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Autore Discussione: ALBERTO SINIGAGLIA - La battaglia di Lidia Ravera autrice di "Porci con le ali"  (Letto 4652 volte)
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« inserito:: Gennaio 14, 2008, 12:59:32 pm »

13/1/2008 (14:42) - IL '68 QUARANT'ANNI DOPO

"Il sesso libero per le ragazze fu un diktat"
 
La battaglia di Lidia Ravera autrice di "Porci con le ali"

ALBERTO SINIGAGLIA

Porci con le ali. Ormai un modo di dire. Ma chi ricorda che è anche il titolo di un libro? Per quel titolo - e per le parolacce, l’ironia, le emozioni d’amore che racconta - fu subito bestseller. Lo pubblicò nel luglio 1976 Savelli, uno degli editori sbocciati nel ‘68. E della rivoluzione amorosa del Sessantotto - eros, tic, equivoci, sogni, sconfitte - divenne il racconto-simbolo, poi un film.

Non scoraggiava quel sottotitolo: «Diario sessuo-politico di due adolescenti». Anzi, aggiungeva pepe. E di Rocco e Antonia, protagonisti e autori, si svelò presto la vera identità: Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera. Lui, geniale e generoso neuropsichiatra infantile, figlio del matematico Lucio, è morto precocemente. Lei, Lidia Ravera - lontana parentela con Camilla, pasionaria del Pci di Gramsci e Togliatti - continua a sfornare libri (il 24 gennaio da Nottetempo esce «Le seduzioni della notte», il suo primo romanzo «maschile»). Scrive sui giornali. È nella costituente del Pd. Ha due figli: Nicola, sceneggiatore, di 28 anni, e Maddalena di 25.

Perché firmaste Rocco e Antonia, scegliendo l’anonimato?
«Dai sessantottini era considerato sbagliato e immorale comparire con il proprio nome da qualche parte. Qualsiasi ambizione di carriera che non fosse un’ambizione politica, cioè di cambiare il mondo, era off limits, fuori legge».

«Porci con le ali» celebra il funerale del '68.
«Il '68 in Italia è durato dieci anni. Lo hanno ucciso il '77 e il femminismo. Mentre scrivevamo il libro, già si capiva come sarebbe finita. Me la ricordo bene la sensazione di quell’epoca. Ero a cavallo, tra i ragazzi del '68 e quelli del '77 che odiavano i sessantottini, li trattavano da dinosauri, burocrati, mammalucchi. Ma forse proprio nel ‘68 si erano messe le basi di quella cultura narcisistica esplosa nel '77: vogliamo tutto subito, Godere operaio invece di Potere operaio. Poi negli Anni 80 divenne la teorizzazione dell’agio, del piacere. Al '68 risale la prima critica collettiva all’ideologia del sacrificio in cui ci avevano allevati i nostri genitori».

A Torino quell’ideologia del sacrificio si sentiva particolarmente.
«Sono nata a Torino. Ci sono vissuta fino a 18 anni, poi sono scappata. Centrale fu la figura di Mara, mia sorella, quattro anni più di me. In prima liceo, al Gioberti, lavoravo al giornalino “I vitelloni”. Le chiesi un articolo sulle lotte degli studenti universitari. Ricordo quel colonnino di piombo. Ricordo la prima occupazione. Il problema fondamentale per me era la sessuofobia di mia madre».

Le ragazze per bene non passavano la notte fuori.
«E io proprio per quello occupai la scuola di notte, con un senso di eroismo che non dimenticherò mai. Essere adolescenti all’epoca voleva dire avere due luoghi di contenzione del desiderio, dell’impulso: la scuola e la famiglia, i professori e i genitori. Stavi sotto e facevi come dicevano loro».

Emozione?
«Non politica, ma personale: l’essermi ripresa la notte per la prima volta nella mia vita. Avere infranto questo grande tabù che di notte si dorme, di giorno si lavora. Torino è una città ordinata e ancora di più lo era all’epoca: città fabbrica, piramidale, razzista. Io venivo da una famiglia borghese e il fulcro dell’educazione che m’impartirono i miei genitori era il sacrificio, il lavoro, lavorare adesso per stare bene poi. Posporre sempre il piacere al dovere. Fu una rivoluzione culturale: provammo a rovesciare questi termini».

Fino a che punto ci riusciste?
«In realtà fino a un certo punto. Perché eravamo dei gran sgobboni, in realtà si studiava. Anche per la rivoluzione. Non c’era nulla di frivolo. Quello venne dopo, nel ’77».

Quel «diario sessuo-politico» diceva la verità? Facevate davvero quelle cose?
«In Porci con le ali si intuisce una grande reazione e un grande disagio: la liberazione sessuale vissuta come un obbligo. Le nostre nonne avevano la verginità. Le mamme non dovevano darla via con tanta facilità. Dal ’68 agli Anni 70 s’incominciò a vivere il principio opposto, la verginità bisognava perderla di corsa, essere libere, accondiscendenti. Non fu un momento facile per le ragazze, capitava che tutta questa maturità sessuale non ce l’avevi, tutta ‘sta voglia di sperimentare non ce l’avevi. Era di nuovo una specie di diktat, di modello imposto. Non è un caso se da lì sia poi nato il femminismo, furiosa ribellione al ’68».

Che rapporto c’era tra libertà sessuale e lotta, impegno, contestazione, assemblee, cortei, occupazioni?
«Non sono per niente tenera con quegli anni. Ma la parte buona, la grande modernità del ‘68, fu che, per la prima volta, s’era deciso di togliere la politica di mano ai professionisti: contestati i partiti, criticata la delega sindacale in fabbrica, si cercava l’unione studenti-operai. Riuscì a Parigi. Non in tanti altri posti, ma a Torino sì. Mi ricordo che subito dopo l’occupazione della mia scuola cominciai faticosamente a recarmi al cancello 18 di Mirafiori a distribuire volantini, a fare riunioni magari capendo poco. È stato importante nella mia formazione».

La politica dobbiamo farla tutti: è un tema che torna.
«Ma cominciammo noi da bambinetti a dirlo e a farlo. Peccato che abbiamo smesso di tenerla in mano, la politica, ridando una delega ai partiti. Perché si vede, adesso, come siamo ridotti».

da lastampa.it
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