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Autore Discussione: L'AGO DELLA BUSSOLA Le donne pagano il conto della crisi  (Letto 2136 volte)
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« inserito:: Febbraio 16, 2021, 06:56:20 pm »

L'AGO DELLA BUSSOLA
Le donne pagano il conto della crisi

Trecentododicimila donne (su 444 mila posti bruciati in tutto l’anno) hanno perso il lavoro nel 2020.
Nel solo mese di dicembre i posti perduti sono stati 99 mila su un totale di 101 mila. Il 98 per cento. Il 2019 era stato l’anno delle donne, in termini di occupazione, con quasi 10 milioni di occupate e un divario di genere (tra uomini e donne occupati) finalmente calato a 18 punti, dai 41 di differenza del 1977, quando lavorava solo un terzo delle donne italiane. Certo, in Europa il divario di genere è mediamente intorno a 10, ma, fino a 14 mesi fa, l’Italia lo stava finalmente, anche se faticosamente, assottigliando. Poi è arrivato il Covid, che ha riportato l’orologio della storia indietro di almeno quattro anni, ai livelli del 2016. Il tasso di occupazione delle donne, che a fine 2019 aveva superato la soglia del 50%, è tornato indietro al 48,5%, mentre quello degli uomini risulta appena limato al 67,5%. E anche nei mesi della rimonta, quelli autunnali, quando la produzione è ripartita, l’occupazione femminile ha continuato a precipitare.

La spiegazione è relativamente semplice. La stragrande maggioranza delle donne che lavorano sono occupate nel settore dei servizi, il più colpito dai lockdown e dalle restrizioni della seconda ondata. Decine, centinaia di migliaia di posti di lavoro persi nel settore turistico, nella ristorazione, nei servizi alle famiglie, nell’assistenza, nel commercio. Le donne che lavorano nelle aziende industriali, quelle protette dal divieto di licenziare e coperte dalla cassa integrazione, sono ancora relativamente poche. Sono tantissime, invece, le donne che hanno contratti a termine o altre forme di precariato. I primi posti a essere tagliati, quando il contratto scade.

Ecco perché in coda alla Caritas o a Pane Quotidiano le donne sono sempre di più. Come racconta Valentina Conte nella sua inchiesta di copertina, su Affari & Finanza di questa settimana, la fascia più colpita è quella delle giovani mamme tra 35 e 44 anni, in molti casi separate, scivolate nelle condizioni di bisogno, non soltanto perché non riescono più a pagare l’affitto o le bollette, ma anche perché non possono acquistare il computer o il tablet per la didattica a distanza dei figli. C’è un’emergenza da affrontare, subito. E c’è una questione strutturale cui metter mano, al più presto. Come sappiamo, il Pnrr, il Piano nazionale della ripresa e della resilienza (cioè il progetto per accedere ai finanziamenti europei del Recovery Fund, qui il testo integrale), affronta il tema delle disuguaglianze di genere, ma lo fa con un approccio trasversale a tutte le sei “missioni” che costituiscono il cuore del Piano. Insomma, tante buone intenzioni ma nessun progetto ad hoc, nessuna specifica previsione di spesa, nessuna proiezione sui temi, l’efficacia e gli effetti delle misure genericamente annunciate. Non a caso la versione presentata a metà gennaio è stata severamente censurata dagli osservatori più acuti e dalle associazioni che si occupano del divario di genere.

Una proposta che aleggia da parecchi anni e che non si è mai concretizzata è quella della “gender tax”, cioè la tassazione agevolata dei redditi da lavoro delle donne. Una proposta che riemerge periodicamente a causa della lentezza con cui l’Italia si muove verso l’obiettivo della parità di genere, prevista dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile (l’indice europeo di uguaglianza di genere ci colloca in coda alla classifica, con 63,3 punti contro una media di 72,2, dove 100 rappresenta la perfetta parità). Uno studio dell’Ocpi dell’Università Cattolica (lo trovate a questo link), diretto da Carlo Cottarelli, passa in rassegna le proposte che si sono succedute dal 2007, quando Alesina e Ichino la affacciarono per la prima volta. La principale obiezione alla “gender tax” è di natura costituzionale: un sistema basato sul genere potrebbe essere in contrasto con la parità di trattamento prevista dall’articolo 3 della Carta. Ma, secondo alcuni, ci sarebbero anche altri problemi: la “gender tax” non considererebbe, per esempio, le famiglie arcobaleno o i genitori single. Per superare tutti questi dubbi, sono stati prodotti nel corso degli anni diversi alcuni accorgimenti: parecchi, ad esempio, lanciano l’idea di alleggerire il carico fiscale per il secondo percettore di reddito, indipendentemente dal genere. Dato che il secondo percettore è quasi sempre una donna, questo sgravio finirebbe per incentivare l’occupazione femminile. Altri propongono sussidi vincolati all’occupazione, indipendenti dal genere. Tutte possibili alternative alla “gender tax”, con lo stesso obiettivo: portare l’occupazione femminile perlomeno intorno alle medie europee.

Da – Affari & Finanza.
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 17, 2021, 07:50:45 pm »

Affiancare valori positivi è un dovere, farlo da liberi cittadini indipendenti e non da tifosi è realizzare la Democrazia Completa.

Completezza che l'Italia deve ancora da raggiungere.

Oggi viviamo una Democrazia Incompleta, ... il Mondo lo sa e ci tratta di conseguenza.

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