LA-U dell'OLIVO
Novembre 26, 2024, 09:04:23 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Il pensiero della libertà e i suoi (nuovi) nemici  (Letto 2345 volte)
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« inserito:: Aprile 13, 2019, 01:54:03 pm »

Rileggiamoli insieme

Il pensiero della libertà e i suoi (nuovi) nemici

   In tempi di postdemocrazia, in cui un Potere sempre più pervasivo sta transumando dai luoghi ai flussi virtuali e materiali, due saggi – “Storia del liberalismo europeo” di Guido De Ruggiero e “Passioni e vincoli. I fondamenti della democrazia liberale” di Stephen Holmes – ci aiutano a riscoprire il valore del dissenso critico in versione liberale, come ermeneutica del sospetto per fronteggiare il Leviatano.

Di Pierfranco Pellizzetti

«I liberali diffidano dell’eccessivo potere dell’autorità fondato sulla tradizione, su valori irrazionali o sulla forza, e vi si oppongono»1
Isaiah Berlin

«Gli stessi contestatori, quando fanno sentire la loro voce, sono prigionieri del mondo delle immagini creato dalla prodigiosa espansione dei media e della comunicazione elettronica»2
Marc Augé
-----
Guido De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Feltrinelli, Milano 1962
Stephen Holmes, Passioni e vincoli – i fondamenti della democrazia liberale, Edizioni di Comunità, Torino 1998

La libertà, religione o dissenso?

Nel 1925, in piena fase di consolidamento del regime fascista, veniva pubblicato il saggio di De Ruggiero. Testo in controtendenza, non solo – ovviamente – rispetto alla deriva liberticida imboccata dal nostro Paese, ma anche nei confronti di una prevalente lettura del Liberalismo, officiata in prima persona da Benedetto Croce, che ne forniva una versione intrinsecamente conservatrice; largamente tributaria dello storicismo hegeliano e della sua attitudine giustificazionista dell’esistente (“tutto il reale è razionale” in quanto pensato). Appurato che – per dirla con Karl Löwith - «in Hegel il processo storico viene inteso secondo il modello di una progressiva realizzazione del regno di Dio e la filosofia della storia come una teodicea»3.

Impostazione dominante tra i sedicenti “liberali” italiani della cattedra e del Palazzo, mai diventata fenomeno di massa, che troverà il proprio manifesto nel 1932; quando Don Benedetto darà alle stampe la sua celebre “Storia d’Europa nel secolo Decimonono”, in cui si teorizza l’ossimoro bizzarro – in relazione a un pensiero ad altissimo tasso di laicità – della “libertà come religione”: «laddove quella liberale dimostrò la sua essenza religiosa con le sue proprie forme e istituzioni, e, nata e non fatta, non fu un’escogitazione a freddo e di proposito, tantoché, dapprima credé persino di poter convivere con le vecchie religioni o venir loro compagna, complemento ed aiuto. In verità, si contrapponeva ad esse, ma, nell’atto stesso, le compendiava in sé e proseguiva: raccoglieva, al pari dei motivi filosofici, quelli religiosi del passato prossimo e remoto, accanto e sopra di Socrate poneva l’umano-divino redentore Gesù»4.

Appunto, rispetto a siffatta impostazione germanofila (e credente), il liberalismo di De Ruggiero è di tutt’altro conio; attento a una lezione anglosassone che all’epoca trovava i suoi riferimenti italiani in due pensatori autorevoli quanto fuori mainstream – Gaetano Salvemini e Luigi Einaudi – e in un precocissimo editore torinese, poco più che ventenne, il quale fungeva da loro collegamento intellettuale: Piero Gobetti.

In particolare la filiera liberale/liberal-socialista, che da John Stuart Mill arriva a Leonard Trelawny Hobhouse, primario ispiratore di Carlo Rosselli, sviluppando con grande determinazione la tematica antiautoritaria; di chiara impronta progressista: «secondo Mill – scrive Hobhouse -in una democrazia il pericolo più grande era quello della tirannia della maggioranza»5. Il “dispotismo del costume”6, con le parole dello stesso Stuart Mill.

Dunque la libertà, in quanto diversità legittimata, scopre automaticamente il valore della critica e accredita il conflitto quale irrinunciabile motore di cambiamento. Il Liberalismo come punto di incontro di teorizzazioni diverse che perseguono l’apertura della società attraverso la mobilità sociale e la circolazione delle idee, promossa da un’epistemologia fallibilistica (il metodo dibattimentale alla ricerca del verisimile). Esattamente il contrario rispetto al conservatorismo statico dell’hegelo-crocianesimo. Del resto confermato anche dai passaggi biografici: se nel dopoguerra Guido De Ruggiero sarà uno dei fondatori del Partito d’Azione, Benedetto Croce ricoprirà la carica di presidente in quel Partito Liberale, ricettacolo di agrari e rentier, che il nuovo segretario Giovanni Malagodi – come si disse – “affittò alla Confindustria” (inducendo la scissione della componente legata a il Mondo di Mario Pannunzio che darà vita al Partito Radicale pre-Pannella).

