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Autore Discussione: Enrico MARRO -  (Letto 37013 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Novembre 26, 2016, 09:14:44 pm »

Quanto rischi di diventare povero?

Di Enrico Marro 24 novembre 2016

Quali sono i “fattori di rischio” che possono portare alla povertà? È una delle domande che si pone il nuovo Global Wealth Report di Credit Suisse, settima edizione dello studio che ogni anno analizza la ricchezza di 4,8 miliardi di persone adulte in più di 200 Paesi del mondo. La novità del 2016 è che la corposa analisi della banca svizzera si sofferma anche sui poveri, l’ampia e sfortunata base della “piramide della ricchezza”, ossia gli adulti che possiedono meno di 10mila dollari. Si tratta di oltre tre miliardi e mezzo di persone, pari quasi a tre quarti della popolazione mondiale. Non pochi.

In Italia un minore su tre a rischio povertà
Ci sono tratti comuni a tutti i poveri del globo, spiega la ricerca di Credit Suisse, “fattori di rischio” che accomunano i diseredati di Europa, America e Asia. I più comuni sono tre: essere giovani, single e poco istruiti. «Nella maggior parte dei Paesi il più grande “rischio” è avere meno di 35 anni - si legge nello studio - fattore che aumenta la probabilità di povertà in media del 15%». Non sorprende, poiché gli under 35 si ritrovano all’inizio del loro ciclo di risparmio e accumulazione della ricchezza. «Ma di recente i giovani hanno anche dovuto far fronte a particolari difficoltà - continua l'analisi - per esempio una crescita sproporzionata della disoccupazione, sulla scia della crisi finanziaria globale». Una buon livello di istruzione aiuta i giovani a evitare il rischio povertà, ma non offre la garanzia completa di sfuggire dalla “base della piramide”.

Scendiamo in dettaglio nelle macroaree geografiche. Nell’Europa continentale a correre il maggior “rischio povertà” sono i giovani single di sesso maschile, disoccupati e con basso livello di istruzione, mentre nel Regno Unito la fascia più debole è costituita dalle giovani madri separate e con scarsa scolarizzazione. Vediamo invece i ricchi: nell’Europa meridionale il segmento più facoltoso è quello delle coppie over 65, in pensione e con livelli di istruzione superiore.

Un’altra caratteristica della “base della piramide” è quella di essere pesantemente indebitata. In Europa, in particolare, a pesare sui budget dei meno abbienti sono i mutui immobiliari, mentre negli Stati Uniti a questi si aggiunge il peso non indifferente dei prestiti contratti per coprire i costi dell’istruzione superiore.

I super ricchi hanno sempre di più
Se consideriamo la sola Italia, poi, scopriamo che nel 2016 la ricchezza media netta per italiano adulto è scesa rispetto all’anno precedente dell’1,1%, a quota 202.288 dollari a persona. A cambi costanti la diminuzione è stata di circa lo 0,8%. Il calo della ricchezza in Italia è stato guidato prevalentemente dalla diminuzione della ricchezza mobiliare, scesa del 6,1% per adulto nel periodo 2015/2016 a cambi correnti e del 5,8% a cambi costanti. La capitalizzazione dei mercati infatti, secondo l’analisi del Credit Suisse, si è tendenzialmente ridotta di circa il 10% in Francia e Germania, mentre Italia e Regno Unito hanno avuto una performance ancora peggiore.

© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-11-23/quanto-rischi-diventare-povero-181720.shtml?uuid=ADb7bc0B
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« Risposta #61 inserito:: Novembre 30, 2016, 08:57:28 pm »

Identità digitali
Cinque passaggi per cancellare ogni traccia di te su internet

Di Enrico Marro 30 novembre 2016

A fronte dei miliardi di esseri umani che vogliono essere presenti su internet, e dei milioni che vorrebbero “correggere” la loro immagine digitale, non è raro trovare qualcuno che dal world wide web vuole semplicemente scomparire. Per varie ragioni, più o meno nobili. Non è un caso che si stiano affermando piattaforme digitali, studi legali e agenzie di comunicazione che sono specializzate proprio in questo: la cancellazione di ogni traccia del cliente in Rete. Senza più profili social, immagini, video, pubblicazioni, citazioni, caselle e-mail. Nulla.

