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« inserito:: Giugno 08, 2007, 05:21:22 pm » |
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Gramsci: l’«Inferno» dantesco per parlare al Pci
Adriano Guerra
Gramsci in carcere a Turi, Togliatti a Mosca, dove c’è con la famiglia Schucht la moglie Julia coi figli. E dove c’è Stalin. In Italia c’è Mussolini, e c’è il «Tribunale speciale» al lavoro. Siamo nel pieno del secolo «grande e terribile», coi suoi momenti di gloria, di generosità e di solidarietà, ma anche di paure, di incomprensioni, di tradimenti, ed è questo il quadro entro cui va collocata la ricerca di Angelo Rossi e Giuseppe Vacca, appena pubblicata da Fazi, Gramsci tra Mussolini e Stalin (pp.245, euro 19.00).
Negli anni della guerra fredda - come si sa - i tentativi di custodire ma anche di preservare dalla curiosità altrui piccoli e grandi segreti famigliari e di partito, hanno portato a stendere veli su verità dolorose. Così è nata la «questione Gramsci». Non pochi di questi veli sono stati rimossi grazie alle ricerche di numerosi studiosi. Altri lo sono con questo libro, che è un’opera «aperta» e dunque - come sempre accade quando un tema viene affrontato da più autori - con interpretazioni non sempre collimanti e in qualche caso anche contraddittorie. Ma, vivaddio, questa è la ricerca. E quel che di nuovo veniamo a sapere impone di modificare vecchie convinzioni. Ora sappiamo ad esempio, che Gramsci scrivendo in carcere centinaia di pagine su Benedetto Croce, sul fordismo, su Macchiavelli, non intendeva (soltanto) lavorare für ewig (per l’eterno), ma anche condurre una vigorosa e quotidiana lotta politica all’interno del partito e del movimento comunista.
Che sin dai giorni dell’arresto egli fosse in contrasto con Togliatti era noto. Quel che era meno noto, e per certi aspetti, del tutto ignoto, è rappresentato da una parte dall’ampiezza e dalle forme nelle quali il confronto fra i due dirigenti ha continuato a svolgersi e dall’altra, e soprattutto, dai contenuti reali del confronto stesso. Su questi punti il libro di Rossi e Vacca dice cose nuove che riguardano intanto il ruolo reale svolto da Piero Sraffa. A differenza di quel che si riteneva, il famoso economista non ha ricoperto nella vicenda il ruolo di semplice strumento di contatto, quasi anodino e neutrale, fra i due, soltanto perché amico di Gramsci e di Togliatti, e soprattutto del primo, ma ha agito per volontà e vocazione propria. Perché Sraffa era un intellettuale comunista, un uomo di partito, sia pure «senza tessera» (e «senza tessera» per potersi muovere liberamente, o quasi, fra Londra, Parigi e il carcere di Turi).
Nuovo è poi quel che Rossi ha scoperto sui «codici letterari» impiegati da Gramsci per riprendere nel 1931 la discussione iniziata con Togliatti nel 1926 sui pericoli che sarebbero nati qualora la maggioranza di Stalin non si fosse accontentata di vincere la sua battaglia contro la minoranza di Trotskij, ma avesse teso a «stravincere». Gramsci ha utilizzato a questo proposto vari testi: uno scritto su Benedetto Croce e il materialismo storico, il Canto X dell’Inferno, (quello di Farinata degli Uberti, ma Gramsci per far sapere al partito il suo pensiero sulle posizioni del Comintern ha posto al centro la figura di Cavalcanti), e, ancora, una finta recensione alla Storia d’Europa di Croce. Quel che viene fuori, attraverso il lavoro di decodificazione delle «lettere» e l’analisi di alcuni documenti sin qui inediti - prima di tutto il Rapporto steso da Gennaro Gramsci che era stato incaricato dal partito di informare il fratello sulle ultime scelte del partito - è il quadro complessivo delle divaricazioni che si erano progressivamente venute a creare fra il prigioniero e il Pci.
Queste divaricazioni riguardavano soprattutto il giudizio sul fascismo e sulla tattica per combatterlo: erano ancora valide le Tesi di Lione del gennaio 1926 nelle quali, seppure entro il quadro di una situazione italiana definita «prerivoluzionaria», si poneva al centro la questione dell’unità classe operaia- proletariato agricolo-contadini, con le scelte politiche conseguenti (dialogo e intesa con socialisti e socialdemocratici per dar vita al «fronte unico») oppure occorreva far propria la linea del Comintern (1928) e soprattutto del X Plenum (luglio 1929) sulla «Terza fase», con le parole d’ordine della «crisi generale del capitalismo», della «classe contro classe» e del «socialfascismo»?
Gramsci si pronunciò sempre per la validità delle tesi di Lione e dunque contro il Comintern e contro la «traduzione italiana» della «terza fase» avviata dal Pci nel 1929 con la «svolta», e alla fine parlò dell’Assemblea Costituente, e dunque di una battaglia da condurre per obiettivi democratico-borghesi nelle condizioni del pluralismo e del pluripartitismo politico, come di un obiettivo valido non già dopo la caduta del fascismo ma negli anni stessi del fascismo, utilizzando le occasioni fornite dal confronto che si era aperto sui temi del corporativismo.
