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Autore Discussione: FireWall Cinese, tra curiosità e rischi non solo interni  (Letto 2226 volte)
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« inserito:: Novembre 21, 2019, 11:26:37 am »

18 novembre 2019

FireWall Cinese, tra curiosità e rischi non solo interni
“Se si aprono le finestre per far entrare dell’aria fresca, bisogna aspettarsi che entrino anche delle mosche “

Deng Xiaoping

L’espansione della Cina, secondo i dati della Word Bank, è la più veloce (in termini di crescita economica) di sempre tra le principali economie del globo. Alcuni tra autori e ricercatori hanno soprasseduto ad un’analisi approfondita, richiamando l’attenzione sul semplice fatto che la Cina non è una democrazia. In effetti, lo Stato è presente in ogni sfaccettatura della società, ed è proprio il controllo nazionale che permette di sviluppare e pianificare politiche di lungo termine. In particolare, l’emblema del controllo, ed al tempo stesso della propaganda, del Grande Fratello asiatico è il firewall digitale. Ovvero quella grande muraglia fatta di cavi e di byte che abbraccia un Paese grande quasi 32 volte l’Italia.

Tuttavia, quando gli occidentali analizzano la Cina, soprattutto i non addetti ai lavori, liquidano la questione cinese con una semplice affermazione: Ma la Cina non è una democrazia, ed i cinesi sono abituati alla censura.

A dire il vero le cose non stanno proprio così. Stiamo pure sempre parlando di un paese presente tra i primi 10 Stati più innovativi al mondo, innovazione che appunto presuppone una certa creatività condivisa. Come anche dimostra l’alta percentuale di aziende tecnologiche presente in Cina. Solo per citarne alcune delle più importanti al mondo: Tencent, Alibaba, Baidu e Xiamo.

Certo, è ufficiale che i media cinesi sono continuamente invitati dal Partito a seguire una visione marxista del giornalismo per guidare la propaganda in Cina. In particolar modo, attraverso il famoso racconto positivo sulla Cina, ovvero quella produzione di notizie alternative a quelle occidentali. Altrettanto risaputo è il divieto di discutere, anche per i media, delle tra T cioè Taiwan, Tibet, and Tiananmen. Uno stretto controllo dei mezzi d’informazione, anche della stampa, ha un ruolo centrale e cruciale per la diffusione della propaganda ed il mantenimento delle stabilità delle menti.

Ma i Social Network anche qui sono stati in qualche modo disruptive. Basti pensare che in Cina ci sono più di 700 milioni di users. E quindi potremmo domandarci com’è possibile che quasi un miliardo di persona soggiaccia alle imposizioni di pochi? Basta a spiegare cioè la pur vera affermazione che la Cina non è la più classica delle democrazie occidentali? Non basta affatto, anche perché sarebbe troppo facile, dato che i cinesi hanno superato da anni il problema dell’ideologia che ancora oggi attanagli invece la nostra realtà. Basto leggere l’articolo 1 delle Costituzione Popolare cinese che recita:

“La Repubblica popolare cinese (abbr. Rpc) è uno stato (guojia) socialista di dittatura democratica popolare, guidata dalla classe operaia e basata sull’alleanza operai-contadini. Il sistema (zhidu) socialista è il sistema fondamentale (jiben) della Rpc. È vietato a qualsiasi organizzazione o individuo di sabotare (pohuai) il sistema socialista”

Anche il problema della stabilità sembra essere oramai superato. Se già pareva evidente negli anni passati, il processo si è completato nel marzo del 2018. Ovvero, quando il Presidente Xi Jinping ha eliminato i limiti di mandato per il presidente e vicepresidente della Repubblica popolare cinese; per poi parlare di eventi e progetti con vista sul 2035. Per dovere di cronaca la durata media dei governi italiani negli anni è stata di 1 anno e 2 mesi circa, il che solitamente permette di avere un arco temporale di progettazione, attuazione e valutazione che difficilmente arrivi al prossimo venerdì.

Tornando al sistema del Firewall è singolare notarne il funzionamento, tutt’altro che di facile comprensione. Innanzitutto, la connessione qualche anno fa era stranamente lenta, cosa che era causa ed effetto del controllo a specchio del firewall cinese per monitorare il traffico nazionale. Altro non è che l’applicazione del Golden Shield Project chiamato anche National Information Security Work Informational Project.