Una riflessione polifonica che articola in pensiero e azione il significato delle grandi rotture del Moderno: la natura plastica della società riorganizzabile mediante politiche. «L’idea prometeica di futuro progettabile attraverso l’uso pubblico della ragione (Immanuel Kant), la dialettica tentativi/errori (“congetture e confutazioni” per Karl Popper), l’innovazione come effetto prezioso delle sperimentazioni da parte di minoranze anticonformiste (Stuart Mill). Alla fin fine, l’incessante domandare di Socrate riportato a nuovo»7. La scoperta del ruolo razionalizzante degli interessi, rispetto alle passioni dell’Ancien Régime, ispiratrice di un piccolo, straordinario, saggio di Albert Otto Hirschman8; ripreso da Holmes nel titolo del suo testo in esame.

Quello strappo rispetto all’ordine tradizionale che De Ruggiero farà risalire alla riforma protestante: «abbiamo indicato nel principio del libero esame la fonte non solo della libertà religiosa ma di tutto il Liberalismo moderno»9.

Addomesticare il Leviatano

Prosegue De Ruggiero, «il non conformismo (il Dissent) è la spina dorsale del Liberalismo inglese […] Le sette dissidenti sono comunità libere, animate da spirito calvinistico, la cui fortuna è affidata alla iniziativa individuale, alla concorrenza»10.

Tema sviluppato un quarto di secolo fa da Stephen Holmes, Professor of Law della New York University, riandando alle sorgenti del Liberalismo come riflessione critica sull’essenza del Potere. Al tempo dell’ordine statuale instaurato dalle Paci di Westfalia (1648). Partendo dal suo massimo teorico agli albori dell’età rivoluzionaria – Thomas Hobbes – interpretato quasi come una sorta di pre/proto-liberale.

Se il Leviatano, mostro biblico dalla mille teste, è stato evocato quale metafora dell’Assolutismo che tiene a bada l’umana ferinità, per la generazione successiva il problema è incanalare gli interessi dei governanti fino a farli coincidere artificialmente con quelli dei governati. Tanto da far scrivere a Holmes che «il concetto di interesse individuale universale costituisce il fondamento antropologico della democrazia»11. Ergo, «non diversamente dal Grande Inquisitore, brillantemente modellato su di loro, le élite politiche hanno sempre sostenuto che le masse dell’umanità sono fondamentalmente incapaci e stupide, sicché hanno bisogno di essere governate. I liberali hanno fatto propria questa tesi, ma nel contempo l’hanno universalizzata: al pari degli uomini comuni anche i governanti hanno bisogno di essere governati […] La democrazia liberale tende a collocare i responsabili in posizioni facilmente ispezionabili»12. L’ispezionabilità del Potere.

Il dissenso critico in versione liberale come ermeneutica del sospetto per tenere a bada lo stesso Leviatano mediante regole e bilanciamenti (Montesquieu), dinamiche sociali (Tocqueville). Secondo la tesi fondamentale di Baruch Spinoza che «un potere limitato è più forte di un potere illimitato»13. In sostanza, la critica (attiva) dei rapporti di dominio, che sino all’instaurazione delle plutocrazie borghesi si concentrava sul Leviatano politico. In seguito economico.

Ciò per dire che il passaggio alla Seconda Modernità (o Postmoderno) coincide con la transizione del Capitalismo amministrato (dalla politica democratica) in quello sregolato; dove le gerarchie del comando si ribaltano stabilendo l’incontrastata primazia della possessività. Un tema che scorre lungo l’intera traiettoria del pensiero liberale. Dal tempo delle rivoluzioni che a tale principio si richiamano. Come dice Thomas Piketty: «alla fine del XVIII secolo, le rivoluzioni americana e francese hanno entrambe affermato il principio assoluto dell’uguaglianza dei diritti. Ma, nella pratica, i regimi politici nati dalle due rivoluzioni hanno più che altro concentrato la loro attenzione, nel corso del XIX secolo, sulla protezione del diritto di proprietà»14.

Libertà o possessività?

