Incontri ravvicinati
Giorgio Albertazzi, novant'anni da seduttore
Ha incontrato il teatro per inseguire una ragazza. Il grande attore racconta una vita tutta scandita da presenze femminili. Nonostante un lungo bacio con Visconti
Di Stefania Rossini
A novant’anni compiuti Giorgio Albertazzi seduce ogni sera teatri strapieni che lo applaudono su repertori classici e indifferenti alle mode. Mestiere si dirà, di quelli che non si perdono con il passare del tempo e che anzi si affinano nella ripetizione. Ma quando ci si trova davanti a questo grande vecchio e lo si ascolta parlare di sé, del suo lavoro e dei suoi amori, senza malinconie né nostalgie, ci si rende conto che l’uomo e l’attore tengono saldamente i piedi nel presente. E anche nel futuro, con progetti nuovi tra cui la direzione del restaurato Teatro delle Arti di Roma o la biografia per immagini che uscirà in estate per l’editore Curcio, vero monumento al suo talento e alla sua prestanza fisica. Già, perché a novant’anni Albertazzi ha ancora molti segni dell’antica bellezza insieme a una voce intatta e potente. Lo incontriamo in un camerino del teatro romano dove ha appena finito di interpretare un suo particolare Shylock ne “Il mercante di Venezia” di Shakespeare, con file di spettatori che lo ringraziano, lo toccano, lo baciano.
Un successo continuo che altri attori neanche si sognano. Come se lo spiega?
«Probabilmente vengono in tanti perché pensano che potrebbe essere l’ultima volta che mi vedono».
Non se la caverà con una battuta. Qual è la verità?
«Se devo essere serio, il pubblico sente che in me c’è qualcosa di diverso. Io esco dalla definizione della bravura. Ormai lo dicono tutti: Albertazzi non recita. Che fa allora? L’arte del palcoscenico, rispondo. Del resto il teatro degli altri, mi annoia mortalmente. Non tutto, certo. Quando a Londra andavo a vedere Peter O’ Toole non dormivo per l’emozione».
Tanto teatro con successi anche internazionali e quasi niente cinema. Come mai?
«Ho fatto 37 film».
Ma uno solo memorabile: “L’anno scorso a Marienbad” di Resnais.
«È vero. Ma negli anni d’oro, il cinema italiano cercava soltanto tassinari e io non ero certo quel tipo. Non perdonerò mai a Visconti di non avermi fatto fare “Lo straniero” di Camus. Dette la parte a Mastroianni, che non c’entrava niente e la fece malissimo. Per non parlare di “Senso”: scelse un mediocre attore come Farley Granger, ma era evidente che quell’ufficiale austriaco ero io».
Si è mai dato una spiegazione?
«No. Neanche a dire che tra noi sia mancata la possibilità di un rapporto erotico. Una volta ci scambiammo un lungo bacio, un’altra mi disse esplicitamente: “E se io ti chiedessi qualcosa di più di un’amicizia?”. Risposi: “Deciderei in quel momento se mi va o non mi va”. In queste cose sono un ragazzaccio e lasciai la porta socchiusa. Che fosse quello il problema? Non me l’ha mai voluto dire neanche Zeffirelli».
Non c’entrerà la politica e la sua fama di uomo di destra?
«Brava! La targhetta di fascista non me la sono mai tolta di dosso, anche se non sono mai stato neanche di destra. Andai a Salò come tanti ragazzi, convinto che lì si combattesse per l’Italia. Che ne sapevo? Sono sempre stato nelle retrovie e non ho avuto responsabilità dirette. Anzi, voglio dirle una cosa di cui non ho mai parlato: nella sentenza del Tribunale militare che mi ha assolto in istruttoria dopo due anni di carcere preventivo, c’è scritto che ho messo in salvo 19 ebrei».
Perché il suo errore ha pesato così a lungo? Altri repubblichini celebri sono stati perdonati. Dario Fo, per esempio.
«Già, ma lui non lo ha mai ammesso chiaramente, ha persino detto di essersi infiltrato per altri motivi. Io non ho negato e neanche mi sono pentito perché odio il pentitismo. Salò resta il mio dramma personale e mi porto dentro la ferita di essere stato dalla parte che ha fatto i campi di sterminio. Per questo ho titolato la mia autobiografia “Un perdente di successo”».
Però il successo non le è mancato anche in altri campi. Con le donne, per esempio. Le si attribuisce la frase: “Le cosce delle donne sono la prova dell’esistenza di Dio”.
«È vero, tutta la mia vita è stata scandita da presenze femminili. Le donne cominciarono ad affollare il mio immaginario quando, bambino, spiavo il parco della villa di Bernard Berenson, il celebre storico dell’arte di cui mio nonno curava il giardino. Ospitava la Duse, Churchill, la regina Vittoria e io mi inebriavo della vista di fanciulle inglesi vestite di bianco che ridevano in mezzo al verde dei grandi bossi. Poi quel figlio di buona donna di Berenson se ne accorse e fece murare la finestra della dependance dove abitavamo, privandomi di quella beatitudine».
Si è ripreso presto, immagino.
«Si, e devo a una donna anche il mio mestiere d’attore. Facevo il ginnasio quando sulla corriera incontrai una ragazza più grande di me che mi disse: “Perché non vieni a fare teatro a Settignano?”. Era molto bella e se mi avesse proposto di fare una rapina, avrei detto ugualmente di sì. Ma non mi pensi come uno ossessionato dal sesso. Io mi considero un uomo casto».
