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Autore Discussione: Il manager globale dell’auto che ha ridefinito uno stile  (Letto 3621 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Luglio 23, 2018, 12:32:18 pm »

Consegnando una Jeep all'arma dei Carabinieri, il manager il 27 giugno scorso ha parlato delle sue origini, di suo padre carabiniere, e del perché capisce la politica di Donald Trump come reazione al mercato globale.

Oggi un Cda d'urgenza deciderà il suo successore

Di ARCANGELO ROCIOLA 21 luglio 2018, 15:36

L'ultimo messaggio di Sergio Marchionne da amministratore delegato di Fca
 
27 giugno 2018. Sergio Marchionne è a Roma, dove ha consegnato ai Carabinieri una Jeep Wrangler. Nel parco del Comando Generale dell’Arma, l’amministratore delegato di Fca ha appena tenuto il suo ultimo discorso pubblico, dove ha ricordato le sue origini e i valori dei militari che ancora tiene radicati in sé: "Mio padre era un maresciallo dei Carabinieri. Sono cresciuto con l’uniforme a bande rosse dell’Arma e ritrovo sempre i valori con cui sono cresciuto e che sono stati alla base della mia educazione: la serietà, l’onestà, il senso del dovere, la disciplina, lo spirito di servizio”.

Un discorso breve, un minuto appena, tenuto con il maglioncino blu che lo ha caratterizzato in questi anni al vertice di Fca, prima della consegna dell’auto. Poi però Marchionne, entrato nel 2003 nel consiglio di amministrazione di Fiat prima di diventarne amministratore delegato, un anno dopo, a qualche mese dalla scomparsa di Umberto Agnelli, si trattiene con i cronisti.

Una giornalista gli chiede. “Perché non sei preoccupato per i dazi di Trump?”. L’ad di Fca risponde sorridendo: “Io mi preoccupo di tutto, anche di te”, dice accarezzandole la testa. La voce è affaticata. “Però non è la fine del mondo. È un problema, ma va gestito. Bisogna avere chiarezza delle scelte da fare. Ma tutto è gestibile”.

"Politicamente capisco Trump. Ci sono delle anomalie nel commercio globale"
L'ad sembra affaticato, ma continua e a chi gli chiede come mai non si senta di condannare le scelte protezionistiche di Trump, replica: "Io capisco la posizione di Trump, politicamente la capisco. Credo che bisogna correggere delle anomalie negli scambi commerciali che esistono a livello internazionale. E lui ha un approccio estremamente diretto nel cercare di correggerle. L’estetica del processo impaurisce, perché Trump è molto immediato. Ma credo che l’obiettivo sarà un altro: credo che si creerà una base su cui ristabilire un nuovo equilibrio, sicuramente diverso da quello di adesso".

È stato Marchionne a portare la Fiat a conquistare il mercato americano, dove ogni anno vengono comprate circa 18 milioni di auto. Prima ha acquistato il 35% di Chrysler nel 2009, poi nel 2014 sale al 100% portando alla fusione delle due aziende. Fca nascerà come il settimo produttore mondiale di auto, con in pancia marchi del calibro di Ferrari, Alfa Romeo, Jeep, Ram, Dodge. Cambiando radicalmente 115 anni di storia del marchio Torinese, ha lasciato intendere di vedere in Donald Trump, al netto delle sue uscite e dell’immediatezza delle sue azioni, un po’ lo spirito del tempo. Una reazione a qualcosa nella globalizzazione dei commerci che va corretto.

"Ogni stato ha un flusso di vetture a sé, sbagliato parlare di Europa"
Ma ha ricordato ancora che nel caso dei rapporti commerciali tra Paesi europei e gli Usa, spesso si fa confusione: ”L’Italia, come membro della comunità europea, e la Francia, in particolare, verso gli Usa hanno un flusso di vetture completamente diverso dalla Germania verso gli Stati Uniti. Quindi parlare di Europa in un senso collettivo è sbagliato. Bisogna stare molto attenti a vedere che tipo di accordi verranno stabiliti tra gli Stati Uniti e i Paesi europei".

