LA-U dell'OLIVO
Novembre 22, 2024, 09:06:16 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Debito pubblico, alla ricerca di una via di fuga  (Letto 2026 volte)
Admin
Administrator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 30.929



Mostra profilo WWW
« inserito:: Settembre 25, 2019, 12:46:32 pm »

Debito pubblico, alla ricerca di una via di fuga

Di Claudio Conti
Schermata del 2019 06 02

La discussione mainstream intorno al debito pubblico, lo spread, le “letterine” che partono da Bruxelles e le “rispostine” – corrette in corsa – del ministero dell’economia italiano, soffre da sempre di una distorsione evidente e sempre più faticosamente nascosta.

Se uno legge infatti Repubblica o il Corriere, o peggio ancora ascolta Cottarelli e Giannini in tv, è obbligato a pensare che il debito aumenta perché aumenta la spesa pubblica, con governi che non applicano le indicazioni “sagge” provenienti dall’Unione Europea (e specificamente dalla Commissione, ossia il “governo” Ue).

Chi guarda invece i numeri scopre che la spesa pubblica, negli ultimi venticinque anni è stata costantemente ridotta, al punto che da diversi anni presenta costantemente – e sotto qualsiasi tipo di maggioranza governativa – un consistente avanzo primario. Che significa: lo Stato spende ogni anno meno di quanto incassa con le tasse.

E del resto molti governi degli ultimi anni – ma anche quelli di Berlusconi – hanno obbedito più o meno ferreamente agli ordini provenienti dall’alto. In particolare quello dei ferocissimi Mario Monti ed Elsa Fornero, che sono stati protagonisti anche del più brusco innalzamento del debito pubblico in tempi recenti. Sono infatti entrati a Palazzo Chigi con un fardello pari al 120,1% del Pil e ne sono usciti lasciandocelo a 129% (oggi siamo al 132).

Ci troviamo insomma di fronte a un piccolo mistero: più ci si piega alle prescrizioni inscritte nei trattati europei, ribadite con frequenti bacchettate sulle dita, più peggiora la situazione. Lo stesso, e anche peggio, è accaduto alla martoriata Grecia governata direttamente dalla Troika – con Tsipras a fare la “copertura a sinistra” di politiche ferocemente antipopolari – quindi non si può neppure parlare di anomalia italiana.

Gli scostamenti dal percorso operati dal governo gialloverde – quasi soltanto, e molto limitatamente (come ricorda Tria nella sua contestata lettera a Bruxelles), per “quota 100” e “reddito di cittadinanza” – aggravano un po’ la tendenza, ma senza modificarne eccessivamente la direzione.

Mentre la geniale “opposizione democratica” (ZingaRenzi-Repubblica-Corriere) critica il governo… chiedendo ancora più austerità! Poi si meraviglia di come vanno le elezioni…

Quello che la narrazione mainstream – “europeista”, insomma – nasconde con tanta cura è che la percentuale con cui viene espresso il debito pubblico risulta da un calcolo presentato come semplice, ma economicamente molto complesso, che deve tener conto di molti fattori e alcune distorsioni statistiche. Per la parte tecnica, come spesso facciamo, rimandiamo alla lettura – qui di seguito – dell’ottima analisi di Guido Salerno Aletta, apparsa su Milano Finanza.

Noi ci limitiamo a sottolineare il dato politico: l’insieme di strumenti imposti dai trattati europei – taglio della spesa pubblica, privatizzazioni, liberalizzazioni, facilitazioni per le imprese, taglio delle pensioni e allungamento dell’età pensionabile, precarietà contrattuale, deflazione salariale, ecc – non è efficace per curare quella malattia (il debito pubblico). Anzi l’aggrava. In primo luogo perché la crescita economica (in larga parte dipendente dal contesto internazionale) viene scientemente depressa: meno spesa uguale meno investimenti e reddito circolante, salari più bassi e precari uguale meno consumi (e meno innovazione tecnologica da parte delle imprese), e via così. Una spirale senza fine verso il basso.

In più, ci ricorda Salerno Aletta, c’è una Banca centrale europea che non riesce neppure – per un deficit statutario gravissimo – a dare un minimo contributo alla risalita dell’inflazione verso l’obbiettivo dichiarato (il 2% annuo); il che contribuisce negativamente.

Poi c’è lo spread. Terribile cerbero gestito direttamente dai “mercati”, che fa salire quasi a piacimento il “servizio del debito”, ossia la quota di interessi da pagare annualmente a chi compra i titoli di stato italiani. Una quota che si mangia sistematicamente quel faticato avanzo primario e anche molto di più.

