempre meglio di quell’altro che diceva: “Non si vede un accidente” o di tutti quegli altri cartelli che ora Qfwfq vedeva spuntare ovunque. Pareva proprio che ogni giorno della sua vita fosse stato osservato, soppesato e giudicato in modo negativo, o magari positivo, ma comunque mai decisivo, mai senza lasciare qualche margine di dubbio. Anche i giudizi positivi si riferivano alle occasioni sbagliate. Uno “Stavolta mi sei piaciuto” era stato scritto quando Qfwfq si era reso responsabile di una seria dimenticanza che gli aveva pure danneggiato la carriera.

Che fare? Meglio dimenticarsi del passato e concentrarsi sul futuro, preparandosi a rendere pubbliche tutte le occasioni in cui ci sarebbe stata la possibilità di fare una bella figura. Ma i rischi si presentavano lo stesso. E se dopo aver avvertito l’universo che qualcosa di importante stava per succedere, magari proprio quell’azione virtuosa andava a catafascio e otteneva risultati contrari alle aspettative? Come rimediare allora? No, meglio lasciar perdere e sperare nel progressivo aumento di velocità delle galassie più lontane. Prima o poi avrebbero superato la soglia della velocità della luce, 300.000 chilometri al secondo, e sarebbero scomparse nel buio dell’infinito, dove nessuna informazione le avrebbe raggiunte e da dove non avrebbero più potuto giudicare quello che non avrebbero mai visto.[1]

Ora, sostituiamo il cartello “TI HO VISTO” con un tweet (o un X), che dice: “MI HAI OFFESO”. Sostituiamo il cartello che dice: “Ho visto il ti ho visto” con un re-tweet (o re-X) che dice: “Sono offeso che tu abbia offeso qualcuno”. Rileggiamo il racconto di Calvino come se fosse una profezia paurosamente accurata dai social media, dell’ansia che provocano, del terrore di essere incessantemente giudicati e condannati e allo stesso tempo dell’impossibilità di rinunciare alla brama di esporre all’universo intero ciò che si fa, si pensa, si crede di fare o si crede di pensare.

Mezza umanità – solo mezza, perché l’altra metà è troppo impegnata a schivare pallottole o a trovare acqua da bere – passa buona parte delle sue giornate, nonché nottate, col telescopio puntato nel timore di qualche “Ti ho visto” come nell’attesa di un “Mi sei piaciuto”, mentre allo stesso tempo inalbera il cartello con il quale rende pubblica la sua ultima grande impresa, la sua ultima indignazione nonché la sua ultima crisi di panico. Perché il mondo che sta nei nostri schermi, l’equivalente del telescopio di Qfwfq, è equamente diviso tra panico e indignazione. Ci esponiamo, non riusciamo a farne a meno anche se sappiamo quanto sia pericoloso e siamo dunque in ansia perenne per le conseguenze della nostra farisaica vanità. Dalle altre galassie, che sono gli altri account di Facebook, Tweet-X, Instagram e Tik Tok, ci rispondono con ben poca simpatia, parecchia altezzosità, superiorità morale, disprezzo, altrettanta vanità e magari altrettanto panico, che noi però non percepiamo, visto che ci arriva solo un messaggio strizzato in una frasetta o in un video di mezzo minuto. Non riusciamo a sentire nessuna solidarietà, nemmeno con coloro che ci approvano, e tantomeno misurare la differenza, magari nemmeno insormontabile, con coloro che ci condannano. Se abbiamo qualcosa in comune, non lo sapremo mai. L’unica differenza tra noi che alziamo i nostri poveri cartelli elettronici e i personaggi del racconto di Calvino è che loro, almeno, si allontanano gli uni dagli altri. Hanno la fisica dell’universo dalla loro parte. Prima o poi dovranno prendere congedo e, se non lo faranno, la velocità della luce lo farà per loro. Si perderanno di vista, rientreranno nel buio e forse si calmeranno, ma a noi questo sollievo è negato. Gli altri ci rimangono lontani ma non si allontanano, perché nello spazio virtuale dei social media non c’è spazio. Tutto è prossimo, tutto è vicino, tutto ci rinchiude anche se niente ci tocca. C’è il tempo, ma anche il tempo è compresso. Ce n’è solo quel tanto che basta per dire “mi hai offeso” o “so che hai offeso qualcuno e quindi hai offeso anche me”, ma non sarà mai sufficiente per spiegare le ragioni di nessuno e tantomeno le contro-ragioni. Può darsi che io senza saperlo abbia offeso qualcuno, ma questo qualcuno non lo verrà a dire a me, non mi guarderà negli occhi dicendomi che l’ho offeso. Lo dirà invece all’intera galassia che immediatamente mi condannerà perché la condanna è rapida, mentre l’assoluzione per non aver commesso il fatto o per godere almeno di attenuanti generiche richiede un tempo, una durata, che non abbiamo più a disposizione.