Che vuol dire?
«Che privilegio l’eros. Non capisco perché l’attrazione sessuale debba avere come iter il coito. C’è qualcosa di ridicolo in quel moto da stantuffo. Il maschio non ha capito che alle donne non gliene frega niente della penetrazione».
Come si è fatto questa opinione?
«Con l’esperienza. L’eros è un fatto mentale che si esalta con la vicinanza e il contatto fisico. Vale per tutti, anche per gli uomini. Un giorno ho chiesto a Visconti: “Ma insomma che fate voi quando arriva il momento”. Mi ha risposto: “Il massimo è quando non fai niente e in un bacio succede tutto”».
Le tante donne che ha amato erano d’accordo con lei?
«Certo. Le donne hanno quella che Borges chiamava l’intelligenza del corpo, che poi è la grazia. Una dote che manca completamente agli uomini. Quando ci provano, come i grandi ballerini, più che graziosi sembrano un po’ froci».
Come mai si è sposato tanto tardi. Solo nel 2007, a 84 anni?
«Perché amo questa donna straordinaria che si chiama Pia dei Tolomei, come la sua ava omonima che Dante mise nel quinto canto del Purgatorio. La conobbi tanti anni fa, in un pub di Firenze. Il mio amico Gigi Vanzi mi indicò una ragazza di una bellezza estrema che mi fissava con insistenza. Ne rimasi fulminato. Adesso lei sta in Maremma, nella tenuta dei Tolomei».
Non vivete insieme?
«Pia non si sposta volentieri dalla sua casa piena di animali. Ha 12 cani, alcuni cavalli da corsa, molte asine, una vacca che si chiama Ingrata e un toro di 12 quintali appena arrivato che si chiama Ascanio. La sua vita è lì e io la raggiungo appena posso».
La differenza di età, 36 anni, pesa tra di voi?
«Neanche un po’. Anzi, le dirò, citando Picasso, che per diventare giovani, veramente giovani, ci vogliono molti anni».
Lo pensa davvero o le piace come iperbole?
«Beh, forse sono più d’accordo con il mio amico filosofo Sgalambro che dice “Si ringiovanisce sempre e poi si invecchia di colpo”».
A lei palesemente ancora non è successo.
«Non ancora, ma, mi creda, quando accadrà non me ne importerà niente. La morte mi affascina. È l’unico assoluto in questo mondo dove tutto è relativo. E poi, se le cose si complicassero, ricorrerei all’eutanasia. È l’ultima battaglia che ho condotto in piena coscienza con i radicali, dopo quelle per il divorzio e per l’aborto. Però confesso che con Anna non ce l’ho fatta».
Sta parlando di Anna Proclemer, il suo grande amore, che è morta pochi mesi fa?
«È morta il 25 aprile scorso, alle otto di mattina. Mi aveva chiesto ripetutamente di aiutarla a farla finita, ma mi sono accorto che non potevo. Ho cercato di starle vicino in altro modo. Le promettevo che avremmo fatto insieme una scena di Romeo e Giulietta, come quella che avevamo visto a Parigi interpretata da Maggie Smith che allora avrà avuto 65 anni e che, forse proprio per questo, era una grande Giulietta. Che donna stupenda è stata Anna e che amore bellissimo il nostro!».
Siete stati la coppia principe del teatro italiano. Perché è finita.
«Perché tutto finisce. Ed è una fortuna per noi umani. Nel suo racconto “L’immortale” Borges parla di un uomo condannato a vivere in eterno che si danna in una continua ripetizione senza più godere di nulla. Forse è questo che ci invidiano gli dei: la nostra caducità che dà senso alle cose».
Da tutto ciò che ha detto, immagino che lei non sia credente. Ha mai pensato che, come certi grandi intellettuali atei, potrebbe convertirsi all’ultimo momento?
«Come ha fatto Malaparte, per esempio? Non credo, perché il mio rifiuto è calmo, non è assetato. La penso come Titta Foti, un altro mio maestro politico, che diceva: “Negare Dio è sbagliato, però affermare che Dio esiste è gratuito”. A proposito di Titta Foti le vorrei far notare che era un esponente della Federazione anarchica internazionale, come Gigi Vanzi, che le ho nominato prima, era stato un fondatore del Partito comunista a Livorno. Poi c’è Nenni con cui mi telefonavo spesso e che mi sostenne quando, per uno spettacolo in onore di Garcia Lorca, il Movimento sociale eresse davanti all’Eliseo una ghigliottina con un mio fantoccio decapitato. Le sembrano le amicizie di un fascista, queste?».
No, ma ormai nessuno ricorda quel suo passato. Piuttosto, ho un’ultima curiosità. Durante il nostro colloquio, sono entrate nel camerino solo donne: assistenti, attrici, ammiratrici. Lei sarebbe capace di innamorarsi ancora?
«Ma io mi innamoro continuamente! Solo che oggi sono più prudente. Prima di dare un bacio a una ragazza, me lo deve chiedere almeno tre volte. Lei mi fa questa domanda perché ho 90 anni, ma sappia che mia nonna è morta a 101 e sua madre a 106. Se tanto mi dà tanto, ne faremo ancora parecchie di queste interviste».
05 marzo 2014
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