Qui l’Unione Europea è intervenuta a fissare come trattato una scelta suicida operata “spontaneamente” dal governo italiano del 1981, con al Tesoro Nino Andreatta, quando il debito pubblico era abbondantemente al di sotto del 60% poi imposto come parametro nel trattato di Maastricht. Si tratta della “separazione tra Banca d’Italia e Tesoro” (il ministero che emetteva i titoli di stato, oggi assorbito in quello dell’economia), per cui la banca centrale non può più acquistare i titoli di stato, contribuendo così a tenere alto il prezzo e basso il rendimento (ossia gli interessi da pagare, il “servizio del debito”).

Da allora e fino ad oggi, quindi, lo Stato – ed ora ogni stato dell’Unione – deve cercare soltanto “sui mercati” le risorse finanziarie di cui ha bisogno; ed è quindi obbligato ad offrire i tassi di interesse più “appetibili” oppure – il che è lo stesso, ai fini contabili – a vedersi offrire un prezzo molto inferiore di quello nominale per ogni titolo (100 euro, in genere).

In pratica, gli Stati europei sono tutti sotto botta di strozzini professionali molto ben vestiti, in particolare quelli con un debito pubblico più alto, per cui lo spread (il differenziale rispetto ai rendimenti dei titoli di altri Stati) è più elevato, il che contribuisce non poco ad aumentare il debito stesso e a frenare la crescita.

Da questa trappola, a rigor di trattati, non si può e non si deve uscire. E quindi si è condannati, come paese, a una morte lenta, per consunzione, cedendo un pezzo dopo l’altro dei “gioielli di famiglia”, ossia dei pilastri che avevano reso il paese uno dei sette più industrializzati del mondo.

Naturalmente questa agonia non è uguale per tutti. Banche, assicurazioni e imprese riescono comunque a sopravvivere, magari facendosi assorbire da concorrenti più forti basati in paesi “partner”. La popolazione, comprese larghe fasce dell’antico “ceto medio”, no. Le dinamiche elettorali, come sappiamo, riflettono esattamente questo processo, offrendo a poco prezzo consenso al primo pirla che promette il bengodi domattina.

Del resto questo processo rappresenta nient’altro che un gigantesco trasferimento di ricchezza dalla produzione e dai consumi alla rendita finanziaria, ovvero una tesaurizzazione del patrimonio (per chi ce l’ha…) garantita proprio dalla rendita parassitaria sul debito pubblico.

Comunque una via di fuga o di riduzione del danno – senza mettere in discussione nessun trattato – potrebbe anche esistere. Ed è quella proposta dall’amministratore delegato di Banca Intesa, Carlo Messina, che già da qualche mese va suggerendo una “mobilitazione del risparmio privato” utilizzando il patrimonio immobiliare pubblico (anche delle amministrazioni locali).

Le controindicazioni sono evidenti (lo Stato e gli enti locali cedono la proprietà immobiliare a fondi finanziari privati, restando privi di ulteriori margini di compensazione), ma l’effetto sul debito anche. Drastico, radicale, nell’ordine dei 1.000 miliardi sui più dei 2.300 attuali. Quello sullo spread, e sul servizio del debito, anche.

Al ministero dell’economia cominciano a pensare seriamente e questa possibilità che, se realizzata in maniera efficace (c’è da dubitarne, conoscendo i protagonisti del governo attuale), potrebbe dare qualche anno di fiato alle finanze pubbliche, permettendo investimenti indispensabili senza più infrangere – per un po’ – nessun obbligo europeo. Ovvio che l’effetto sulla crescita economica sarebbe molto diversi a seconda degli investimenti fatti: se “produttivi” (rilevamento di attività industriali a rischio delocalizzazione o svendita, creazione di nuove attività, ecc) sarebbero di lungo periodo, se sulle “grandi opere” per i soliti costruttori, quasi per nulla e solo nell’immediato.

Perché diciamo “per qualche anno”? Perché la gabbia dei trattati, in questo modo, resterebbe assolutamente intatta. E continuerebbe a macinare, ripristinando, prima o poi, la situazione attuale. Dopo, resterebbero da “sacrificare” al dio Baal dei “mercati” solo i conti correnti di ognuno di noi. Se, con i salari e le pensioni attuali, potremo ancora disporne…

Da - https://www.sinistrainrete.info/politica-economica/15130-claudio-conti-debito-pubblico-alla-ricerca-di-una-via-di-fuga.html?utm_source=newsletter_869&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-sinistrainrete
Registrato

Admin
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!