Facciamo ancora un passo indietro rispetto a Piketty. Secondo gli storici del pensiero è negli anni della Grande Insurrezione inglese (la guerra civile, endemica o combattuta, grosso modo proseguita dagli anni Quaranta del XVII secolo fino alla Gloriosa Rivoluzione del 1689) che avviene la saldatura concettuale tra proprietà e libertà. Quanto il politologo dell’Università di Toronto Crawford Macpherson definirà “individualismo possessivo”; una sorta di ideologia della Gentry, alla guida del processo rivoluzionario, per promuovere la propria condizione sociale: «la mobilità della classe in ascesa, basata su profitti commerciali o industriali»15. Sintesi che rispondeva all’esigenza – ben presente in John Locke – di assicurare attraverso la tutela della proprietà la necessaria autonomia dell’individuo rispetto ai condizionamenti del potere regio. Ma che inoculava nella moderna teoria liberal-democratica un germe il cui sviluppo avrebbe generato contraddizioni: «questo aspetto possessivo si trova in una concezione dell’individuo inteso essenzialmente come proprietario della propria persona o delle proprie capacità per le quali nulla deve alla società»16.

L’accantonamento della concezione di individuo come un tutto morale, come parte di un tutto sociale più ampio, che produrrà – soprattutto nel pensiero anglosassone – la contrapposizione culminata nell’affermazione di Margaret Thatcher “la società non esiste”. Nella biforcazione radicale (e antagonistica) tra due apparenti assonanze: Liberalismo e Liberismo; la libertà declinata nell’eguaglianza contro il privilegio posizionale, praticato nel mercato quale decisore di ultima istanza. Con una battuta: la torma dei fanatici “liberisti da Guerra Fredda” (i mercatisti austriaci tipo Friedrick Hayek e la Chicago School di Milton Friedman) scagliati contro il newdealismo riformista di John Maynard Keynes. Ma già il nostro De Ruggiero aveva consapevolezza dell’aporia, ricordando come Kant «riconosca che in natura vi può essere un mio e un tuo soltanto provvisori, cioè un possesso, non una proprietà»17. Chiude il cerchio Holmes: «affermare che il conflitto tra libertà e uguaglianza enfatizzato dai liberisti va posto sullo stesso piano dei molteplici conflitti tra libertà e libertà significa sdrammatizzarlo e porlo nella giusta luce. Ma soprattutto significa mostrare che si può essere, nello stesso tempo, ugualitaristi e liberali – come avviene, per esempio, quando si adotta la prospettiva rawlsiana [John Rawls, autore con “Una teoria della giustizia ” del grande libro liberale di fine Novecento, ndr ]»18. Secondo quanto ha recentemente scritto Axel Honneth, la fratellanza iscritta nella triade sugli stendardi del 1789 che diventa “accomunazione” nel passaggio «dall’uno-con-l’altro all’uno-per-l’altro»19.

Nella consapevolezza – liberale – che il Leviatano non è più statalista, bensì si è fatto plutocratico; mentre il Politico diventava subalterno all’Economico nell’attacco allo Stato democratico (nelle sue funzioni regolativa e distributiva), che nel Novecento assumeva sempre di più il ruolo dell’antemurale dei diritti sociali.

Psicosi complottiste, furori accaparrativi

I nemici storici del Liberalismo si chiamavano Anarchia e Tirannide. Nella consunzione dell’ordine westfaliano, che vede l’usura della forma-Stato e l’ascesa parossistica dell’accumulazione di ricchezza sulla punta estrema nel vertice della piramide sociale (l’1% della plutocrazia finanziaria), gli avversari di sempre assumono profili nuovi. Sfuggenti e ancora largamente non identificati. Anche perché il Dominio sta transumando dai luoghi ai flussi; tanto virtuali come materiali.

Solo un accenno alle nuove sfide in atto in due ambiti primari: la ripartizione tra i poteri in campo, il passaggio capitalistico dall’investimento industrialista all’accumulazione logistica.

Prima sfida, da Montesquieu ai tycoons dell’etere e ai “signori del silicio”: la veneranda separazione delle funzioni - in reciproco bilanciamento - tra Legislativo, Esecutivo e Giudiziario è stata soppiantata da quelle – tra loro colluse – di Mediatico, Finanziario e Governamentale (la premiership personificata, che sussume l’intero governo). Un assetto postdemocratico (le elezioni ridotte a gare tra marchi) che sta scivolando nella Democratura (lo svuotamento delle regole ridotte a guscio vuoto, sottomesse all’arbitrio di oligarchie autoritarie; da Trump a Putin, Orban o Erdogan). Con un di più, in quanto a produzione di inquietudine: nella dinamica collusiva di cui si diceva, la crescente privatizzazione della sicurezza attraverso le tecnologie della tracciabilità e dei Big Data, che monetizzano l’informazione a scopo di sorveglianza. La nascita di immensi apparati di controllo che, col pretesto della lotta al crimine e al terrorismo producono quanto il massmediologo di Stanford Evgeny Morozov definisce “asimmetria epistemica”, il nuovo Panopticon hi-tech: «l’iper-visibilità del singolo – registrata da ogni dispositivo intelligente – va di pari passo con la crescente iper-invisibilità di tutti gli altri attori. I governi continuano a secretare sempre più documenti e appaltare la proprie funzioni a società private non tenute a ubbidire alle leggi sulla libertà di informazione. Le aziende fanno di tutto per insabbiare le reali conseguenze delle loro attività e diffondono deliberatamente ignoranza finanziando ricerche pseudo-scientifiche di dubbia affidabilità. E Wall Street produce in serie strumenti così poco trasparenti da sfuggire a qualsiasi tentativo di comprensione»20.