A dare organicità alla lotta politica di Gramsci c’era - va ancora detto - una concezione dell’egemonia che si distaccava fortemente dai moduli, allora imperanti, della «dittatura del proletariato», e - ancora - c’era una esplicita dichiarazione di condanna del marxismo sovietico considerato alla stregua del «teologismo medievale». Rottura netta, insomma, col Comintern e col Pci che è diventata anche grave e irreparabile rottura personale con Togliatti, ma che non ha però impedito a quest’ultimo - come i due autori riconoscono ampiamente - di guardare a quel che Gramsci produceva in carcere come ad un patrimonio prezioso da salvaguardare per il futuro, e non solo per il partito.
La svolta verso la rottura radicale ha preso avvio - come si sa - con la «famigerata» lettera di Grieco del 1928 interpretata da Gramsci, per il fatto che con essa il partito lo indicava come il capo del Pci, come il momento di avvio di una iniziativa diretta, consapevolmente o inconsapevolmente, a trattenerlo in carcere. Ed è continuata, sempre secondo Gramsci, col ritardato e in più di un caso il mancato sostegno da parte del partito alle diverse vie - ultimo il «tentativo grande» - studiate e tentate da Gramsci per ottenere la liberazione.
Per quel che riguarda l’impatto che le differenzazioni sull’atteggiamento da tenere nei confronti del regime fascista hanno avuto sulla questione della liberazione di Gramsci è presto detto: scartata sin dal primo momento la via della richiesta di grazia, l’unica possibilità per uscire dal carcere consisteva per Gramsci nel puntare sul riavvicinamento che si stava verificando fra l’Urss e l’Italia fascista, entrambe preoccupate per l’ascesa di Hitler. Trattativa diretta fra due Stati impegnati nella preparazione di un «Patto di non aggressione» dunque, tenendo all’oscuro il partito, tanto più che quest’ultimo stava in quella fase chiedendo la liberazione dei prigionieri politici dalle carceri fasciste attraverso manifestazioni e campagne di stampa. Con iniziative cioè che - pensava Gramsci - non avrebbero potuto che irrigidire le posizioni di Mussolini.
Se si prende in considerazione nel suo insieme l’atteggiamento tenuto dal Pci nei confronti del problema della liberazione di Gramsci si può ragionevolmente pervenire alla conclusione, come fanno i due autori, che le preoccupazioni e anche i sospetti di Gramsci, erano in parte giustificati. Se però si guarda a come si sono svolti i fatti non si può non rilevare il peso che hanno avuto, insieme alle divergenze, le incomprensioni dovute all’accumularsi senza tregua di equivoci, di informazioni parziali o del tutto errate che non hanno consentito alle parti di avere incontri chiarificatori. Basti dire, nell’ordine, che la «famigerata» lettera di Grieco che tanti sospetti ha generato in Gramsci, non ha avuto nessun peso nel determinare la condanna (non figura neppure negli atti processuali) e, per quel che riguarda il suo contenuto, non è certo attraverso di essa che gli inquisitori hanno appreso che gli imputati che avevano di fronte erano i dirigenti al massimo livello del partito. A spingere poi il Pci a far propria la campagna avviata a Parigi, sulla base di documenti che illustravano le condizioni di salute di Gramsci, per la liberazione dei prigionieri politici in Italia, non è stata una scelta di Togliatti, ma un complesso di circostanze che hanno preso il via da un’iniziativa della Concentrazione antifascista.
Va infine ricordato che anche Togliatti pensava che le Tesi di Lione (delle quali era stato coautore) non avessero perso di significato dopo il X Plenum del Comintern e, come Vacca ha ampiamente dimostrato già in un libro precedente, la sua analisi del fascismo presenta indubbie affinità con quella di Gramsci. Quel che soprattutto ha distinto i due dirigenti è stato l’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Urss. Da una parte c’era il «realismo» di Togliatti che ha spinto quest’ultimo a schierarsi con l’Urss di Stalin anche quando diverse da quelle imposte da Mosca erano le sue convinzioni. E questo perché non vedeva altra scelta nel momento in cui in Europa si trattava di fronteggiare il fascismo. Dall’altra parte c’era il «non realismo» (ma forse, proprio perché fondato su una scelta non di «campo» ma di collocazione ideale eticamente oltreché politicamente fondata, è possibile parlare di «realismo» altro, superiore) di Gramsci.
Del tutto oziosa, almeno nel momento in cui siamo di fronte al problema di ricostruire una vicenda, è chiedersi adesso chi avesse ragione.
La gestione di Togliatti della «questione Gramsci» non è certo - come si è visto - esente da critiche. Non si può però dimenticare che - come è ricordato nelle ultime pagine del libro - a decidere sulla sorte di Gramsci sono stati Mussolini e Stalin. Poco prima che Litvinov giungesse a Roma per la firma del «Patto», Gramsci era stato portato - e forse perché Mussolini si proponeva di utilizzare la carta della liberazione dell’uomo che aveva fatto condannare a 20 anni di reclusione - da Turi al carcere presentabile di Civitavecchia. Ma per Stalin Gramsci era evidentemente ancora quello della lettera del 1926, un «trotskista». Meglio lasciarlo in carcere in Italia. Avvenne così che quando il ministro degli esteri sovietico incontrò Mussolini non fece cenno della questione. E quest’ultimo non aggiunse verbo.
Pubblicato il: 04.06.07 Modificato il: 04.06.07 alle ore 8.36 © l'Unità.
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