Le Cosmicomiche sono del 1965. Diciotto anni dopo, nel 1983, Calvino descrive il suo signor Palomar nell’atto di scrutare il cielo, questa volta non per cercare approvazione o per qualche azione che ha commesso ma per il puro piacere della contemplazione dalla quale – secondo Platone e Aristotele, e molti altri insieme a loro e dopo di loro – nascono la filosofia e anzi lo stesso sapere. S’intende una contemplazione attiva, tutt’altro che passiva, perché implica un’azione da parte del soggetto contemplante. Non si tratta solo di godere di una Theoría, di un corteo di Idee che ci passa davanti. Il filosofo-scienziato, anche quando è un dilettante come lo è Palomar, sa benissimo che la contemplazione è un lavoro impegnativo; comporta pratiche precise, circostanziate, e che non mancheranno di ricadere sulla vita personale, sociale e politica del contemplante. Palomar sa bene quali sono le pratiche che vuole mettere in atto, intende contemplare il cielo come lo facevano gli antichi navigatori o i pastori erranti, a occhio nudo. Non avrà un telescopio, ma si servirà di carte stellari che dovrà studiare e memorizzare ma anche controllare e ricontrollare. Meglio portarsi dietro una lampadina tascabile e sapere dove appoggiare gli occhiali, anche su una spiaggia buia di fronte al mare, perché Palomar è miope e deve continuamente togliersi e mettersi gli occhiali per passare dalle carte stellari al cielo vero e proprio. La Terra, pensa il signor Palomar, è il luogo delle complicazioni superflue e delle approssimazioni confuse. Il cielo dovrebbe dare almeno qualche certezza, nella sicura disposizione delle stelle e nell’immensa lentezza delle sue rotazioni. Il nostro mondo è così piccolo che già l’atto di porsi davanti all’estensione dell’universo dovrebbe darci qualche sollievo.

Ma non è detto che vada proprio così. Innanzitutto bisognerebbe percepire qualche sensazione di distanza, di misura, ma il cielo non ci dice niente di preciso. Se tutto ci sembra lontano è solo perché già sappiamo, in base alla nostra povera scienza, che in termini umani c’è davvero una grande lontananza dalle stelle, ma dal punto di vista dell’universo, che delle dimensioni umane non si cura, la distanza degli umani cade perfino al di sotto dell’irrilevanza. Protagora poteva affermare che l’uomo è misura di tutte le cose, ma quel tempo è passato e noi quella certezza non l’abbiamo più. Palomar non cita Protagora né tantomeno lo contesta, ma nei fatti testimonia la crisi dell’uomo come misuratore, che poi vuol dire creatore della Verità. Se il cielo è così elusivo, continua ad argomentare Palomar, forse ci si potrebbe rivolgere al nulla, allo spazio nero e vuoto che del nulla è l’immagine, se non fosse che nemmeno del nulla si può essere sicuri. Basta puntare l’occhio con attenzione dentro quel nero e cominceremo a vedere qualcosa che si muove, magari un minimo chiarore, anche solo un tenue pulviscolo illuminato da qualche stella lontana. E sarà sufficiente per farci capire che il nulla non è un rifugio e che anch’esso ci inganna,  perché il nulla dopotutto non c’è.

Come facevano gli antichi a rasserenarsi contemplando il cielo? Forse perché si radunavano ogni notte alla stessa ora, per anni, decenni e secoli fino a capire, infine capire, e poi scrivere, calcolare e cartografare secondo quale regola si muovevano gli astri, come gli astronomi babilonesi che dalle loro contemplazioni ricavarono infine la dubbia scienza dell’astrologia. Perché invece noi vediamo nel cielo, così pensa Palomar, solo un sapere instabile e contraddittorio? Forse invece di seguire le rivoluzioni celesti sarebbe necessaria una rivoluzione interiore, una contemplazione che è soprattutto introspezione, come hanno fatto Agostino e Petrarca – anche se Palomar questi nomi non li pronuncia – che distoglievano lo sguardo dalle montagne e dai fiumi della terra perché niente gli appariva preferibile all’esplorare se stessi.

