Una prassi per confermare che è nel CentroSinistra aperto dal Centro alla Sinistra (non oltre e senza estremismi) che si deve ricercare e trovare la soluzione dei molti problemi dell'Italia, come Nazione.
ciaooo
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Matteo Orfini
6 marzo 2018 alle ore 15:12 ·
Abbiamo perso. Vuol dire che abbiamo sbagliato. Punto. Sono giuste le dimissioni di Matteo Renzi, che portano con sé l’avvio della fase congressuale e la ricerca di un nuovo gruppo dirigente. Ecco perché senza esitazioni ho convocato la direzione e convocherò l'assemblea per avviare la fase congressuale: abbiamo bisogno di una discussione vera e larga, su quello che è successo ma anche sul cosa e sul come deve essere il PD del futuro.
Noi non abbiamo perso perché abbiamo governato male: abbiamo portato il paese fuori dalla peggiore crisi degli ultimi decenni, e portato a casa leggi e misure che in altri momenti storici avrebbero fatto gridare al miracolo. Certo ci sono stati anche errori, per carità. Ma il saldo è sicuramente positivo. Non abbiamo nemmeno perso perché lo abbiamo comunicato male. Siamo stati sconfitti culturalmente e politicamente, non abbiamo saputo convincere il paese a superare i propri timori. Ha vinto chi ha puntato sulla paura e sulla rabbia. Ha perso chi ha provato a scommettere sulla fiducia nel futuro. Ed è andata così anche perché nei molti luoghi dove quella paura è più forte noi non c'eravamo più.
Nonostante l'impegno straordinario dei nostri iscritti, dei volontari, della base del Pd, da un pezzo largo del paese noi siamo stati percepiti come distanti e ostili. Perché da molti di quei luoghi eravamo davvero distanti. Tutti parlano di povertà nei convegni e molto per contrastarla abbiamo fatto nell’azione di governo, ma quanti di noi possono dire di esserci entrati nei luoghi della povertà e di essersene occupati? Come vi ho raccontato la cosa che più mi veniva rinfacciata in questa campagna elettorale nel mio collegio era il senso di abbandono. Non basta governare, occorre esserci. Fisicamente. Non lo abbiamo fatto e il pezzo del paese che più dovremmo rappresentare, perché è quello che soffre di più, ci ha voltato le spalle.
Sono convinto che una delle ragioni sia nel modo in cui (non) funziona il Pd.
A me è capitato l'onore in questi anni di rappresentare il mio partito. Ci sono due modi di fare il dirigente: chiedersi cosa puoi fare per il tuo partito o chiedersi cosa il tuo partito può fare per te. Io mi sono caricato compiti che nessuno voleva svolgere perché c’era solo da perdere, sono andato a cercare quei luoghi e quelle situazioni dove si prendevano fischi e non applausi.
Quando mi è stato proposto di fare il capolista a queste elezioni ho chiesto di correre anche nel collegio elettoralmente peggiore della mia città, nella periferia più complicata. Per dare una mano. E per ringraziare dell'onore di un sicurissimo posto da capolista. Non ho preteso un collegio sicuro pensando di far bella figura e migliorare la mia immagine. E poi magari perdendolo. Non ho pensato a cosa avrei fatto dopo le elezioni, ma mi sono impegnato per recuperare fino all'ultimo voto.
Ho portato il Pd qualche punto sopra e riportato a casa qualche migliaio di voti. Mi sarebbe piaciuto riuscire a fare ancora di più, ma tant’è. Ho dato una mano e continuerò a farlo nei prossimi anni in parlamento, in quel collegio e nelle periferie di Roma. E badate bene, non penso sia un merito agire così. Penso sia un dovere, e lo dico perché in questi mesi ho visto tanti che pensavano solo al 5 marzo e come arrivarci individualmente più forti, senza preoccuparsi di cosa sarebbe successo il 4. E davvero oggi vorrei fossimo seri e sinceri ed evitassimo di nascondere quello che è il punto vero del dibattito scatenato ieri. Non le dimissioni di Renzi, che ci sono. Ma cosa deve fare il Pd.
C'è un pezzo del gruppo dirigente del nostro partito che non si rassegna a stare laddove deciso dagli elettori, e cioè all'opposizione. Da dove con umiltà e responsabilità dobbiamo ricostruire passo dopo passo una relazione di fiducia e di rappresentanza con la nostra gente.
