Rincorsa delle regioni
Tutte le ambiguità del federalismo differenziato
Di Enrico De Mita 14 marzo 2019
Il tema delle Regioni è uno dei più tormentati della Costituzione italiana. Le Regioni sono nate “contro natura”. Negli ordinamenti federali le Regioni sono nate prima degli Stati e si sono federate per far fronte ai bisogni comuni (Stati Uniti, Germania). In Italia è lo Stato unitario che ha dato vita alle Regioni per cui è sempre aperto il discorso sui poteri da ripartire. Aveva ragione Massimo Severo Giannini, quando diceva che le Regioni non sarebbero riuscite se i partiti non avessero distinto la funzione dello Stato da quella delle Regioni e la politica economica non avesse avuto soltanto una guida nazionale.
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L’idea regionalistica è venuta assumendo nei decenni valenze diverse che dipendevano dagli interessi dei partiti: negli anni Sessanta è stata unità amministrativa e funzionale di pianificazione; negli anni Settanta arena della protesta della periferia contro i trend di standardizzazione culturale del centro; negli anni Ottanta forma di decentramento degli Stati del benessere con la crisi dell’Europa. Lasciamo stare le idee che furono poste alla base del referendum del 2017. La risposta al tema del federalismo non è solo tecnica, ma prima di tutto politica. Non sappiamo quale sarà l’assetto politico; non si sa che tipo di Stato avremo. Si parla di seconda e di terza Repubblica senza che nessuna ne abbia delineato i contorni.
Ma veniamo al punto in discussione. È nato con la riforma del 2001 un altro elemento che complica ancora di più l’assetto regionale. L’articolo 116 della Costituzione, dedicato alle Regioni a Statuto speciale, indica anche come «ulteriori forme di autonomia, che possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dell’articolo 119. La legge è approvata con maggioranza assoluta dei componenti sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata».
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Questa novità nasce da un semplice accordo fra partiti e governo. Si propone di trasferire funzioni alle Regioni. Viene messa in discussione l’unità del Paese che non si risolve nella somma delle autonomie, ma il quadro entro il quale si collocano. C’è dunque una esigenza di tutela della unità economica e sociale del Paese e dei diritti civili e sociali delle persone che si colloca su un piano paritario rispetto a quello sulle autonomie, nel rispetto del principio di sussidiarietà e secondo procedure che evitino arbitri del governo centrale e rendano gli enti locali protagonisti della legislazione che limita i loro poteri in funzione di un interesse nazionale.
Il federalismo differenziato, previsto dall’articolo 116 è possibile dando attenzione a federalismo disegnato dall’articolo 119, che finora è rimasto lettera morta. L’intesa fra Stato e Regioni è possibile purché si chieda al Parlamento di non spogliarsi del potere legislativo, mentre il testo di intesa non sarebbe emendabile dalle Camere che dovrebbero recepire i contenuti degli accordi. Oggi, per fortuna, la competenza a emendare è sostanzialmente sostenuta dai presidenti delle due Camere da insigni giuristi e per quello che si sa dal presidente della Repubblica.
È cominciata la rincorsa delle Regioni alla autonomia differenziata. I presidenti di quasi tutte le Regioni hanno dato mandato ai propri presidenti di attivare un negoziato con il governo. I governatori del Nord hanno dichiarato che le intese con lo Stato sarebbero una opportunità per tutti gli italiani. Con tanti saluti all’unità d’Italia e con le difficoltà che nascerebbero fra l’Europa e le Regioni italiane. Il concetto di autonomia differenziata è culturalmente ambiguo. Avremmo tre tipi di autonomia (ordinaria, speciale e autonoma differenziata) che creerebbero un ordinamento confuso.
Non è stato avviato alcun procedimento legislativo, ma con una soluzione impropria alla fine della legislatura, il governo Gentiloni ha sottoscritto con Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna “un preliminare” nel quale è detto che saranno le modalità relative previste dall’articolo 8 comma 3, norma relativa alle intese tra lo Stato e le confessioni religiose diverse da quelle cattoliche e che è rapporto tra ordinamenti distinti, molto simile a quello che sussiste nelle relazioni internazionali.
Che bisogno c’era di questa confusione fra istituzioni diverse quando il Parlamento, che può approvare l’intero testo di legge, potrebbe anche occuparsi degli emendamenti della legge stessa?
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