Qualche mese fa furono i Radiohead a provare l’ebbrezza di scomparire dal web. Proprio alla vigilia del lancio dell’atteso nono album della band britannica, all’improvviso l’account ufficiale Twitter diventò muto, seguito a ruota da quello Facebook (con i suoi 12 milioni di “like” caduti nel nulla), e dal sito radiohead.com, diventato a sua volta una pagina vuota. Per la prima volta nella storia del web, una grande rock band aveva provato a “suicidarsi” su internet.

Ma è davvero possibile scomparire dal web? «In teoria sì - spiega uno studio legale specializzato di Londra - ma non è qualcosa che si riesce a fare in fretta, soprattutto nel caso dei personaggi pubblici». Possono essere necessari mesi di duro lavoro e tenaci negoziazioni per cancellare migliaia di immagini, facendo leva ora sul copyright, ora sulla privacy, ora sul diritto all’oblio. «In alcuni casi abbiamo lavorato anche un anno per cancellare singoli clienti dal web».

È facile sparire dal web per chi non è stato un personaggio pubblico? Diciamo che è meno difficile, ma comunque arduo, in particolare se si desidera una cancellazione il più possibile completa. I passaggi principali sono cinque. Vediamoli uno alla volta.

Facebook sospende la condivisione di dati con WhatsApp. Ecco che cosa cambia per gli utenti

1. Cancellarsi dai social network. Il primo passo è abbastanza semplice: basta seguire le istruzioni dei diversi social per cancellarsi (Facebook, Twitter, Linkedin, G+ e così via). Attenzione alla differenza che c’è - per esempio su Facebook - tra “disattivare” ed “eliminare” un account, poiché nel primo caso il diario scompare ma solo perché “congelato”, ed è riattivabile in ogni momento. Quando viene eliminato l’account, l’azzeramento di tutti i contenuti pubblicati - come foto, aggiornamenti di stato o altri dati memorizzati sui sistemi di backup - richiede fino a 90 giorni di tempo. Nell’eliminazione dell’account G+, attenzione a non cancellare l’eventuale casella Gmail (la posta elettronica è infatti l’ultima da eliminare nel processo di addio al web).

2. Cancellarsi da tutto il resto. Dopo i social, bisogna procedere all’eliminazione del proprio profilo da tutti gli altri “contenitori” dov’è finito: forum, Paypal, Amazon, eBay, Skype, YouTube, eventuali siti di dating, gambling, e-commerce e così via. Può non essere così semplice, perché i dati personali sono un asset che vale denaro per le società che operano su internet.

3. Individuare foto, video e citazioni. Qui il lavoro diventa più difficile. Bisogna infatti fare una ricerca approfondita su tutti i motori di ricerca conosciuti (non solo Google) di ogni informazione su di voi, provando diverse stringhe: non solo nome e cognome, ma anche luoghi di nascita e di residenza, aziende in cui avete lavorato e così via. Bisogna poi prendere nota di tutto in vista del quarto, difficilissimo passo.

Caccia ai pirati digitali che hanno attaccato Twitter, eBay e Netflix. L'ombra di Wikileaks

4. Chiedere l’eliminazione dei dati. Ora viene il difficile: bisogna contattare ogni singola società, webmaster, ente o blogger chiedendo la rimozione di tutti i dati su di voi. Molti di loro ignoreranno la vostra richiesta, rendendo necessaria l’adozione di vie legali, particolarmente complesse perché spesso ricadono sotto giurisdizioni di altri Paesi. In casi estremi, si può chiedere di intervenire direttamente sui server. Poi bisogna farsi cancellare dalle banche dati che raccolgono informazioni personali per rivenderle a scopo di marketing, in questo caso magari con l’aiuto - a pagamento - di società specializzate (per esempio DeleteMe). Per i più pignoli, c’è anche la complicata richiesta di cancellazione da Wayback Machine, il colossale archivio di internet, che raccoglie trilioni di pagine web.