Sabato 21 luglio chiuderà la sua era come amministratore delegato di Fca dopo il consiglio di amministrazione d’urgenza convocato nel pomeriggio al Lingotto, nello storico quartier generale di via Nizza 250. Quattro i possibili successori. La versione ufficiale è che Sergio Marchionne, 66 anni, abruzzese di origine, ma cresciuto in Canada, ha subito un intervento alla spalla a inizio luglio. Da allora non è trapelato più nulla sulle sue condizioni fisiche. E la sua uscita romana dello scorso giugno rimarrà la sua ultima da amministratore delegato della Fiat dopo 14 anni al comando dell’azienda. E il suo ultimo messaggio.

Se avete correzioni, suggerimenti o commenti scrivete a dir@agi.it

Da - https://www.agi.it/economia/sergio_marchionne_fca-4183848/news/2018-07-21/
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 23, 2018, 12:53:34 pm »

E Marchionne mi disse: «Se il ceto medio finisce, chi comprerà la Panda?»

I maglioni («non blu, neri!»), i gamberoni, lo spot della Cinquecento («il coglione sono io»), la convinzione che il capitalismo finanziario fosse al capolinea e la lezione di Barenboim: non sono io a suonare, ma i musicisti a trasformare i miei gesti in musica

  Di Massimo Gramellini

Non capendo un tubo di automobili, figuriamoci di economia e finanza, l’unico titolo che ho per parlare dell’era Marchionne alla Fiat è di raccontare gli sporadici incontri che ho avuto con lui durante gli anni in cui ho lavorato a Torino per «La Stampa».

Nel 2007, non so perché, mi fu chiesto un parere sul «numero zero» di uno spot per il lancio della Cinquecento. Azzardai alcune osservazioni, ignorando che lo avesse confezionato il capo in persona. Qualche giorno dopo ricevetti una telefonata da un numero sconosciuto: «Appena mi hanno riferito le sue idee, ho pensato che lei fosse un coglione. Ma le ho fatto testare sul pubblico e pare che piacciano. Quindi il coglione sono io». E mise giù, senza dire grazie o buonasera, nemmeno il suo nome.

L’impatto dal vivo avvenne nei saloni austeri del Lingotto, dove lui e l’allora direttore di Fiat Auto, Luca De Meo, si divertivano a tirarsi addosso i pacchetti di sigarette da una parte all’altra del tavolo delle riunioni. La mia prima domanda fu banale: «Come mai indossa sempre un maglione blu?» La sua prima risposta, letale: «Come mai non va dall’oculista? Il mio maglione non è blu, è nero». Con uno scudetto tricolore cucito all’altezza del cuore. Ciò che subito mi colpì di quell’uomo che parlava in italiano come uno straniero era la retorica patriottica, tipica di chi guardava e amava il suo Paese da lontano. Ogni volta che il discorso inciampava sull’Italia, uscivano fuori il figlio del carabiniere e l’emigrato precoce: si toglieva gli occhiali e li puliva freneticamente contro la manica del maglione (nero). Il suo modo per scaricare la commozione. Per svuotare i nervi, invece, mi spiegò che non c’era nulla di meglio, potendoselo permettere, che salire su una Ferrari e farsi qualche giro del circuito di Fiorano a velocità forsennata.

All’epoca pensavo ancora che fosse un italiano atipico, ma ero condizionato dal suo imbarazzo per le guasconate arci-italiane del premier Berlusconi. Mi disse che se ne vergognava a tal punto da avere cominciato a usare il secondo passaporto, quello canadese, però sembrava una boutade per strappare una risata di complicità: non lo avrebbe mai fatto, credo. Mi raccontò di quando era stato convocato a palazzo Chigi insieme con il gotha dell’economia italiana, ma che, dopo mezz’ora di barzellette di quell’altro, si era alzato dicendo che doveva andare a lavorare, lui.

