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Autore Discussione: Come salvare i giornali da Facebook? Ecco chi ci ha provato e come  (Letto 3814 volte)
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« inserito:: Febbraio 14, 2019, 07:16:07 pm »

CATEGORIA: VENDERE E COMPRARE

Come salvare i giornali da Facebook? Ecco chi ci ha provato e come

 Scritto da Enrico Verga il 14 Febbraio 2019

Un antico motto dice “Se non paghi per un prodotto in rete, tu sei il prodotto”. C’era una volta un giovane di nome Mark che aveva un sogno. Voleva unire tutte le persone del mondo. Voleva creare un luogo dove tutti potessero essere felici, allegri e connessi … a The Facebook. Quel giovane idealista, appassionato di letture sulla storia di Augusto (il primo imperatore romano, non esattamente uno stinco di santo, come tutti sanno), aveva presto compreso che quella creaturina digitale chiamata The Facebook (solo in seguito il “the” venne rimosso, le leggende narrano, su suggerimento di Sean Parker) poteva valere miliardi.

Una visione pratica delle strategie di Facebook la leggiamo nelle mail rese pubbliche dal Parlamentare inglese Damian Collins, disponibili qui. Un breve estratto (il materiale è abbondante e ammetto che per riportarlo tutto non basterebbe un libro) dello scambio di mail tra Mark e Sam Lessin, vice presidente in Facebook (ha lasciato il gruppo nel 2014, queste mail si riferiscono al 2012). In una mail si scriveva (pagina 13) “la nostra missione è di rendere il mondo più aperto e connesso e l’unico modo per ottenere questi risultati è arruolare le persone migliori e avere le infrastrutture migliori, il che implica che noi facciamo una montagna di soldi e siamo estremamente profittevoli (…. continua dopo un po’… pag. 15). Ci sono 2 semplici canali con cui monetizzare le informazioni (1) pubblicizzare ingaggiare e re-ingaggiare (i dati rendono la distribuzione più efficiente e ci permette di scalare meglio la pubblicità) (2) personalizzazione e merchandising (i dati permettono a compagnie e persone di fare cose migliori per i propri clienti, la cosa migliore, possono scalare i guadagni e la profittabilità …)”.

Per onore di cronaca Facebook ha chiarito che queste frasi erano state estrapolate senza una vera coerenza. Non sta a me dire chi abbia ragione: se un organo democraticamente eletto come il parlamento inglese oppure un singolo cittadino (la cui azienda appare aver qualche problema di gestione dati…).

Facebook ha fame, una fame insaziabile di dati. Perché il mondo dei dati funziona in modo semplice. Più dati io posseggo su di te, più so chi sei, posso prevedere cosa vuoi, cosa sai, cosa vorresti sapere, e poi vado a valorizzare quei dati (in ultima istanza vendendoti prodotti o servizi o lasciando che i miei partner lo facciano). La base per raccogliere dati, implica una scusa per raccoglierli.

Nel caso di Facebook, cosa offre per avere i tuoi dati? Di fatto nulla (Google ti dà ricerca, Amazon cose da comprare etc.). O meglio, permette di connettersi, di ritrovare gli amici del liceo (che io direi, se non li sento più da 20 anni… una ragione ci sarà), andare a vedere se la vicina “di banchetto” in ufficio ha un fidanzato, spiare (parola brutta meglio “informarsi educatamente”) il proprio capo o il collega, con il quale, magari, si è in competizione per una promozione.

Facebook, negli ultimi anni, permette di rendere molto privato il proprio profilo. C’è da dire che se qualcuno di noi volesse scaricare i dati che Facebook ha raccolto su di noi (se volete farlo ecco qui il link) ci sarebbe un poco da preoccuparsi. Bene inteso non per i dati che Facebook raccoglie, ma per la mole impressionante di dati che noi generiamo e diamo in pasto a Facebook, probabilmente senza nemmeno saperlo. Per quale ragione questa dissertazione su Facebook se stiamo parlando di giornali? È presto detto: i giornali e relativi giornalisti (nel gruppo includiamo anche i blogger, gli analisti, insomma chiunque pubblichi una qualche forma di dato e/o informazione) generano traffico.