5. Il tocco finale è l’addio alla mail. Se siete arrivati fino a questo punto, siete stati molto bravi e soprattutto tenaci. Manca solo un passo per scomparire dal mondo digitale: la cancellazione della casella e-mail. Praticamente una passeggiata, rispetto al lavoro fatto. Il premio finale è il perfetto anonimato in Rete, e la cancellazione della propria identità digitale (almeno quella vecchia). A questo punto potete fare due cose: o costruirvi un’identità internet nuova di zecca, oppure spegnere il computer. E andare a fare una lunga passeggiata fuori.

© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2016-11-29/cinque-passaggi-cancellare-ogni-traccia-te-internet-183516.shtml?uuid=ADV7vC4B
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« Risposta #62 inserito:: Gennaio 12, 2017, 12:31:28 pm »

Voucher e appalti, due referendum ad alto contenuto politico
La Cgil punta a rimettere in discussione la linea della flessibilità seguita finora

Di Enrico Marro

Dopo la sentenza della Corte Costituzionale si dovrebbe votare su due dei tre referendum abrogativi proposti dalla Cgil (l’articolo 18 non è stato ammesso): quello sui voucher e quello sugli appalti. Il voto dovrebbe tenersi, secondo la data che sceglierà il governo, tra il 15 aprile e il 15 giugno.

Il voto sui voucher
Col primo quesito ritenuto ammissibile dai giudici della Consulta il sindacato guidato da Susanna Camusso propone di cancellare del tutto i buoni lavoro istituiti dalla legge Biagi nel 2003. I cosiddetti voucher che, nati per retribuire i lavoretti occasionali (ripetizioni scolastiche, giardinaggio, pulizie, faccende di casa, eccetera) svolti da casalinghe, studenti e pensionati (fino a un massimo di 5mila euro di compensi all’anno) sono stati via via liberalizzati (è stata tolta dalla legge la legge dicitura «di natura meramente occasionale») e oggi possono essere usati per remunerare qualsiasi attività entro un tetto di 7mila euro l’anno per lavoratore. All’inizio i voucher impiegavano qualche decina di migliaia di persone l’anno, nel 2006 si era saliti a 617 mila e nel 2015 si è arrivati a quasi 1,4 milioni di lavoratori coinvolti.

La tracciabilità dei buoni
Il governo Renzi, per limitare gli abusi e gli usi illegittimi dei buoni (tirati fuori, per esempio, solo dopo un infortunio mortale per evitare all’azienda responsabilità penali) ha stabilito la tracciabilità telematica degli stessi: il datore di lavoro deve indicare, nelle 24 ore precedenti l’uso del voucher, il destinatario e la durata della prestazione di lavoro che verrà retribuita con il buono (ognuno dei quali del valore di 10 euro lordi, 7,5 netti, che dovrebbe in teoria remunerare un’ora di lavoro). Ora il referendum propone l’abolizione dell’istituto. Il governo Gentiloni ha già annunciato la volontà di intervenire con legge restringendo il campo di applicazione dei voucher (alcuni settori a rischio come l’edilizia potrebbero essere esclusi) e abbassando tetto di retribuzione annua. Obiettivo: evitare il referendum. Alla Camera la commissione Lavoro guidata da Cesare Damiano (Pd) sta esaminando proposte di legge che mirano a riportare i voucher alla loro versione iniziale. In ogni caso, se ci sarà una nuova legge, sarà la corte di Cassazione a decidere se essa è sufficiente a evitare il referendum.

La responsabilità nei subappalti
Col secondo referendum ammesso dalla Corte Costituzionale la Cgil propone di escludere che un contratto nazionale di lavoro possa derogare al regime di responsabilità solidale negli appalti tra la società che ha ricevuto la commessa e quella cui l’opera viene eventualmente subappaltata. Più in generale, il quesito propone di abrogare la legge nella parte in cui attenua la responsabilità oggettiva in capo all’azienda madre, per esempio nel rispetto dei diritti retributivi e contributivi dei lavoratori dell’azienda in subappalto.

