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Autore Discussione: Gian Giacomo Migone. Poteri e doveri di governo  (Letto 2609 volte)
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« inserito:: Dicembre 18, 2007, 03:31:38 pm »

Poteri e doveri di governo

Gian Giacomo Migone


Certo, sarebbe facile ironizzare su quella sorta di eredità andreottiana della Prima Repubblica, come il Tribunale Amministrativo Regionale (Tar) del Lazio viene tuttora considerato; oppure ripetere come un mantra la formula di rito, da parte di chi berlusconiano non è, che assicura rispetto per la magistratura (anche per quella amministrativa, come ha precisato il ministro del Tesoro, a proposito dell’annullamento della revoca del generale Speciale dalla carica di comandante della GdF). Sarebbe facile, ma anche riduttivo, perché il caso Speciale non riguarda soltanto il contenuto di una sentenza, il ruolo di un’articolazione regionale della giustizia amministrativa che somma a quella sul Lazio la competenza sulle vertenze di prima istanza che investono lo Stato centrale.

Investe tutta una materia, quella dei rapporti tra Governo, maggioranza parlamentare ed altri poteri dello Stato, riguardo a cui lo stesso centro-sinistra non sembra avere idee chiare a sufficienza. Che le forze di centro-destra, finchè sono state guidate da Berlusconi in maniera pressoché incontrollata, non abbiano mai saputo né voluto distinguere tra volontà politica propria e autorità istituzionale non deve sorprendere, ma nemmeno costituire alibi per non porre il problema.

Partiamo dalla sentenza. Cosa può significare e non significare la formula di rito con cui la parte sottoposta ad inchiesta o in qualche maniera colpita da una sentenza dichiara il proprio rispetto per la magistratura? Essa è diventata usuale perché chi la pronuncia vuole distinguersi dalla volontà oggettivamente eversiva di chi ne vorrebbe disconoscere la legittimità trattando la magistratura come un potere di fatto, un potere politico che può e deve essere combattuto in sede politica, a prescindere dalla normativa che regola quel potere giurisdizionale. Si tratta, insomma, di un doveroso atto di sottomissione alla maestà della legge che investe non genericamente la magistratura, ma il magistrato nell’esercizio delle funzioni di una precisa e limitata potestà. Ne consegue che esistono ulteriori istanze a cui fare ricorso per ottenere una sospensiva degli effetti di una sentenza ed, eventualmente, la sua revoca (come ha già annunciato di voler fare il Governo, proprio sul caso Speciale). Il «rispetto per la magistratura» costituisce una categoria ad un tempo troppo ristretta ed eccessivamente ampia, perciò ambigua. Il rispetto è dovuto a tutti; il rispetto, inteso come subordinazione, il cittadino di uno stato democratico lo deve soltanto alla legge e, indirettamente, al magistrato che la applica nei limiti delle sue competenzee con le garanzie che le delimitano.

Più delicata è la questione del potere di nomina (implicitamente anche di sostituzione e, quindi, di revoca); assai importante, quando si tratta di alte cariche dell’amministrazione pubblica il cui operato viene ad incidere in misura e maniera rilevante sull’esercizio del potere di governo. Esso appartiene al Consiglio dei ministri, nel nostro ordinamento organismo apicale del potere esecutivo. Come qualsiasi attività dell’Esecutivo il potere di nomina è soggetto ai poteri di indirizzo e di vigilanza che sono propri del Parlamento (nel caso della nomina degli ambasciatori, in quanto rappresentanti non solo del Governo, bensì dello Stato, il Parlamento potrebbe, a giusto titolo, pretendere una procedura di nomina che ne preveda il concorso),purtroppo raramente esercitati a questo fine. Tuttavia, è evidente che un potere politico storicamente poco sperimentato come quello di centro-sinistra (per non parlare del centro-destra attuale) rischi di sottovalutare l’importanza di questa prerogativa istituzionale, esercitandola quantomeno con qualche leggerezza. L’uomo politico con scarsa esperienza degli affari di Stato può illudersi di esercitare il proprio potere, squisitamente politico, a prescindere dalla configurazione della pubblica amministrazione e, quindi, da chi vi è preposto. «L’intendance suivra», soleva dire Napoleone Bonaparte, che non fece una bella fine, pur avendo contribuito alla costruzione di una delle macchine amministrative e militari più solide del mondo. Salvo congiunture storiche particolari, le decisioni politiche in senso più stretto tendono ad essere spettacolari, certo importanti, ma tendenzialmente effimere; oggi più che mai. Tutto ciò che riguarda l’esercizio di responsabilità politiche nell’ambito delle istituzioni, il concreto funzionamento della pubblica amministrazione, nell’immediato passa di sovente inosservato, ma produce effetti duraturi, in positivo e in negativo (anche la mancanza di decisioni, l’immobilità, costituisce una decisione, sempre con effetti positivi o negativi). Ciò è particolarmente vero in un paese come l’Italia, rispetto a cui esiste una quasi unanimità tra analisti e semplici cittadini nell’individuare lo scarso funzionamento (o, più propriamente, in funzionamento distorto) della pubblica amministrazione come il problema dei problemi da cui è afflitta.