Il gioco di Zuckerberg per sfruttare i giornali è semplice e geniale. Più o meno si può riassumere cosi (riassunto personale, Mark purtroppo non era disponibile per darmi la sua visione di persona): “tu giornale e/o giornalista scrivi notizie, magari pure corrette, mi generi traffico di lettori o comunque di gente che si agita sul link, magari ci cliccano su (non è scontato), ma di sicuro i miei utenti commentano, insultano, mettono like, condividono, fan casino e io … ciuccio i dati, gli interessi e in generale sono contento perché così la mia comunità resta attiva. Tu giornale ti ritrovi un flusso di persone anonime che ti finiscono sul tuo sito”.

I giornali ci si sono buttati a pesce negli anni. Il pacchetto era ghiotto. Centinaia, migliaia, milioni di potenziali lettori che venivano inviati da FB, attraverso l’articolo, alla testata, il tutto gratis. Il problema è che i giornali non si accorgevano che cosi davano da mangiare alla bestia (in termini di raccolta dati) e in cambio ricevevano briciole. Perché il lato ben tragico di questa relazione è che i giornali non avevano (e non hanno tutt’ora, salvo lodevoli eccezioni) gli strumenti per valorizzare i dati e il traffico derivato da Facebook. Dei milioni di lettori che ogni giorno (vabbè facciamo anche ogni settimana) arrivavano da Facebook, la piattaforma guadagnava sui gusti, interessi eccetera, di fatto acquisendo dati (like sui migranti, dislike su Salvini, like sui gattini, dislike sui vampiri). E i giornali? Il massimo che può fare l’ufficio marketing è raccogliere limitati dati statistici, assemblati in modo casereccio con i fogli di excel e via.

La teoria con cui viene venduta la pubblicità dei giornali è ancora più o meno la stessa e si può riassumere, semplificando, in questo concetto: “Sa, gentile investitore pubblicitario, noi di XXX siamo una testata generalista, abbiamo un costo per contatto basso, dovrebbe comprare i nostri spazi” oppure “noi di XXXY siamo specialisti (finanza, sport, vita sociale, etc..) abbiamo tanti numeri alti (grazie al traffico generato da Facebook), ci legge un sacco di gente del tuo target, che comprerà le tue cose o servizi!”.

Più o meno come dire che tutte le persone che passeggiano per via Montenapoleone hanno soldi da spendere nei negozi del lusso. Sicuramente se passano per Monte Napo due interessi per la moda li hanno, resta da vedere se hanno i soldi per lo shopping.

A tutto questo, come riporta una recente analisi di Buffer, si aggiunga che il livello di ingaggio su Facebook continua a crollare. Per dirla in soldoni, l’ingaggio significa quanto un link o una pagina viene “vissuta” dagli utenti di Facebook. Poco ingaggio poco traffico, poco traffico pochi soldi con la pubblicità.schermata-2019-02-01-alle-13-25-35

Come salvare i giornali dalla dipendenza da Facebook?
Ora che abbiamo spiegato alcuni dei problemi della nota piattaforma cerchiamo di comprendere come si possono salvare i giornali da Facebook. Il Rolling Stone di qualche mese fa titolava in modo chiaro: “Possiamo essere salvati da Facebook?”. C’è un problema serio da chiarire: una testata che non ha controllo diretto sulla gestione dei contenuti, affidandosi ad una soluzione non proprietaria, rischia l’estinzione. Lo spiega chiaramente Aranzulla (parlando degli influencer) “C’è un motivo ben preciso. Chiara Ferragni e company sono ospiti di una piattaforma creata da terzi. Se Instagram o Facebook decidesse di cambiare gli algoritmi o di cancellare i loro profili cosa succederebbe? Sparirebbe tutto, foto e followers. Il sito web che posseggo invece è solo mio, lo gestisco in autonomia, senza sottostare ai dettami di un social media”, conclude Aranzulla. La regola che vale per gli influencer vale egualmente per i media. Il concetto menzionato sopra è semplice: se non possiedi il tuo territorio, e/o lo lasci gestire ad altri, ti possono chiudere fuori. Era il lontano gennaio 2018 quando Facebook decise ufficialmente di annunciare il cambiamento degli algoritmi per migliorare l’esperienza dei suoi utenti (contestualmente avrebbe danneggiato i giornali). Il cambiamento venne accusato come crollo di traffico generato da FB verso tutte le testate, che avevano una posizione digitale (foto sotto). Google