I risvolti politici
Al di là della portata dei due quesiti sul mondo del lavoro (forse maggiore quella sugli appalti che sui voucher) è evidente il significato politico di questi referendum. Una vittoria dei sì indicherebbe la volontà dell’elettorato di dare discontinuità rispetto alla linea della flessibilità seguita finora dal legislatore. Per questo si annuncia una battaglia politica aspra. Va ricordato, infine, che, in caso di voto, il risultato sarà valido solo se sarà stato raggiunto il quorum, dovrà cioè aver votato il 50% +1 degli aventi diritto.

11 gennaio 2017 (modifica il 11 gennaio 2017 | 16:42)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/17_gennaio_11/voucher-appalti-due-referendum-ad-alto-contenuto-politico-a5917916-d80f-11e6-9dfa-46bea8378d9f.shtml
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« Risposta #63 inserito:: Marzo 20, 2017, 10:51:26 am »

Quattro motivi per non temere troppo le euroelezioni

    –di Enrico Marro 16 marzo 2017

Alcuni hedge funds statunitensi particolarmente acuti l’hanno capito da tempo, investendo di conseguenza. Il rischio politico europeo è probabilmente sovrastimato dai prudenti euromercati almeno quanto i futuri miracoli di Trump lo sono dalla spumeggiante Wall Street. Proviamo allora a lasciare per un attimo da parte Marine Le Pen, la destra xenofoba olandese e le banche venete. Guardiamo per una volta solo i fondamentali, come suggerisce una recente analisi di Credit Suisse dal titolo inequivocabile (Don’t forget the fundamentals!). Vediamo.

Fatturati in crescita. Da sempre esiste una stretta correlazione fra l’indice Pmi composite (relativo all’attività manifatturiera e tratto dal consensus dei direttori acquisti) e il valore aggiunto, misura che ci dà un’idea dei ricavi. E' un fatto che dal 2016 il Pmi composite dell’eurozona stia di nuovo puntando verso l’alto, in direzione dei livelli raggiunti nel 2004-2006.

Mercato del lavoro in ripresa. Secondo l’analisi del Credit Suisse non solo l’occupazione dell’eurozona è in crescita (non stiamo parlando in specifico dell’Italia), ma gli stipendi resteranno al palo. Questo perché nell’area euro esiste un curioso fenomeno: il costo per unità di lavoro tende a scendere quando l’economia recupera o accelera, spiegano gli analisti della banca svizzera. Tutto ciò si traduce in maggiori profitti aziendali.

    L’analisi 15 marzo 2017
Elezioni, banche e congiuntura: possibile la svolta per le Borse Ue
Bassi tassi d’interesse. A partire dal 2012, i vari bazooka di Mario Draghi (Omt, tassi negativi, Tltro e il Quantitative easing tuttora in corso) hanno fatto letteralmente crollare i costi di finanziamento aziendali. Difficile vederli scendere ancora, ma non sono nemmeno destinati a salire così in fretta: intanto la Bce ha confermato il mantenimento del suo Qe sino a fine anno, ma soprattutto - come nota ancora Credit Suisse - il ritmo di un eventuale rialzo dei costi del credito è destinato a essere “digerito” senza troppi problemi da aziende con profitti robusti.

Flussi di cassa da record. Robusti profitti si tradurranno in flussi di cassa ancor più generosi di quelli attuali, che già sfoggiano numeri da primato: se escludiamo il settore creditizio, l’anno scorso il surplus finanziario aziendale dell’euroarea ha toccato il 2% del Pil (livello mai visto almeno dal 1980). Finora solo una piccola parte di questa montagna di denaro è finita in investimenti o dividendi distribuiti agli azionisti, probabilmente perché molte aziende sono state impegnate nel leccarsi le ferite della crisi, riducendo la leva finanziaria e sistemando i bilanci. Ma secondo Credit Suisse anche questa è un’anomalia destinata a scomparire: investimenti e dividendi torneranno presto a far parlare di sé. Dimostrando che la notizia della morte dell’Eurozona è fortemente esagerata.

© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2017-03-15/quattro-motivi-non-temere-troppo-euroelezioni-164743.shtml?uuid=AE8IzIn
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« Risposta #64 inserito:: Maggio 29, 2017, 08:50:15 pm »

STUDIO SHOCK

Borse: qualcuno sta manipolando «l’indice della paura»?

Di Enrico Marro 27 maggio 2017

E' freschissimo di stampa (porta la data del 23 maggio 2017), ma sta già facendo molto discutere. E' il documentato studio di due docenti di finanza dell’università del Texas, John Griffin e Amin Shams, il cui titolo è tutto un programma: Manipulation in the Vix?

Il Vix in questione, più celebre come “indice della paura”, è quello che misura la volatilità implicita di Wall Street attraverso le opzioni sul paniere S&P500. Se il Vix ha un valore alto, i mercati sono nervosi e probabilmente in fase correttiva; al contrario, quando il Vix è stabile su livelli bassi (come nelle scorse settimane) non si intravedono tensioni e le Borse salgono placide e tranquille.

MERCATI & MISTERI  06 maggio 2017
Il giallo di mister «50 Cent»: investe 120 milioni su un indice che non sale
L’indice Vix è quindi considerato un termometro molto importante degli umori di mercato dagli investitori di tutto il mondo, sia umani che algoritmici. Ora però i due studiosi statunitensi avanzano il dubbio che sia manipolato. Come è possibile?

La fase cruciale su cui si concentra l’attenzione di Griffin e Shams è quella di chiusura, nella quale viene calcolato il valore finale del Vix giornaliero, che è legato all’asta di chiusura delle opzioni sull’indice S&P500 (la cui volatilità implicita determina appunto le oscillazioni dell’“indice della paura”).

In quel momento i volumi delle opzioni scambiate schizzano in alto, ma stranamente solo per quelle del tipo out-of-the-money che vengono utilizzate nel calcolo del Vix. Questo trambusto sulle opzioni magicamente scompare dopo pochi minuti, quando il valore finale dell’“indice della paura” è stato ufficialmente calcolato.

INVESTIRE CON IL SOLE  30 agosto 2016
Come proteggersi dalle «montagne russe» dei mercati
Il boom di volatilità sulle opzioni porta a uno scostamento medio del Vix di 0,31 punti, a volte in alto e talvolta in basso. Cercando spiegazioni logiche al fenomeno, Griffin e Shams hanno pensato alle classiche frenetiche ricoperture di fine seduta, quando si chiudono le posizioni. Peccato che, secondo l’analisi dei due studiosi, la turbolenta compravendita finale di opzioni non serva a chiudere posizioni esistenti ma ad aggiungerne di nuove.

Ma se davvero c’è qualcuno che sta manipolando l’“indice della paura”, perché non agisce direttamente sui derivati? Per quale motivo non cerca di “muovere” il future sul Vix, anziché andare a manovrare in un giro contorto le opzioni sull’S&P500? Semplice: sarebbe estremamente costoso perché quelli dei future sono mercati molto liquidi.

Manipolare le opzioni sull’indice S&P500, in particolare quelle out-of-the-money che sono particolarmente illiquide, rappresenta al contrario un giro tortuoso ma molto economico. Grandi speculatori posizionati sui future sul Vix, suggeriscono Griffin e Shams, possono guadagnare un sacco di soldi manipolando il sottostante (l’indice Vix) attraverso gli strumenti che servono a calcolarlo: appunto le opzioni sullo S&P500, scegliendo quelle meno liquide e quindi più facilmente manovrabili.

In altre parole, secondo lo studio non è escluso che qualcuno investa un po’ di soldi per “muovere” le opzioni, in modo da muovere il Vix e lucrare denaro dai successivi spostamenti dei future sull’“indice della paura”, sensibili a ogni minima oscillazione del sottostante. E la memoria corre allo scandalo del tasso Libor, manipolato dalle grandi banche tra il 2005 e il 2009: se esistesse davvero, lo scandalo del Vix non sarebbe da meno.

© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2017-05-26/borse-qualcuno-sta-manipolando-l-indice-paura-161054.shtml?rlabs=1
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« Risposta #65 inserito:: Agosto 16, 2017, 04:13:48 pm »

La Corte costituzionale tedesca potrebbe cancellare il Qe di Draghi?

Di Enrico Marro
 16 agosto 2017

La Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe ha chiesto alla Corte di giustizia europea di pronunciarsi sulla legittimità del programma di quantitative easing, lanciato nel 2015 dalla Bce per sostenere l'inflazione nella zona euro. Che cosa significa tutto questo per il futuro del programma di Qe, avviato il 9 marzo 2015 e ridotto da 80 a 60 miliardi di volume mensile lo scorso aprile?

Schäuble sul Qe difende Draghi: quello della Bce è un «compito infernale»

Per cercare di capire cosa accadrà è illuminante un precedente: quello con cui nel 2013 la Corte di Karlsruhe chiese ai giudici del Lussemburgo di pronunciarsi sugli Omt, il cosiddetto “scudo antispread” annunciato nel 2012 da Draghi e mai utilizzato. Gli Omt (outright monetary transactions) dovevano permettere alla Bce di comprare in misura illimitata titoli dei Paesi in crisi che si impegnassero su un programma economico concordato con i partner europei. All’epoca, trentacinquemila tedeschi euroscettici contestarono la legittimità del programma Omt: tra loro c’era il cristiano-democratico bavarese Peter Gauweiler, dell’ala conservatrice del partito di Angela Merkel, ma anche la sinistra di Die Linke.

Anche nel 2013 i giudici di Karlsruhe rinviarono la questione alla Corte di giustizia europea, che doveva stabilire se gli acquisti di titoli ipotizzati dall’Omt andassero oltre il mandato istituzionale della Bce. I giudici del Lussemburgo nel giugno 2015 stabilirono che il programma varato nel settembre 2012 dalla Bce presentava sufficienti garanzie al fine di prevenire un uso «sproporzionato» dell’acquisto di bond che si sarebbe tradotto in una violazione delle regole Ue sull'istituto centrale.

La Corte di Karlsruhe - che si era riservata l’ultima parola sul programma, facendo temere un freno tedesco all’uso di strumenti non convenzionali dal parte della Bce - nel giugno 2016 dichiarò legittimo l’Omt respingendo il ricorso presentato dagli euroscettici tedeschi. Nella sentenza, arrivata pochi giorni prima del referendum inglese su Brexit, i giudici di Karlsruhe richiamarono i limiti posti dai colleghi dell’Unione europea, sottolineando che l’Omt non viola la legge fondamentale tedesca e che la Bundesbank potrà partecipare a un eventuale programma di Omt se saranno osservate le condizioni stabilite dalla Corte Ue.

Al netto di improbabili sorprese, la strada sembra dunque in teoria spianata verso un via libera (magari condizionato) sia della Corte Ue che di quella tedesca al Quantitative easing, poiché esiste un precedente eccellente nel quale venne autorizzato uno strumento non convenzionale di politica monetaria simile nella sostanza al Quantitative easing: l’Omt.

Peraltro la decisione potrebbe arrivare a Qe concluso: la pronuncia dei giudici del Lussemburgo è attesa tra più di un anno, quando probabilmente il buon andamento dell’economia dell’eurozona e la ripresa dell’inflazione avranno messo la parola fine alle misure straordinarie di politica monetaria decise dalla Bce.

© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2017-08-16/la-corte-costituzionale-tedesca-potrebbe-cancellare-qe-draghi-075955.shtml?uuid=AErEmUDC
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« Risposta #66 inserito:: Ottobre 05, 2017, 11:21:43 am »

PRONTA ANCHE LA RIFORMA TRUMP
Perché è scattata la corsa mondiale a tagliare le tasse alle imprese

Di Enrico Marro
  28 settembre 2017

Dal 1° gennaio 2017 l’Italia ha tagliato dal 27,5% al 24% l’Ires, l’imposta sul reddito delle società. Mentre in Gran Bretagna dal 1° aprile l’aliquota ordinaria sui redditi d’impresa è scesa dal 20% al 19%, con la prospettiva di scivolare al 17% nell’aprile del 2020. E ieri negli Stati Uniti l’amministrazione Trump ha annunciato una riforma fiscale il cui piatto forte è un drastico taglio della corporate tax, dal 35% al 20%. Non sono tre casi isolati: come attesta uno studio dell’Ocse, “Tax Policy Reforms in Oecd”, in tutto il mondo sviluppato è scattata una competizione a chi abbassa di più le tasse. L’obiettivo è chiaro: diventare attrattivi per le grandi multinazionali straniere, con una ricaduta positiva sulla crescita economica.