Interi pezzi di paese ci hanno espulso dal loro orizzonte, come nel mezzogiorno, e questo rapporto non si ricostruisce sostenendo governi guidati da estremisti.
Se un pezzo del nostro gruppo dirigente uscisse dalle sale dei convegni, dai ministeri e dai salotti bene e venisse a farsi una passeggiata nelle periferie, scoprirebbe che immaginare di sostenere chi in questi anni ha soffiato sul fuoco della rabbia sociale con parole di odio non ha nulla di “responsabile”. Significa solo rinunciare a combattere. E finire per legittimare il populismo più becero e violento.
Oggi abbiamo il compito contrario: tornare a immergerci nel paese, nelle sue contraddizioni e paure per ricostruire con pazienza e umiltà, senza cercare scorciatoie.
Un obiettivo che merita qualche rinuncia, lo dico con affetto a chi ha l’ossessione di stare sempre in maggioranza: senza incarichi si resiste tranquillamente, se si ha un progetto politico.
Per questo abbiamo bisogno di discutere insieme, senza le solite risse incomprensibili che tanto hanno contribuito a questa sconfitta e che sembrano già ripartire in queste ore.
E quando dico insieme intendo non tra di noi, ma con la nostra gente.
Perché questo partito non appartiene a un segretario o a un gruppo dirigente, ma innanzitutto a chi tutti i giorni mette faccia e impegno a disposizione del Pd, a volte anche nonostante noi.
Orfini
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Berlinguer: “Cari dem ora è tempo di opposizione”
Intervista a Luigi Berlinguer di Silvia Merlo – Il Dubbio
Pubblicato il 7 marzo 2018 in Politiche 2018
Luigi Berlinguer PD opposizione
© Imagoeconomica
Il Pd ha perso perché non è riuscito a mobilitare la base, facendo prevalere la pur importante funzione di governo sulla politica». Luigi Berlinguer, storico dirigente del Partito comunista e tra i padri nobili del Pd, vede una sola via contro l’inabissamento della sinistra riformista: «Non risolviamo la critica di ciò che è successo incentrandola su una sola persona, anche se le dimissioni di Renzi sono necessarie», «ricostruiamo il partito» e «ritroviamo il legame tra base e vertici». E, per il futuro governo, ragiona: «Ora è tempo di opposizione. L’interesse del proprio partito deve essere subordinato a quello del Paese, ma questo interesse si tutela anche svolgendo così».
L’errore del Partito Democratico è stato quello di non essere riuscito a mobilitare la sua base, perché «la sua funzione di governo ha prevalso sulla Politica con la p maiuscola». Per Luigi Berlinguer, storico dirigente del Partito comunista e tra i padri nobili del Pd, la sconfitta elettorale del centrosinistra assomiglia ad una svolta storica: «Sembrerebbe che la sinistra non eserciti più quella grande forza di attrattiva che ha avuto in altre stagioni».
La domanda che si pongono tutti gli elettori dem è il perché di questo tracollo. Lei che risposta si è dato?
«Partiamo da un dato: l’aumento dell’affluenza alle urne ha indicato positivamente una maggiore volontà di esprimersi da parte dell’elettorato, nel quale non ha prevalso il desiderio di abdicare alla sua funzione, come invece è successo nelle passate elezioni. Il secondo elemento, collegato a questo ma ben più rilevante, è che si è trattato prevalentemente di un voto di opposizione. Attenzione: non solo di opposizione politica, ma di forte insoddisfazione per la società in cui viviamo».
E quindi di insoddisfazione rispetto al governo uscente?
«Questo è un altro elemento: il successo delle misure di rafforzamento dei diritti realizzate dalla gestione governativa del Pd non ha pesato positivamente nelle elezioni. E innegabile che si siano conquistati alcuni diritti mai riusciti ad ottenere prima, ma questo bagaglio di successi non ha orientato l’elettorato e anzi ha penalizzato il partito che li aveva realizzati. Eppure questo voto di opposizione è una contraddizione solo apparente: si tratta di una critica generale al modo stesso di essere della nostra società, come già avvenuto negli ultimi anni e mesi anche in Europa e in America».
Siamo davanti a una crisi della sinistra di governo?