Senza entrare nel merito delle singole testate italiane, al livello globale la media del crollo oscilla, a seconda di quanto le testate erano dipendenti da Facebook, dal 30 al 70%:

Marketing automation: una via per l’indipendenza
“I giornali hanno sfruttato, gratuitamente, gli utenti di altre piattaforme (Facebook, per esempio ndr) per generare visibilità e traffico”, mi spiega Paolo Confortini, fondatore di 7hype, che supporta numerose testate media nel percorso di digitalizzazione grazie alla marketing automation. “Il grave problema è che tutte le visite che ricevono i giornali, non sono utenti delle testate ma di Facebook”. Ora per comprendere cosa significhi marketing automation e innovazione, oltre a interagire con Paolo ho pensato di aggiungere due casi di testate famose, nei loro rispettivi settori: Slate e Washington Post. Il primo meno conosciuto in Italia, con risorse modeste si sta “disintossicando” da Facebook. Il secondo, con un influsso di tecnologia, visione e soldi, è stato comprato da Jeff Bezos, fondatore e ceo di Amazon. Scomponiamo i punti della marketing automation per capire di cosa si parli veramente.

Di chi sono i lettori?
“I giornali hanno ignorato chi fosse il proprio lettore. Il visitatore, anche per un singolo articolo, è un lead (contatto). Se il lead viene trasformato in un cliente della testata, non ci sarà più bisogno di utilizzare la piattaforma sociale per trascinarlo ogni volta sul sito del giornale. Io ho visto testate piccine esplodere ed essere iper-visibili perché quel giorno Google le spingeva. Poi Google le ha eliminate e sono sparite”, mi chiarisce Paolo.

“C’è stato un momento di corsa all’oro e noi abbiamo partecipato in pieno”, spiega Julia Turner editor di Slate. “Ma da quest’anno (2016) quando gli algoritmi (di Facebook ndr) han cominciato a cambiare, abbiamo osservato un crollo di traffico e conseguentemente di Roi.”

C’è da ammettere che sino ad oggi non esiste una soluzione unica per far invertire la tendenza di crollo dei giornali (che detto in soldoni si traduce in crollo del traffico e quindi di pubblicità). “Ogni soluzione deve essere sviluppata tenendo presente le necessità di una testata (generalista o specialista), la lingua, la cultura dei propri lettori, etc.”, continua Paolo.

Consideriamo il caso del Washington Post, comprato pochi anni fa da Bezos. Come spiega Prakash, parlando di business plan del Washpost “la prima cosa da capire è che non c’è una soluzione unica. Se nessuno ha trovato la soluzione finale, non vedo altre opzioni che provare e sperimentare. Ovviamente la prima cosa che mi viene sempre detta è tipo – Bezos ha un sacco di soldi, facile cosi-. Prima di tutto il concetto di sperimentazione non implica buttare dentro tonnellate di soldi. Facciamo un esempio. Abbiamo creato una partnership con Google per avere un sito ultra veloce. In questo modo il nostro traffico ha una velocità di accesso alle notizie superiore agli altri siti di news. Tuttavia se non dovesse funzionare, ok, progetto chiuso. Non abbiamo cominciato con grandi progetti, grandi piani, grandi budget quindi se un singolo progetto non funziona, niente tragedie!”