Mi costruii l’immagine di un Marchionne quacchero e moralista. Come mi sbagliavo. Sotto quel maglione nero, già allora covava italianità allo stato puro, un talento innato per l’improvvisazione anche cinica, ma sempre spiazzante. Quando il capo della General Motors era venuto a bussare a quattrini con arie da padrone, lui gli aveva parlato per un giorno intero di quanto orribili fossero i suoi conti. Non quelli della Fiat, ma quelli della General Motors, che si era studiato durante la notte. Non solo non gli aveva restituito il miliardo e mezzo di dollari che gli doveva, ma lo aveva convinto a farsene dare uno supplementare per levarselo dai piedi.

Il 4 luglio 2007, giorno del lancio della Cinquecento con un cerimonia sul Po, rimarrà per sempre uno dei più belli della sua carriera. Aveva appena detto che la competitività non andava perseguita abbassando gli stipendi degli operai e la gente lo applaudiva per la strada. Il mito di salvatore della Fiat si nutriva di episodi leggendari, come quello della sua nomina, quando l’elicottero di Marchionne era atterrato sul terrazzo del Lingotto proprio mentre quello di Morchio, il predecessore appena licenziato, si alzava in volo: una scena da Apocalipse Now. In quei giorni si compiaceva della sua fama di duro. A Gianluigi Gabetti propose di assumere nella corrispondenza privata il soprannome di Ruthless. Spietato. Arrivarono a un compromesso: l’uno si sarebbe firmato Ruth e l’altro Less. Ignoro se avesse dato un soprannome anche a John Elkann, ma ne ha sempre parlato con stima e a ogni colloquio cambiava il tempo del verbo: «Il ragazzo crescerà… sta crescendo… è cresciuto. È in gamba, ha imparato in fretta».

Quando la crisi economica appannò la sua popolarità, non riuscì a farsene una ragione. Un giorno mi chiamò nel suo ufficio al Lingotto, dominato dal quadro di un artista newyorchese inneggiante alla Competitività, e mi chiese a bruciapelo: «Perché Landini sta più simpatico alla gente di me?» Crozza aveva appena fatto la sua imitazione, ma lui non l’aveva ancora vista. Ebbi così il privilegio, si fa per dire, di mostrargliela sul suo Mac. Mentre il Marchionne di Crozza diceva: «Noi apriamo le concessionarie solo di notte, così se sei una donna incinta e ti svegli con una voglia improvvisa di Fiat…», il Marchionne vero esplose a ridere come un ragazzino. «Ma parlo veramente così?», mi chiese, con la voce di Crozza.

Di lui mi ha sempre intrigato la contraddizione tra l’istinto da manager spietato e la convinzione che il capitalismo finanziario, di cui in questi anni è stato uno dei maggiori interpreti, fosse giunto al capolinea. L’istinto del predatore mi apparve chiaro durante un pranzo a base di gamberoni. Me ne era rimasto uno solo nel piatto, quando mi alzai per rispondere a una telefonata. Feci un gesto con la mano che voleva dire «un attimo», ma lui forse equivocò e la sua forchetta si abbatté fulminea come la zampa di un ghepardo sul gamberone superstite. Le perplessità sul sistema economico, che pure lo aveva reso ricco, le espresse nel corso di una conversazione avvenuta nel suo ufficio torinese, un paio di anni fa, alla vigilia di Natale. Mi disse di essersi ritrovato, durante un convegno negli Stati Uniti, a parlare a una platea di finanzieri assetati di sempre maggiori profitti a scapito dei lavoratori. E di avere pensato, mentre li guardava negli occhi, che prima o poi l’avidità li avrebbe distrutti.