Intanto passa una striscia luminosa che potrebbe essere una cometa, o magari è soltanto un aereo di linea. È un’altra conferma del fatto che Palomar non capisce più il cielo. E così passa la notte, mettendosi e togliendosi gli occhiali, stendendo le sue carte stellari e subito dopo ripiegandole, cercando conferma lassù in alto di ciò che ha calcolato qui in basso. O viceversa, assicurandosi tramite le carte che quello che gli dicono i suoi sensi è proprio vero, e dunque aprendo, chiudendo, strizzando gli occhi, seguendo i tracciati col dito, fin quando si accorge di non essere solo sulla spiaggia, anzi una piccola folla di innamorati, pescatori, doganieri e barcaioli si è radunata intorno a lui e sta osservando i suoi convulsi movimenti come se fossero quelli di un pazzo.[2]

Pasolini, il grande avversario di Calvino sulle pagine del “Corriere della Sera”, è passato alla storia, letteraria e non, come il profeta dell’Italia del dopoguerra. Condannava il Neocapitalismo con accenti degni di Savonarola, ma senza saperlo lo esaltava, attribuendogli una capacità razionale e calcolante che l’imprenditoria italiana, salvo poche eccellenze illuminate, era ben lontana dal possedere con saldezza. Il suo era un profetismo antropologico, per nulla sapienziale. Il sapere non era tra le sue preoccupazioni. Per Pasolini, anzi, meno sapere c’era in giro e più sani sarebbero cresciuti i futuri ragazzi italiani. Ma Calvino, che non ha mai sopravvalutato il capitalismo di casa sua, perché lo conosceva meglio, è stato un profeta delle trasformazioni del sapere, del processo di conoscenza che di continuo viene rinegoziato tra ciò che accade nella nostra mente interna, dovunque essa sia, e ciò che immemorialmente avviene nella grande mente esterna dell’universo, alla quale cerchiamo disperatamente di accedere. E ha previsto un mondo esterno che ci sorveglia e ci condanna, dove non ci si può più muovere, ogni angolo è affollato, anche per chi come Palomar sta cercando di compiere il gesto che tra tutti è il più semplice, quello di alzare gli occhi al cielo: il gesto fondatore dell’umanità, il momento in cui i bestioni delle foreste, come racconta Vico, entrano in una radura dalla quale possono levare lo sguardo al di sopra delle chiome degli alberi, vedono il fulgore delle costellazioni e per la prima volta sono presi da una sensazione che non conoscevano, e che poi chiameranno stupore.

Ecco, anche questo breve atto sembra diventato impossibile. Non causa più stupore, questo lo sappiamo, ma dovrebbe almeno servire a confermare ciò che ci dice la scienza. Questa conferma però, e Palomar lo sperimenta, non ci giunge mai con la stessa certezza di una rivelazione. Sarà sempre una relazione, relativizzata da quegli stessi parametri dei quali non possiamo più fare a meno, la distanza, le costanti, la velocità della luce, tutto ciò che ci spiega quello che vediamo nel preciso momento in cui ce lo sottrae. Palomar non è uno scienziato, anzi è l’ultimo dilettante rimasto sulla faccia della terra, eppure si ostina a contemplare solo attraverso quelle cocciute procedure scientiste che finiscono per sottrargli la meraviglia ingenua dalla quale i suoi antenati erano partiti. E agli occhi di chi non contempla e che nemmeno crede che ne valga la pena non può che apparire come un esagitato. Anch’egli è circondato da una barriera di “Ti ho visto”, anzi di “Ti sto vedendo, non capisco quello che fai e mi sembri strano”. La sensazione di affollamento che afferra i personaggi di Calvino non è soltanto quella di chi è prigioniero di una rete anonima che segue ogni suo movimento. Silas Flannery che ogni volta che sente suonare un telefono crede che la telefonata sia per lui (Se una notte d’inverno un viaggiatore, cap. VI) o il sovrano che cerca di decifrare i rumori della congiura che gli toglierà il trono (Un re in ascolto) sono altrettante incarnazioni di Qfwfq, avvertimenti paranoici che giungono dall’universo, e dunque profezie.