«La sinistra europea è stata investita in questi tempi da una critica radicale. Bisogna guardare lontano e dire le cose fino in fondo: sembriamo essere nel cuore di una svolta storica, che mostra come il bagaglio teorico-politico e di prassi delle azioni della sinistra sia invecchiato. Sembrerebbe che la sinistra non eserciti più quella grande forza di attrazione che ha avuto in altre stagioni. “Dico più”, forse perentoriamente, ma temo che questa insoddisfazione possa essere irreversibile se la sinistra non rivede se stessa, in Italia e in Europa».
Insomma, la sinistra finisce in soffitta?
«No, ma attenzione: ad essere in crisi non è la premessa culturale del socialismo, anzi. L’equità, la giustizia sociale, la liberazione umana, la dignità della persona risultano, invece, sempre più requisiti impellenti, che stanno prepotentemente al centro della scena politica e sociale con bruciante attualità. Ad andare in crisi è invece il modello di società e di Stato, il rapporto tra le classi sociali e persino una parte dell’armamentario lessicale della sinistra. In sintesi, sopravvive l’idealità e invecchia l’ideologia. Questo si rispecchia in un voto che, animato da una forte spinta di opposizione e di insoddisfazione sociale, in Italia ha premiato un’altra forza politica che non si capisce bene cosa sia, ma saldamente impiantata sul rifiuto, che grida “no” a tutto».
In una parola, si potrebbe definire i vincitori di queste elezioni Lega e Movimento 5 Stelle come forze populiste?
«Ho timore che il ricorso a questo termine dica troppo poco. Il rischio nella loro vittoria è quello di scaricare la spinta progressista di opposizione sociale in una soluzione politica che è vicina al nulla. Si tratta, infatti, di forze che non hanno ancora e non so nemmeno se l’avranno un’adeguata strumentazione degli atti e degli indirizzi politici necessari a trasformare la spinta del “no” nella costruzione di una diversità sociale. Ecco la contraddizione: una spinta naturalmente progressista come quella contro lo status quo, che però si orienta al “no” tout court e quindi al nulla».
Torniamo allora al Pd, che errori ha commesso?
«Negli ultimi tempi e anche in questa campagna elettorale, la funzione di governo pur importantissima ha tuttavia prevalso rispetto alla Politica con la p maiuscola. Una sinistra di governo, infatti, ha di fronte a sé un compiuto assai arduo: conciliare la fattività riformista e quindi la costruzione di risultati, con la capacità di restare sinistra e quindi di collegarsi alla propria base e di essere capace di mobilitarla continuamente per il cambiamento. Alla sinistra occorrono sempre entrambe le componenti, il pragmatismo riformista e la permanente capacità di mobilitazione e di lotta. Questa seconda, invece, è apparsa molto debole».
Concretamente, che cosa è mancato?
«Abbiamo pagato gravemente la quasi scomparsa del partito, in quanto organizzazione e casa permanente della sinistra, sede di continua elaborazione, di partecipazione e persino di lotta. Senza un partito riformista ben organizzato e con alti tassi di partecipazione dei militanti non esiste riformismo possibile, perché non si può riformare solo con gli annunci e i messaggi mediatici, servono i fatti. Contemporaneamente, i soggetti del cambiamento devono partecipare attivamente a questo processo e non possono sentire estranea l’azione dei propri vertici politici. Il cambiamento deve conservare tutta la forza d’urto dell’azione sociale, attraverso la partecipazione».
Un partito che è stato troppo “liquido”, quindi?
«Troppo liquido, quasi aeriforme. C’è stata insensibilità politica ma soprattutto culturale rispetto a che cosa sia un partito e a quanto esso sia indispensabile per la vita della democrazia e necessario per radicare convinzione e adesione dei progressisti. Il partito non è un optional secondario e non serve essere leninisti per capirlo; basta essere oggi, hic et nunc, progressisti e riformisti, che oggi sembrerebbe coincidere con una nuova accezione del termine “rivoluzionari”».
Ha apprezzato allora la decisione di Matteo Renzi di dimettersi da segretario del partito?
«Rispetto la decisione di Renzi di collegare il clamoroso insuccesso elettorale con l’assetto del partito. In questo caso le dimissioni o sono immediate o cosa sono? Rispetto anche se questo è stato il senso del suo scegliere di convocare il congresso dopo le consultazioni che prima di tutto viene l’interesse del Paese a sistemare la questione drammaticamente urgente del decollo del nuovo Parlamento e di avere un governo. Bisogna, tuttavia, evitare che tutto questo appaia come un rinvio del congresso e delle sue dimissioni».