Mi spiegò il paradosso di un sistema dove il lavoratore e il consumatore sono la stessa persona: impoverendosi il primo, scompare il secondo. «Qualche emiro che compra una Ferrari lo troverò sempre. Ma se il ceto medio finisce in miseria, chi mi comprerà le Panda?». Gli dissi che era pronto per buttarsi in politica, ma ci rise su, raccontando di quando, anni prima, era stato a trovare Monti a palazzo Chigi e l’allora premier gli aveva indicato scherzosamente la sua poltrona: «La sto scaldando per te». Forse avrebbe potuto fare politica solo in America, dove era meno coinvolto emotivamente, se il suo grande amico Joe Biden, il vice di Obama, si fosse candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Nei suoi sogni, più che capopopolo, si è sempre visto direttore d’orchestra.

Una volta volle mostrarmi a tutti i costi la registrazione di una puntata di «Otto e Mezzo» con l’intervista di Lilli Gruber al maestro Barenboim: «Non sono io a suonare, ma i musicisti a trasformare i miei gesti in musica».


22 luglio 2018 (modifica il 22 luglio 2018 | 06:48)
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 23, 2018, 01:38:19 pm »

Intervista

Il manager globale dell’auto che ha ridefinito uno stile

I quattordici anni di Sergio Marchionne in Fiat. I nove in Chrysler.
Anni di confronto costante e duro, vitale e feroce con la morte e con la vita. Essere o non essere. Questo il problema. Essere o non essere come impresa e come comunità.
In Italia e negli Stati Uniti.
Il 2004 del suo arrivo a Torino. Un’altra epoca. Un altro mondo. Il 2009 dell’acquisizione di Chrysler. Ancora un’altra epoca. Un altro mondo. Il 2018.
Di nuovo un’altra epoca. Un altro mondo.