Calvino ha cercato quasi in ogni suo libro, non solo in quelli della sua maturità del suo periodo scientifico e combinatorio, un punto di vista esterno, non interiore, non psicologico, non introspettivo, che gli potesse garantire una partecipata neutralità. Anche il protagonista della Giornata di uno scrutatore è una prefigurazione di Qfwfq. Se non può scrutare il mondo come vorrebbe è perché il mondo gli sta troppo addosso. Molte delle creature di Calvino – non solo il Barone rampante – cercano di staccarsi da terra di quanto che sarebbe loro sufficiente per non farsi coinvolgere troppo. Ma l’impresa è disperata, e infine inutile. Bisogna piuttosto “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”, come dice una delle sue conclusioni più celebri.[3] Quel luogo Dante l’aveva descritto; era il Limbo. Calvino starebbe benissimo nel limbo di Dante. Non direbbe mai di essere il sesto o settimo tra il cotanto senno dei grandi autori che l’hanno preceduto, ma potrebbe finalmente sentirsi distaccato dal mondo (dall’inferno) quel tanto che gli basta.

C’è chi preferisce il coinvolgimento sensuale di Pasolini con la realtà, o per meglio dire con quel ritaglio della realtà che scatenava la sua sensualità. Ma Calvino, dai rami sui quali il suo Barone stava appeso, o dal Limbo che si tiene quanto più possibile distinto dall’inferno che lo circonda, ha visto più lontano. Oltre i mutamenti antropologici, che pure non ha ignorato, ha guardato verso le lontane mutazioni della semiosfera, che è ormai tanto reale per noi quanto il mondo della carne e del sangue.

Sapeva, Calvino, di avere doti profetiche? Se non ne avesse avuto nessuna idea, difficilmente avrebbe scritto un articolo come I nostri prossimi 500 anni, uscito sul “Corriere della Sera” il 10 aprile 1977. Se Pasolini voleva abolire la Scuola Media, Calvino scriveva invece: “Resta il fatto che ogni anno passato a non studiare, sono molti anni di dipendenza coloniale che ci aspettano. Chi si batte contro lo studio (…) vuole semplicemente che i nostri problemi economici e produttivi e teorici e di organizzazione sociale vengano affrontati in base a progetti elaborati dalle multinazionali con staff di tecnici formatisi in altri contesti”.[4] Le sue riflessioni, anche quelle politiche, volevano soprattutto cogliere le nuove modalità di trasmissione del sapere. La parola d’ordine “desiderio”, che nel 1977, l’anno di quell’articolo, aleggiava ovunque, gli appariva tanto vaga quanto un sinonimo del Nulla: “Deve essere ben chiaro a tutti che i prossimi quattrocento-cinquecento anni saranno i più duri della storia dell’umanità: altro che Desiderio!”

Si sbagliava, non sugli anni più duri a venire (dove non può essere smentito), bensì sul ruolo che vi avrebbe giocato il desiderio, ma è un errore retrospettivamente comprensibile. Le macchine desideranti che i movimenti del ‘77 sognavano di incarnare confezionavano una versione semi-hippy e piuttosto pasticciona dell’anarchismo sofisticato di Deleuze e Guattari, mentre già dieci anni prima, tra le mani di Lacan, la nozione di desiderio aveva assunto aspetti molto meno rassicuranti e anzi piuttosto sinistri. Calvino di quel dibattito ha colto la superficie, ma d’altra parte era proprio la superficie che riempiva le piazze inneggiando al rifiuto del lavoro e al disprezzo per ogni forma di competenza. (La destra prese nota e provvide: rifiutate il lavoro? Bene, ve lo pagheremo sempre meno. Rifiutate la competenza? Benissimo, per quando saremo al potere vi assicuriamo un’incompetenza della quale non avete mai visto l’uguale). La questione più seria, però, non era il 1977 ma i prossimi cinquecento anni. Dai tempi di quell’articolo sul “Corriere” al momento attuale ne abbiamo vissuti quarantasei, incominciando appena a capire che cosa ci porteranno. Dal Limbo, Calvino alza un cartello con su scritto: “VI HO VISTO”.

[1] Italo Calvino, Gli anni luce, da Cosmicomiche, in Romanzi e racconti, Vol. 2,a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, edizione diretta da Claudio Milanini, Mondadori, 1992, pp. 192-206.

[2] Italo Calvino, La contemplazione delle stelle, da Palomar, in Romanzi e racconti, Vol. 2, cit., pp. 909-913.

[3] Italo Calvino, Le città invisibili, in Romanzi e racconti Vol. 2, cit., p. 498.

[4] Italo Calvino, Saggi 1945-1985, Tomo II, a cura di Mario Barenghi, Mondadori, 1995, pp. 2297-2298.


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