Contenuti ne abbiamo. Chi sono i nostri lettori?
È importante generare contenuti di qualità, approfondimenti, progetti (articoli, video, infografiche, podcast etc.) che permettano di intrigare i lettori e, nello stesso tempo, di capire quali lettori sono sul sito, di che tipo e poter offrire a ognuno di loro un esperienza personalizzata.

“Pensiamo ad uno streaming ad personam, come Amazon Prime e Netflix: l’utente è stato acquisito tramite piattaforme social e ora questi servizi di video sharing conoscono tutto del nuovo cliente.” Chiarisce Paolo. “Nessuna delle testate che leggo ha una strategia per acquisirmi come cliente. Ci arrivo sempre grazie ad una piattaforma (es Facebook), aggregatori di notizie (es. Google news) etc. Non hanno sfruttato la possibilità di trasformare queste visite in un lead: detta in parole semplici, il giornale dovrebbe sapere, almeno, che il tizio che legge l’articolo si chiama Paolo Confortini. Pensa a un giornale mainstream: se ha 1 milione di visite (ipotizziamo al mese) e non ne trasforma nemmeno una in un lead, il mese dopo deve reinventarsi di nuovo tutto da zero. Pensa, invece, se quel milione si traducesse in 10 milioni di visite annuali. Se tu, giornale, raccogli i dati dei lead, quei lead diventano clienti. Profilare un lead è il primo passo per acquisirlo e renderlo un cliente. La profilazione, a mio avviso, ha anche un eguale vantaggio per il cliente. Io accetto di essere profilato perché non m’interessano pubblicità inutili. Se m’interesso solo di temi tecnologici mi aspetto che una volta profilato mi verranno proposti solo contenuti di questo genere. Vantaggio per tutti: io utente sarò più propenso a comprare contenuti o prodotti (ad essi associati), il giornale avrà un livello di conversione (per i suoi contenuti o i prodotti pubblicizzati ad essi associati) maggiore. Oggi le aziende devono avere come unico focus il cliente”, spiega Paolo.

A Slate l’approccio seguito è stato lo stesso: focus su contenuti e clienti. Hanno creato contenuti che rendessero i lettori “dipendenti”, facendoli tornare più volte. Hanno assunto più giornalisti per coprire, in anticipo, le elezioni politiche. Slate ha scoperto che i podcast erano un buon modo per creare fedeltà e accrescere le vendite di abbonamenti premium (Slate Plus), quindi hanno aggiunto show come “Trumpcast”; “Represent”, che copriva i temi razziali; e “Dear Prudence”, una versione audio della colonna delle rubriche. Hanno posto maggior enfasi sulle storie del weekend, che approfondivano le news della settimana, accrescendo il traffico sul sito. Hanno rilanciato la loro newsletter giornaliera, The Angle, che ha aumentato i ritorni dei lettori più affezionati creando ulteriori opportunità per commenti e interazioni. Stesso approccio anche per il Washington Post: “Cruciale per noi è stato investire in giornalisti sia per la carta che per il digitale”, ha spiegato Jed Hartman, ex capo finanziario del WaPo. “Disinvestire nel giornalismo crea un circolo vizioso che, crollando la qualità della pubblicazione, fa crollare il traffico e di conseguenza la raccolta pubblicitaria.”

Qualità versus quantità
Il passo successivo è l’analisi dell’utente. Avere contenuti definiti che permette di capire chi legge cosa. “Le notizie, le comunicazioni, devono essere dinamiche veloci”, mi spiega Paolo. “Secondo me il futuro dei giornali sarà fatto da una focalizzazione ancora più spinta, da un minor numero di utenti disposti a pagare molto di più per un contenuto. I giornali han perso il loro focus. Hanno perso il motivo per cui si comprava una testata invece che un’altra. I giornali non possono lottare sull’ultima news. Hanno già perso. Devono costruire una strategia sul valore aggiunto, su quell’approfondimento che radio e Tv difficilmente possono fare.”