VERSO UN DIFFICILE ITER CONGRESSUALE  27 settembre 2017
Pronta la riforma fiscale di Trump, per le aziende aliquota al 20%
Secondo lo studio, l’aliquota media per le imprese nei Paesi Ocse, che superava quota 32% nel 2000, è progressivamente calata al 26% nel 2008 e al 25% nel 2015. I Paesi che hanno tagliato di più la corporate tax nel periodo 2000-2015 risultano essere Germania (21,9%), Canada (16,1%), Grecia (14%) e Turchia (13%), con soltanto Ungheria e Cile che hanno ritoccato verso l’alto le aliquote. Il gettito fiscale perduto è stato compensato dall’aumento di altre imposte, sottolinea lo studio, in particolare l’Iva, che nei Paesi Ocse è passata da un’aliquota media del 17,6% nel 2008 al 19,2% nel 2015.

Considerando il solo 2015, scopriamo che hanno ridotto il peso fiscale sulle società l’iperindebitato Giappone assieme a Spagna, Israele, Norvegia ed Estonia. Ma in Francia durante la campagna elettorale il presidente Emmanuel Macron ha promesso di ridurre la corporate tax dal 33,33% al 25% entro cinque anni, mentre anche in Germania si sta meditando un nuovo taglio dell’imposizione sulle imprese per non perdere competitività.

OLTRE IL CASO APPLE  31 agosto 2016
Italia al top nella giungla europea della corporate tax
Un caso di scuola resta quello dell’Irlanda. La famosa corporate tax al 12,5% che fin dall’inizio degli anni Duemila ha fatto la fortuna della Tigre Celtica si ritrovava, negli anni Ottanta, all’astronomico livello del 50%. Con un Pil cresciuto nel 2015 del 26,3% proprio grazie alle multinazionali che hanno spostato la loro sede nell’isola “fondendosi” con controparti irlandesi, Dublino è un ottimo esempio di come un’aggressiva detassazione possa far correre il prodotto interno lordo.

Invece gli Stati Uniti, con la loro corporate tax ferma al 35% dal lontano 1993, sembrano per ora i grandi sconfitti della gara a chi diventa fiscalmente più attrattivo. Attenzione però, perché in realtà i colossi americani versano in tasse molto meno di quanto si creda. Un recente studio dell’Institute on Taxation and Economic Policy, think thank indipendente con sede a Washington, ha preso in esame 258 aziende dell'indice Fortune 500 scoprendo che tra il 2008 e il 2015 hanno pagato il 21,2% di corporate tax anziché il 35%. Il tutto grazie ad agevolazioni fiscali che nel complesso hanno toccato i 513 miliardi di dollari, oltre la metà dei quali (277 miliardi) finiti alle 25 società più profittevoli tra quelle prese in esame.

Sempre tra il 2008 e il 2015 ben 18 di queste compagnie non risultano aver pagato un centesimo di tasse: tra loro secondo lo studio ci sono colossi del calibro di General Electric, International Paper, Priceline.com e PG&E. Alcune di queste società hanno addirittura ottenuto dei rimborsi dal fisco federale. E tutto questo senza considerare le tecniche di elusione offshore della grande famiglia “double Irish”, grazie alle quali la corporate America si stima abbia accumulato 2500 miliardi di dollari all’estero (patrimonio che Trump vorrebbe rimpatriare con un forfait fiscale “una tantum”).

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2017-09-27/perche-e-scattata-corsa-mondiale-tagliare-tasse-imprese-173511.shtml?uuid=AEbV6kaC
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