La Fiat del 2004 è semifallita. Sergio Marchionne viene scelto sul letto di morte da Umberto Agnelli, che lo indica a Gianluigi Gabetti. La Chrysler del 2009 è fallita. Lui convince Barack Obama ad affidargli le spoglie della più piccola delle Big Three, prospettandogli che le tecnologie pulite e a basso consumo dei motori italiani potrebbero essere coerenti con la sua politica industriale e ambientale verde.
Dalla unione di Fiat e di Chrysler Marchionne – uno dei rari casi nel capitalismo internazionale di manager fattosi imprenditore con la creazione di qualcosa che prima non esisteva – ha generato la Fca. Non un corpo perfetto e autonomo. Ma un corpo unico e articolato, in cui il marchio globale di Jeep è il perno dell’intero edificio che, nel 2017, ha sviluppato ricavi per 111 miliardi di euro.
Ci sono immagini e situazioni che incarnano più di altre quattordici anni di vita personale e di vita di impresa che hanno una dimensione industriale e finanziaria, umana e letteraria. Prima immagine: Pizzeria Cristina, Corso Palermo, la pizza con il cornicione alto, lui seduto a chiacchierare fitto con il sindaco Sergio Chiamparino e, quando non c’è lui, a mangiare con i ragazzi della scorta. In una città silenziosa e aristocratica, tendenzialmente ostile e naturalmente giudicatrice come Torino il «dottore» diventa subito uno del popolo. I torinesi, che sono abituati agli atteggiamenti regali e patrizi della dirigenza della Fiat vecchio stampo ormai drammaticamente in disarmo, hanno un sussulto di stima – prima ancora che di simpatia – quando si sparge la voce che Marchionne un sabato mattina si è presentato in incognito nella concessionaria di Corso Giulio Cesare, ha atteso a lungo l’impiegato, è stato trattato da questi con sufficienza, è tornato al Lingotto e lo ha fatto licenziare. È il periodo in cui la sinistra si innamora di lui, piacciono le sue aperture socialdemocratiche che, in realtà, sono più esperienza e natura personale del figlio della Toronto degli immigrati italiani che non pensiero e riflessione politica. Piacciono la passione con cui passa le ore nelle fabbriche italiane, semiabbandonate e male tenute. Nel tempo, questo amore non sarà più corrisposto.
Seconda immagine: un giorno di primavera del 2010, poco tempo dopo l’acquisizione di Chrysler, stabilimento di Toledo, Ohio, la città e l’impianto della Jeep, una comunità così Midwest che ogni ultimo venerdì del mese, fin dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, tutti gli operai indossano una maglietta bianca per salutare i compatrioti che, ogni ultimo venerdì del mese, tornano in licenza dalle guerre. Marchionne raduna tutti gli operai e i membri della Local 12 dello Uaw, lo United Auto Workers così essenziale nell’opera di risanamento e di rivitalizzazione delle pessime fabbriche statunitensi, ed elenca gli obiettivi di produzione da raggiungere. Tutti in silenzio. E, poi, l’esplosione da Super Bowl. L’applauso di tutti si fa tifo da stadio. Impressionante, nel racconto di chi c’era. È anche qui che nasce l’identificazione di Marchionne con le molte anime dell’America, gli All American Boys repubblicani del Michigan e dell’Ohio e i democratici di Chicago come Barack Obama, gli intellettuali delle università di Boston e di San Francisco che apprezzano la sua distanza dallo standard delle loro business school e gli outsider a metà fra il popolo e le élite come Donald Trump.
Terza immagine: 22 giugno 2010, referendum sull’accordo aziendale a Pomigliano d’Arco. Il primo vero passaggio al conflitto in Italia. La convinzione che, ad un gruppo globale, serva una uniformità di contratto aziendale. L’abbrivio verso la disintermediazione dei corpi intermedi che porterà allo scontro con il sindacato – in particolare con la Fiom Cgil – ma che condurrà anche, nell’ottobre del 2011, all’uscita da Confindustria. La maggiore efficienza negli stabilimenti, secondo Marchionne, è essenziale per realizzare “Fabbrica Italia”, il progetto di investimenti presentato nell'aprile del 2010. “Fabbrica Italia” non si farà mai. Ma avrà nel 2014 una sua rimodulazione, con la presentazione del polo del lusso, l’idea che Maserati e Alfa Romeo possano diventare il perno della produzione italiana, con uno sviluppo in grado di trasformare il nostro paesaggio industriale. Un bel progetto, realizzato solo in parte. I volumi prospettati – soprattutto per Alfa Romeo – non vengono mai raggiunti. L’Italia pesa per non più di un decimo per addetti e fatturato sugli equilibri di un gruppo globale. Marchionne è un manager globale. Dunque, nelle scelte compiute nel giorno dopo giorno, si comporta come tale. Anche se è lui stesso a ricordare che gli analisti spesso gli chiedono perché, contro ogni convenienza economica, mantenga aperti cinque stabilimenti in Italia.
Quarta immagine: 29 aprile 2015, New York, incontro con gli analisti, Marchionne presenta le slide intitolate “Confessions of a Capital Junkie”, le confessioni di un drogato di capitale. È il vero passaggio iniziale dell’ultima partita che non trova il suo esito finale pieno e compiuto. Il ragionamento è semplice: l’industria dell’auto brucia troppi capitali, le case automobilistiche duplicano gli investimenti. Marchionne propone il modello teorico – la tendenza all’astrazione in lui precede l’abilità nei negoziati e nella capacità di fare finanza di impresa e di realizzare finanza straordinaria – delle fusioni fra produttori. Marchionne progetta una fusione con General Motors. Sarebbe la chiusura del cerchio. Non gli riesce. Non ce la fa. Il management di GM è contrario. Wall Street non si fa convincere. L’establishment di Detroit è contrario. Quello di Washington anche. Il cerchio non si chiude.
Quinta immagine: 1 giugno 2018, Balocco, Italia. Presentazione del nuovo piano industriale. Le fusioni non ci sono state. Marchionne ha lavorato sul debt free. Fca ha adesso una posizione finanziaria netta positiva. La stessa condizione dei concorrenti che, però, non hanno dovuto lottare con una genesi storica critica al limite del cimiteriale. Lui si è messo la cravatta, che però quasi non si vede. Si vede, invece, che ha l’aria stanca.

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