Admin
Utente non iscritto
|
|
« inserito:: Dicembre 07, 2009, 03:43:51 pm » |
|
L'anniversario
Piazza Fontana 40 anni dopo
Una strage da riscrivere dalla parte delle vittime
MILANO - Se pensate che «strategia della tensione », per chi ha meno di quarant’anni, non sia ormai che un vecchio slogan troppo oscuro da capire provate solo — per un minuto — a far più buio ancora. Ditegli solo di chiudere gli occhi e ascoltare questa voce. «Era metà pomeriggio, stavo tornando a casa e mi sono fermato a far benzina. In effetti l’ho saputo da lui, dal benzinaio: 'Ha sentito? Hanno messo una bomba alla Bna di Piazza Fontana'. E come un lampo mi è venuto in mente che mio padre era là. Trattava lubrificanti per macchine agricole, quel giorno c’era il mercato. Ho girato la macchina e sono corso. Al cordone di polizia ho spiegato, mi hanno fatto passare. E così ho visto i primi morti. Ma lui non c’era. Neanche tra i vivi lì attorno però. A casa neppure. Ho pensato: disperso in giro? In ospedale? Ma quale? Allora sono andato in questura, per chiedere. E ci ho trovato mio fratello Giorgio, arrivato lì per lo stesso motivo. Ci hanno mostrato un elenco di nomi: niente. Stavo quasi per tirare il fiato. Finché invece un funzionario ci ha detto che 'in realtà abbiamo un morto non ancora identificato'. Ci ha accompagnato in obitorio. Hanno sollevato un lenzuolo. Sotto c’era papà». Si chiamava Carlo Silva e aveva 71 anni, dice oggi suo figlio Paolo. Per sbrogliare una parola come «strategia» possono anche non bastare dieci processi e otto lustri. Ma «tensione», se si va alla sua essenza, è un concetto drammaticamente semplice.
Quarant’anni sono lunghi. Ma i familiari dei sedici che la bomba di piazza Fontana si portò via il 12 dicembre 1969 — diciassette con Paolo Gerli, morto anni dopo per i postumi — sono forse l’unico pezzetto d’Italia che non ha mai smesso di contarli. «Quando si dice che per quella strage non è stato condannato nessuno — Paolo e Franca Dendena quel giorno persero il padre Pietro — si dimentica che questo è oggettivamente vero solo per metà: noi la nostra condanna la stiamo scontando da allora. E direi che ci hanno dato l’ergastolo, no?». Con tutti gli annessi, di fatto: l’ultima sentenza della Cassazione, quella che nel 2005 prosciolse definitivamente tutti gli altri , per gli automatismi della legge inflisse alle vittime anche il pagamento delle proprie spese processuali. Ci mise una pezza il governo, facendosene carico con un atto di «generosità» perché dello Stato si salvasse almeno la faccia. Franca è quella che presiede l’Associazione dei familiari, formalmente costituitasi per piazza Fontana solo pochi mesi fa: «Prima facevamo parte di quella che raccoglie tutte le vittime delle Stragi italiane». E del resto ciascuno convive col suo lutto a modo proprio: le famiglie dell’Associazione sono una decina; di alcune altre, come quella di Attilio Valè, non esistono più parenti; altri, un po’ alla volta, hanno preferito ritirarsi e sparire. Vale anche per quegli 80 e passa feriti, che il bilancio della memoria omette spesso di calcolare: come i fratelli Enrico e Patrizia Pizzamiglio, allora poco più che bambini (lui perse una gamba), che da anni gestiscono in silenzio la loro edicola a Milano e a cui tornare a quel 12 dicembre provoca solo la riapertura della ferita. «La storia è lì. Non tocca a noi parlare », dicono. Carlo Arnoldi invece — suo padre Giovanni morì mentre trattava l’acquisto di un terreno per un amico — è tra quelli che del «raccontare per non dimenticare» hanno fatto il proprio scopo di vita: «Non ho mai perso una sola udienza in quarant’anni. Salvo quelle di Catanzaro: chissà se chi tolse il processo a Milano, allora, si pose il problema delle diciassette ore di treno che infliggeva a noi». Eppure c’è chi non rinunciò a inghiottirsi anche quelle.