Anche per questo il Pd è in ebollizione e Renzi è il grande imputato, oltre che della sconfitta, anche della poca salute del partito.
«Renzi segretario e netta sconfitta del partito: l’equazione è automatica. Teniamo comunque alta l’ambizione politico-culturale di questo dibattito ed evitiamo di risolvere la critica solo incentrandola su una sola persona. Non facciamo sconti a nessuno ma conserviamo in questo momento uno spirito costruttivo: richiamiamo tutti alle proprie responsabilità, nell’intento di determinare un movimento di tutti e con tutti per allargare e non restringere la partecipazione, per approfondire e non sorvolare sulle questioni teoriche di fondo, per individuare con coraggio intellettuale oltre che politico le vie di uscita da una crisi ormai storica, come pure da un insuccesso così bruciante».
Lei crede che così si esorcizzi quello che prima ha definito “il rischio che la forza attrattiva della sinistra si sia esaurita”?
«Io ho visto in tutti i nostri circoli lo sconcerto, il dolore, la sofferenza per questo insuccesso. L’ho visto negli occhi di tutti quegli attivisti che si sono mossi con la consueta generosità, soprattutto nelle ultime settimane della campagna elettorale. Ho assistito ad episodi di azioni e di abnegazione che sono il cuore della militanza politica. Non deludiamo questo potenziale, che c’è e che possiamo ricaricare creando idee nuove di giustizia sociale e di strategia progressista. Molto dipenderà da come sarà organizzato fattivamente e positivamente il dibattito e da come il partito vivrà questo difficilissimo momento istituzionale della Repubblica».
Il suo è un appello all’unità?
«È un appello al popolo del Pd. Un richiamo a cambiare risolutamente il vuoto di interesse per il partito e per la sua vitalità di questi ultimi tempi. Senza turbare lo svolgimento delle irrinviabili misure di assestamento istituzionale, deve però essere chiaro che una sconfitta di queste dimensioni -specialmente se è vero che essa risiede anche in una ormai inadeguatezza storica, teorica e strategica degli stessi fondamenti ideali della sinistra richiede un’operazione politico-culturale radicale. Non bastano l’autocritica politica e persino il rilancio della forma organizzata del partito: esse devono anche essere accompagnate da un largo dibattito. Dobbiamo far crescere la consapevolezza che i cambiamenti dovranno essere profondi e che bisogna ricominciare a pensare teoricamente a che cosa sia, oggi, una vera sinistra».
A proposito del fronte istituzionale, Renzi ha collocato il Pd all’opposizione, come promesso in campagna elettorale nel caso di una sconfitta, ma in molti chiedono di ragionare su un’apertura ai 5 Stelle, nell’ottica di responsabilità istituzionale. Lei come si colloca?
«Ora è tempo di opposizione. È successo talvolta, nella nostra storia, che potesse insorgere un ipotetico conflitto tra la volontà di sostenere e rilanciare il partito e l’interesse generale dello Stato. Chi non fa l’interesse del proprio partito è un cattivo politico e un cattivo militante, chi non fa l’interesse del proprio Paese è un cattivo cittadino. Tenderei a dire che in una tale ipotesi di conflitto, che tuttavia non so quanto sia attuale, anzitutto viene l’interesse del Paese. Questo interesse, però, si tutela assumendosi compiti di sostegno al governo, ma lo si può fare altrettanto svolgendo una energica e positiva azione di opposizione. Il Paese ha bisogno di un buon governo ma anche di una efficace opposizione. La scelta è spinosa, ma in nessuno dei due casi la soluzione può essere un rifugio in cui collocarsi solo nell’interesse del proprio partito».
Non teme, nel caso di un appoggio al futuro governo, di mettere in crisi ciò che è rimasto dell’elettorato del Pd?
«Io credo che se sapremo sostenere efficacemente, anche di fronte a un certo nullismo presente in altri partiti, una concreta azione politica che assicuri una gestione istituzionale in favore dell’Italia, questo potrà giovare al Pd e al suo rilancio politico».
Da -
https://www.partitodemocratico.it/…/berlinguer-cari-dem-or…/
1Giovanna Daniele
Da Fb del 7 marzo ricordi nel passato Fb