Nel momento in cui si cerca di raggiungere un certo sito web o si digita un certo URL è possibile che il sito web sia accessibile; potrebbe apparire la classica dicitura “sito non trovato” quantunque esista ma non sia possibile visualizzarlo nel confine cinese; si riavvia la connessione dell’utente se l’URL era inserito nella lista dei siti vietati. Tuttavia, queste problematiche vengono agevolmente, si fa per dire, raggirate con l’uso di un VPN (ovvero un software che maschera il proprio IP per non apparire nei radar del vero luogo dal quale si navighi nel web). Ma la lista dei VPN intercettare dal regime si aggiorna di continuo, bloccandoli o rendendoli inefficaci, i cinesi devono a loro volta trovarne di nuove. Insomma, la classica storia del gatto e del toto.

L’aspetto più interessante del blocco cinese riguarda le singole parole, o comunque l’utilizzo cinese dei socia network in generale. Partiamo col dire che per i nostri social, che poi nostri non sono dato che sono tutti americani, ve ne sono altrettante cinesi che sostituiscono in maniera quasi totale quelle occidentali. Anziché Facebook e WhatsApp c’è WeChat, anzichè Twitter c’è Weibo ed al posto di Google c’è Baidu. Nota a parte merita WeChat poiché in una sola piattaforma il colosso di proprietà di Tencent Holdings Limited racchiude le funzioni di WhatsApp, Facebook, fin-tech, dating apps, game apps e Instagram.  Non esiste nessuna applicazione al mondo capace di convogliare così tanti dati in una sola piattaforma che, secondo i dati della stessa Tencent, ha un traffico giornaliero di 1 miliardo di utenti al giorno.

Il Grande Muro digitale che “difende” e controlla il traffico digitale è costituito da una struttura mista, tra controlli automatici ed altri posti in essere da persone in carne ed ossa. Sembrerebbe che questo esercito di “censori” sia principalmente concentrato a Tianjin, una vera e propria area dedicata alla censura. Questi soggetti hanno una portata minore rispetto all’algoritmo che controlla il grande occhio cinese, ma un’efficacia sicuramente migliore ed ancora più precisa. Ma, qualora qualcosa dovesse sfuggire anche a questo secondo livello di filtro entrerebbe in gioco il famigerato “esercito dei 50 centesimi”. Non si ha una posizione al riguardo del governo, ma numerose testimonianze parlano di centinaia di migliaia freelance che manipolano i post e commenti presenti sui social, a favore del governo. Cosi da indicizzare o de-indicizzare a seconda dei casi.

Ed è qui che la creatività cinese si scatena. Infatti, continuano ad esserci casi di critica al governo e presa in giro al regime al contrario di come molti pensano. Nella foto di seguito è possibile notare come la famosa foto “tank man” che richiama le proteste del 1989 di Tienanmen, sia stata trasformata in tre paperelle gialle (fonte: Twitter/Weibo) per superare i filtri della censura digitale. Inutile dire che dopo qualche tempo il termine “grande anatra gialla” sia stata bloccata dal sistema di monitoraggio.

Tuttavia, sembra esserci un fenomeno che al contrario non riesce a far sorridere ma anzi crea non poche preoccupazioni. Ed è la potenziale intromissione della censura cinese verso alcune realtà che cinesi non sono, superando quindi i propri confini. Lo ricorda bene Giada Messetti, nel suo bellissimo podcast in collaborazione con Simone Pieranni: Risciò. Stiamo parlando del caso Cambridge University press (CUP) e la sua review China Quarterly. Sembrerebbe che nel 21 agosto del 2017 la prestigiosa rivista accademica abbia rimosso, su richiesta dell’amministrazione cinese, 315 articoli legati in qualche modo alle tre T (vedi sopra), e che erano visualizzabili online sui siti cinesi. La CUP sembra aver affermato che, pur di rimanere nel mercato digitale cinese (che effettivamente ha un bacino di utenza di “appena” qualche milione di utenti), era pronta a rinunciare alla pubblicazione di qualche articolo.

Inutile dire che, complice una valanga di critiche da parte di accademici occidentali ma anche cinesi, la CUP ha effettuato un dietro front in nome della libertà accademica. Ma al netto delle decisioni della CUP, la questione è molto delicata. Poiché la Cina, pur non essendo ancora il primo mercato al mondo per consumi, rappresenta una meta ambita dalle imprese di qualsiasi prodotti o servizi. La domanda vera è quindi: Fino a che punto è lecito accettare le costrizioni del governo cinese, in nome del business?