Ma vi possono essere mali peggiori di quelli causati dall’inesperienza e dalla leggerezza con cui i detentori del potere politico affrontano le loro responsabilità istituzionali, comprese quelle di nomina. Mali tali da determinare un vero e proprio rapporto perverso tra detentori del potere politico e potere amministrativo. Io funzionario consento a te politico di «fare bella figura»; tolgo bucce di banana dal tuo incedere (ove potrei facilmente collocarle); non mi intrometto nella tua sfera politica personale (collegio, staff). Ma ad una sola condizione: che sono io ad esercitare anche i poteri che la Costituzione inequivocabilmente ti conferisce, compreso quello di garantire la mia inamovibilità. O, quanto meno, nel caso in cui qualche circostanza rendesse ineludibile un conflitto, di garantirmi un promoveatur ut amoveatur, ovvero il diritto di ad un’ulteriore posizione di prestigio o di potere, senza dover rendere conto del mio operato. Una tentazione diabolica a cui non è semplice sottrarsi. Parlo per esperienza vissuta. Si tratta di pratiche vecchie come il mondo che, ad esempio, hanno profondamente segnato la storia della Prima Repubblica ma che, in mutate sembianze, di volta in volta si ripropongono.

Va dato atto a Visco e a Padoa-Schioppa di avere personalmente resistito a questo tipo di tentazioni ed è precisamente per questo che vengono invitati a dimettersi.

Non dispongo del testo della sentenza del Tar del Lazio che accoglie il ricorso del generale Speciale. Tuttavia, dubito che essa metta in discussione i poteri di nomina del Governo che avrebbe, più che il diritto, il dovere di difenderli con tutti i mezzi consentiti dalla legge. Giustamente alla Camera il ministro Padoa-Schioppa ha chiarito che «il Governo intende esercitare pienamente le proprie prerogative nell’interesse del Paese».

Tali prerogative risultano di fatto indebolite dalla sentenza del Tar e dall’ambigua polemica che ha suscitato nell’opposizione. L’ex ministro Gianni Alemanno (An) non si è peritato di festeggiare la «grande vittoria morale del generale Speciale e con lui di tutti gli uomini che vestono la divisa e che non possono essere umiliati per decisioni politiche», riesumando una retorica tipica della sua tradizione politica e dimenticando di aver fatto parte di un governo che ha fatto scempio delle migliori competenze presenti nella pubblica amministrazione con un uso sistematico ed estremo dello spoils’ system.

Mentre i poteri di nomina del Governo non possono essere messi in discussione - persino Alemanno si guarda bene dal farlo - il Tar ha buon gioco nell’affermare la contraddizione tra la proposta di nomina, da parte del Governo, di Speciale a magistrato della Corte dei Conti e la sua rimozione contestuale. Essa avrebbe dovuto essere motivata da mille e una ragione, in specifico contrasto con il promoveatur ut amoveatur in un primo tempo propostogli, di cui sono piene le cronache e che non hanno provocato alcuna smentita da parte di un soggetto che di certo non manca di vis polemica. Purtroppo non è la prima volta che il Governo commette questo errore, come ripetutamente osservato dalle colonne di questo giornale. Il generale Pollari, quando finalmente rimosso dal comando del Sismi - ove aveva consentito la costituzione di un ufficio parallelo tra l’altro addetto alla costruzione di dossiers su esponenti dell’allora opposizione e, stando alle accuse e alla sentenza istruttoria del Tribunale di Milano, alla collaborazione con il rapimento di Abu Omar da parte di agenti della Cia - è stato nominato Consigliere di Stato. Tale Pio Pompa, responsabile di detto ufficio parallelo, riveste tuttora funzioni dirigenti presso il Ministero della Difesa, a quanto è dato sapere. Il dottor Gianni de Gennaro, capo della polizia di Stato all’epoca del G8 e accusato dalla Procura di Genova di avere condizionato le testimonianze al relativo processo, è addirittura diventato capo di gabinetto del ministro dell’Interno.

Che tali episodi siano frutto, di disattenzione o sottovalutazione della loro importanza o da una sorta di rassegnazione nei confronti di poteri che vanno al di là della normativa vigente, sta di fatto che il caso Speciale fornisce un occasione di chiarimento per ciò che espressioni come senso delle istituzioni o senso dello Stato concretamente comportano. Lo affermo con la convinzione e la fiducia che nessun governo, nessuna personalità meglio di uomini come Romano Prodi e Tommaso Padoa-Schioppa siano in grado di farlo.

g.gmigone@libero.it



Pubblicato il: 17.12.07
Modificato il: 17.12.07 alle ore 8.50   
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