Fortunato Zinni era là in banca anche lui, quel 12 dicembre. Come sempre allo sportello 15: era il suo posto di lavoro. In realtà non rimase né ucciso né ferito: oggi è sindaco di Bresso, nell’hinterland nord di Milano. Tuttavia lui e tanti altri come lui fanno parte di quell’altra categoria di «vittime» che le statistiche delle stragi non contano mai perché impossibile è contarli: sopravvissuti, testimoni, cittadini che «c’erano», e anche i tanti che non c’erano. Magari non vittime dirette della bomba: ma di quella oscura «strategia» loro sì, altroché. «Io ci sono stato diverse volte — dice Zinni — alle udienze di Catanzaro. Ricordo che dalla stazione all’aula delle udienze erano chilometri in salita, fuori città. E quelli come noi dovevano farsela a piedi perché i taxisti portavano solo i giornalisti: 'Clienti migliori di voi', dicevano». Quanta parte di opinione pubblica e per quanto tempo, continua Zinni, fu appunto «vittima» non della bomba ma di una «informazione che alla storia dei 'mostri anarchici' diede non solo credito ma spazio e appoggio?». «Io per esempio ero solo un ragazzo — dice Arnoldi — e all’inizio ci avevo creduto anche io, che a mettere la bomba fosse stato l’anarchico Valpreda. Finché non l’ho visto in faccia durante un’udienza, mi sembra nel ’72. Mi è sembrato solo un poverocristo. E solo a quel punto ho cominciato a chiedermi: possibile?». Diciassette vittime di una bomba, un’intera nazione di una bugia di Stato. Così l’elenco delle amarezze, come una maledizione, a volte risucchia anche i pochi squarci luminosi che pure ogni tanto si aprono. Per dire: oggi a mezzogiorno i parenti di quei morti incontreranno a Milano il presidente Napolitano, giusto? «Sì, e naturalmente lo ringrazieremo. Peccato solo che il 12, il giorno dell’anniversario, anche lui come gli altri non ci sarà». Anche ? «Infatti. Sembra incredibile: ma mai una volta in quarant’anni, mai, che un presidente della Repubblica sia venuto a Milano il giorno esatto della Strage. Bizzarro, no?».
Dettagli, naturalmente. Ma per chi sulla «memoria» ha cercato di ricostruirsi la vita hanno un peso. Il punto è che loro non si arrendono, anzi. «Perché se è vero che la magistratura — ricorda Arnoldi — non è riuscita a condannare nessuno ci ha tuttavia dato una verità storica certa: con fatti, nomi e cognomi. Le sentenze ci hanno comunque detto che in Italia c’è stato un gruppo neofascista che, con la copertura di un pezzo di Stato, un giorno ha fatto una strage per far ricadere la colpa su gente che non c’entrava, e giustificare così una repressione di destra. Questa è storia. E il nostro compito è trasmetterla a chi non la sa». Lo fanno da anni, nelle scuole: è la loro nuova «tensione», rovesciata sul futuro. «Quando arriviamo e chiediamo ai ragazzi cosa sanno di piazza Fontana — dice Paolo Dendena — molti la collegano alle Brigate rosse. Allora noi gli raccontiamo. E ogni volta non smetterebbero più di chiedere ». Sua figlia Federica, la terza generazione del dopo-bomba, si sta laureando in Giurisprudenza alla Cattolica. Il titolo della sua tesi è «Piazza Fontana 40 anni dopo. Analisi della sentenza finale di Cassazione». Dice: «Adesso tocca a noi. Perché quarant’anni è un sacco di tempo. E se non ci muoviamo noi chi testimonierà per i testimoni, quando loro non ci saranno più?».
Paolo Foschini
07 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
|