A Slate la vedono allo stesso modo: “Gli editori e le agenzie di pubblicità possono criticare i nuovi metodi di analisi del traffico o suggerire che il traffico stesso sia gonfiato”, spiegava Lisa Cucinotta, direttrice del social strategy & business development alla Horizon Media. “Slate non può competere sulla scala quindi ha senso che cerchi di differenziarsi sulla fedeltà dei suoi lettori, accrescendola. In aggiunta ha aumentato le attività di native advertisement (per chi non fosse del giro, significa articoli pagati da un singolo cliente e pubblicati in modo che si noti lo “sponsor”). In tal senso Slate già nel 2016 riportava un incremento sino al 50% delle sue entrate pubblicitarie grazie a questo sistema. Anche in questo caso il sistema implicava l’addestramento di personale di vendita che lavorasse a stretto contatto con i giornalisti.”

Misurare la “fedeltà” non è un sistema molto efficiente, o meglio diciamo che gli strumenti per analizzarla, e valorizzarla, si stanno ancora evolvendo mano a mano che si evolve l’intero scenario della valorizzazione delle testate nel mondo digitale.

Il primo passo… 
“Un primo passo importante è trasformare un visitatore anonimo (ovvero di cui non conosciamo nulla) in un utente di cui conosciamo qualche dato, almeno l’email. In questo caso stiamo quindi portando a casa un lead. Poi saranno le attività di marketing a lavorare per trasformare quel lead. Nell’ambito di un articolo sono il vero valore del giornale, perché possono essere monitorati in ogni loro azione, che noi chiamiamo digital body language. Con i dati acquisiti (legalmente, non come i casi di furto dei dati avvenuti sulla piattaforma di Facebook) costruisco un percorso di analisi strutturato sul Digital Body Language. Nel mondo digitale, come nel mondo fisico, ci sono comportamenti che le persone hanno che sono facilmente riconoscibili, per chi ne ha le abilità”.

“Facciamo un esempio – continua Paolo – se su LinkedIn qualcuno sta per essere licenziato ce ne accorgeremo subito. Se sino ad oggi ha avuto un profilo passivo, tranquillo, e da un giorno all’altro inizia a postare articoli, commentare quelli di altri, chiedere amicizie, cambiare la foto del profilo, migliorare il suo cv è ovvio che qualcosa stia succedendo. Su linkedIn l’azione di una singola persona è molto facile da analizzare. Il processo per valorizzare dei dati di migliaia di lead, richiede più tempo, maggiori investimenti tecnologici e personale specializzato”.

Un’ulteriore soluzione interessante è creare uno scambio. I dati del nostro lead in cambio di notizie gratis (altro che Paywall), un’opportunità di fare referrals (un po’ come succede su Amazon), o di integrare, nelle sue attività sociali, gli articoli che gli piacciono. Si ricordi inoltre, che lo stesso lead/cliente può essere a sua volta un nostro alleato e una valida risorsa. Se ha un suo traffico sui social, magari anche una sua credibilità (è un manager, un docente universitario, un analista etc.) può egli stesso diventare un ambasciatore del prodotto giornalistico. Quello che ormai i giornali si trovano ad affrontare è una democrazia di lettori. Il lettore apprezza ciò che gli dà un valore (nel caso di un giornale un’informazione utile). Altrimenti lo scarta”, conclude Paolo.

Democrazia del lettore, strategie di Digital Body Language, creazione di contenuti ingaggianti e la lista potrebbe continuare a lungo. Ora, con una crisi del mondo dei media che non accenna a diminuire e un ulteriore “botta” data, dalle nuove strategie di Facebook, resta solo una grande, enorme domanda.

I direttori dei giornali e i loro editori sono pronti a una vera evoluzione digitale? A questa domanda non sono capace di rispondere. Per il bene dell’informazione di qualità mi auguro di sì.

Altrimenti, nei prossimi anni, dialogheremo solo con smile e gattini… Miao
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Da - https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2019/02/14/giornali-facebook-marketing-automation/?uuid=96_KPG36cIL
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