Altro giro, altra sfida: il nuovo modo di produrre basato sul decentramento transnazionale e sul just-in- time promuove la logistica - da Cenerentola di fabbrica che era – ad anello centrale della supply chain, con effetti che trasformano radicalmente l’economia e cancellano il lavoro come soggetto antagonistico per il riequilibro/contenimento delle logiche capitalistiche. Infatti «la rivoluzione logistica ha trainato una riorganizzazione il cui obiettivo strategico è sincronizzare le dissonanze del mondo globale al ritmo costante delle catene del valore e della produzione»21. Difatti in nessun modo i “corridoi” lungo i quali scorrono i flussi delle merci, ridisegnando la geografia fisica e politica, dipendono da decisioni frutto di processi democratici. Tutto discende dal nuovo potere rappresentato dai Grandi Player, grazie ai quali emerge una sorta di autoreferenziale “sovranità multimodale e interoperabile”, pervasa dalle priorità di un’egemonica ragione logistica.

Dunque, sfide epocali alle pre-condizioni stesse della libertà, nella misura in cui la natura camaleontica di un Potere pervasivo rende problematico l’esercizio della critica e l’individuazione del chi o che cosa con cui confliggere. Ma qui siamo. Il campo su cui la libertà gioca la sua partita in stretta alleanza con la democrazia; intesa come il governo attraverso processi discorsivi che legittimano il dissenso (non certo una semplice conta delle teste!). E ancora una volta valgono le parole di quello che potrebbe essere considerato il massimo intellettuale del Novecento, il liberale John Maynard Keynes: «la transizione dall’anarchia economica a un regime che mira deliberatamente al controllo e alla direzione delle forze economiche nell’interesse della giustizia e della stabilità sociale presenterà difficoltà enormi. Ritengo tuttavia che il vero destino del nuovo liberalismo consista nel tentare di risolverle»22.

NOTE
1I. Berlin, Tra filosofia e storia delle idee, Ponte alle Grazie, Firenze 1988 pag. 88
2M. Augé, Futuro, Bollati Boringhieri, Torino 2012 pag. 65
3 K. Löwith, Significato e fine della storia, il Saggiatore, Milano 2015 pag. 71
4B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Laterza, Bari 1965 pag. 21
5L. T. Hobhouse, Liberalism, Sansoni, Firenze 1973 pag. 89
6J. S. Mill, On Liberty, Sansoni, Firenze 1974 pag. 110
7P. Pellizzetti, Libertà come critica e conflitto, Mucchi, Modena 2012 pag. 71
8A. O. Hirschman, Le passioni e gli interessi, Feltrinelli, Milano 1979
9G. De Ruggiero, Storia, cit. pag. 21
10Ivi pag. 113
11S. Holmes, Passioni, cit. pag. 37
12Ivi pag. 8
13S. Holmes, Anatomia dell’antiliberalismo, Comunità, Milano 1995 pag. 77
14T. Piketty, Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014 pag. 747
15C. B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, Mondadori, Milano 1982 pag. 207
16Ivi pag. 27
17G. De Ruggiero, Storia, cit. pag. 29
18S. Holmes, Passioni, ivi pag. 346
19A. Honneth, L’idea di socialismo, Feltrinelli, Milano 2016 pag. 33
20E. Morozov, Silicon Valley: i signori del silicio, Codice, Torino 2017 pag. 89
21G. Grappi, Logistica, Ediesse, Roma 2016 pag. 219
22J. M. Keynes, Sono un liberale? Adelphi, Milano 2010 pag. 170

(12 luglio 2017)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-pensiero-della-liberta-e-i-suoi-nuovi-nemici/?fbclid=IwAR2LtkrHVRLD0IHrN_3kJ-f55qIaAcqrHJoxtJ_1tJoL1x_6bC2y2Hw9eNg#.XJPriEujAKA.facebook
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!