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Autore Discussione: Maristella Iervasi - Dai prezzi ai taxi sull’Italia i veti dell’eredità fascista  (Letto 2775 volte)
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« inserito:: Dicembre 22, 2007, 11:32:18 pm »

Dai prezzi ai taxi, sull’Italia i veti dell’«eredità» fascista

Maristella Iervasi


Pubblica amministrazione, mondo delle imprese e professioni. Sostiene Walter Veltroni: il sistema Italia rischia di «arrancare» per i troppi veti. Cerchiamo di capire, con qualche esempio concreto. Tassisti, farmacisti, commercianti, banche, avvocati, notai... Ovvero le cosidette liberalizzazioni, le ormai note «lenzuolate» Bersani. Ogni qualvolta si cerca di modificare lo status quo, tutti accorrono alla «ronda del player», tutti «spingono» per giocare la partita del potere di veto su ogni decisione. «Nel paese c’è un demone del non fare: si preferisce stare tranquilli e non fare (...). Bisogna prendere a cannonate l’abitudine di questo Paese di rimandare tutto alla burocrazia, che è un elefante seduto sulla velocità del Paese» ha ammonito l’altro ieri il leader del Pd. È proprio così, nella società c’è un fiorire di veti incrociati? Sottolineano gli esperti della Pubblica amministrazione e non solo: «Il paese è pieno di incrostazioni e meccanismi coorporativi sedimentati nel tempo, derivanti da un «approccio normativo e regolamentario che risale al periodo fascista. Culture e apparati che vivono sulla complicazione burocratica e sul controllo dell’accesso al mercato».

Una ronda del veto che non è solo storia di oggi. Già nel 1998 le prime e complicate imposizioni di potere, quando Bersani rivoluzionò il settore del commercio al dettaglio. Il decreto arrivò dopo venti anni di progetti, non senza pressioni delle associazioni dei commercianti. Il presidente di Confcommercio di allora - la maggiore organizzazione del settore - era Sergio Billè (oggi coinvolto in un’inchiesta giudiziaria per appropriazione indebita dei fondi di Confcommercio). Minacciò proteste clamorose, fino a portare a Bettola, paese sulle colline piacentine e luogo di nascita dell’allora ministro dell’Industria, centinaia di commercianti intorno ad un falò con le proprie licenze. «Se non riusciremo a modificare almeno qualcosa - disse Billè - trasformerò Confcommercio in un’associazione di Cobas» e non esitò a definire la riforma un ritorno al «Far West». In realtà prima del decreto Bersani, erano proprio gli apparati che decidevano il bello e il cattivo tempo sul commercio: chi voleva aprire un negozio doveva comprare una licenza da un altro commerciante che smetteva l’attività. Una compravendita illegale, ma tollerata. Con il provvedimento di governo sparirono invece l’obbligo della licenza fino a 250mq di superficie e sparirono anche le 14 tabelle merceologiche, tranne per due settori: alimentare e non alimentare. Misure che aprirono alla concorrenza e liberarono il commercio dalle gabbie burocratiche e amministrative. Sottolinea un esperto del settore: «Con quell’innovazione radicale temevamo di essere messi fuori come categoria del commercio. Perdevamo potere nel dettare le regole del gioco, come il numero dei negozi da aprire ad esempio... Ci toccò rimetterci in discussione e non fu facile». Ma non finisce qui: arrivò l’eliminazione del «divieto» sul pane di un pomeriggio a settimana per una scelta determinata dai gruppi di potere sulla «serrata» infrasettimanale dei panifici. Poi la crociata contro i primi drugstore e l’ordinanza sui negozi aperti la domenica.

Ma torniamo all’oggi con le tante tutele dei diritti del cittadino-consumatore previste dalla «lenzuolate» Bersani. Misure contenute in 3 distinti pacchetti: 2 i decreti legge già in vigore e l’ultimo ddl ancora fermo al Senato. Un «bicchiere che è ancora mezzo vuoto» - sottolinea una fonte -, sempre per via dei tanti veti incrociati al riparo delle sfide del mercato e della domocrazia. Un esempio per tutti: la Roma «prigioniera» dei tassisti, le proteste degli avvocati, fino allo scandaloso stralcio sull’unificazione del Pra, il pubblico registro automobilistico con con l’uffico della Motorizzazione, rimasto “prigioniero” dell’Automobil club Italia. Proprio questa unificazione era tra le principali misure previste nel terzo pacchetto Bersani, ma le forti lobby di potere con sponda nei partiti di riferimento in Parlamento (Udeur e Rifondazione in primis) fecero sì che non si toccasse lo status quo, che la mastodontica struttura con annesso il personale pubblico (2.300 dipendenti) non venisse soppressa e i lavoratori smistati nei vari ministeri. Per non parlare poi dei farmaci di fascia C, la liberalizzazione dei medicinali con ricetta pagati dai cittadini, previsti nel terzo pacchetto e fermo da giungo in Senato. Anche qui la lobby di potere dei farmacisti sta per imporre il rimescolamento delle carte deciso autonomamente dalla Camera.

Sembra proprio vero: «Il problema della democrazia italiana è quello che non produce decisione». L’Italia è sempre più ostaggio di corporazioni di ogni genere rinvigorite dal ritrarsi dalla politica. A nulla è servita la fotografia del Censis nel suo 41° rapporto sullo stato sociale: «Il paese si disperde in una poltiglia di massa, una mucillagine di elementi individuali e di ritagli umani tenuti insieme da un tessuto sociale inconstistente». Come voltare pagina? «La politica abbia il coraggio di decidere, pur ascoltando tutti, ma nell’interesse generale dei cittadini», invocano esperti e politici. L’Italia non può continuare ad essere il paese dei veti: dai rifiuti alla Tav, dai rigassificatori alle autostrade. «Deve diventare il paese delle decisioni».

Pubblicato il: 22.12.07
Modificato il: 22.12.07 alle ore 8.16   
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