Da - https://www.glistatigenerali.com/governo_partiti-politici/il-firewall-cinese-tra-mito-e-realta/
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 12, 2020, 06:11:07 pm »

I bambini cattivi
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A-ICR.opinionis.
Rep: | Hotpot - Cosa bolle in Cina <rep@repubblica.it> Annulla iscrizione
mar 11 ago, 08:06 (1 giorno fa)
a me

Rep: Hotpot di Filippo Santelli
 11 agosto 2020

Ciao a tutti da Pechino.
"Andiamo a fare una passeggiata in montagna?". Nelle scorse settimane questa domanda in Cina è diventata una scherzosa minaccia di morte. Merito (o demerito) della scena iniziale di "The Bad Kids", una nuova serie tv (o meglio un web drama, visto che si vede solo in streaming) che ha stregato il Paese. Nella sequenza iniziale del primo episodio Zhang Dongsheng, un giovane professore di matematica, porta i suoceri a fare una passeggiata in montagna, li mette in posa per una foto e puf... all'improvviso li spinge giù dal picco facendoli schiantare sulle rocce. Ma quel giorno a passeggare in montagna lì vicino ci sono anche tre bambini, Zhu Chaoyang, Yan Liang e la piccola Pupu, che per caso riprendono la scena mentre stanno girando un video. Che cosa decideranno di fare? Mi fermo qui con la trama, nel caso decidiate anche voi di vedere i dodici episodi della serie, come io ho fatto, per lo più di notte, nell'ultima settimane (qui, con sottotitoli in inglese, qui invece un trailer). Ma probabilmente la prima scena vi basta già per capire perché The Bad Kids sia diventata immediatamente un fenomeno in Cina. Rispetto ai pallosi racconti d'amore tra giovanotti bianco latte, conditi da gag comiche che non fanno ridere (ok, sono un po' ingeneroso), quella sui ragazzini cattivi è una serie sporca e scura, cioè vera, come finora non se ne erano viste molte da queste parti. Al centro di una trama avvincente ci sono temi sociali forti come il rapporto tra giovani e adulti, l'influenza dell'educazione sulla crescita, la maturità dei piccoli, anche nel fare del male, e l'immaturità degli adulti. Temi molto sentiti in Cina, un Paese dove i figli vengono spesso viziati, ossessionati o abbandonati, come succede ai bambini della serie. Aggiungeteci attori da discreti a bravi, scelti al posto dei soliti influencer mezze calzette, un'ambientazione interessante nel Sud della Cina e una colonna alternativa farina del sacco del regista Xin Shuang, ex cantante rock: capirete perchè The Bad Kids (ma la traduzione letterale dal mandarino è "gli angoli bui") sia stata considerata la prima serie cinese in grado di avvicinare il livello di quelle occidentali, meritandosi dai severissimi utenti del sito di recensioni Douban un eccezionale 8,9.   

Ho scritto "avvicinare" il livello di quelle occidentali, e sottolineo la parola. Sarà che nei mesi passati in Italia prima di tornare qui mi ero guardato Breaking Bad, probabilmente la serie più bella mai prodotta, ma The Bad Kids resta comunque una serie cinese, cioè distante per certi aspetti dalla nostra sensibilità. Non è solo il finale, che come richiede la censura comunista (autorizzandomi un vago spoiler) deve veder in ogni caso trionfare giustizia, legalità e buoni sentimenti. Manca qualcosa nel ritmo, che in alcune parti è lento, e nei dialoghi, che a volte sono inutilmente didascalici. Alla 2368esima volta che la bambinetta Pupu ringrazia gli altri due, xie xie, mi verrebbe voglia di invitarla a fare una passeggiata in montagna, non so se mi spiego. In ogni caso, sufficienza abbondante.

Letture cinesi
Lo so che non è proprio una lettura da ombrellone, però per gli appassionati di economia cinese, consiglio l'ultimo libro di un giornalista di Bloomberg esperto di Cina, Thomas Orlik. Si intitola China: The Bubble that never pops, cioè la bolla che non scoppia, e spiega perché le profezie di collasso dell'economia cinese, che molti prevedono sommersa dalla montagna di debito pubblico e privato, non si siano mai realizzate, né è detto che si realizzino in futuro.

Per oggi mi fermo qui. Come ogni agosto i leader cinesi sono nel loro tradizionale ritiro spiritual-politico-balneare di Beidahe e se potessi li raggiungerei volentieri anche io, sottoponendomi pure alle sessioni di studio sul pensiero di Xi Jinping pur di farmi un bagnetto. Ma non posso, si sono prenotati tutto il resort.

Come sempre mi trovate su Twitter e Instagram.
Buon Hot Pot a tutti!
Filippo

Da - http://forum.laudellulivo.org/index.php
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