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Autore Discussione: Luigi Cancrini - Le battaglie di Falcone  (Letto 2109 volte)
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« inserito:: Giugno 03, 2017, 11:29:34 am »

Opinioni
Luigi Cancrini   
· 3 giugno 2017

Le battaglie di Falcone

Il quadro che mi trovai davanti, correva allora l’anno 1989, era di fatto sconcertante soprattutto nel campo del sociale

Leoluca Orlando, da poco sindaco di Palermo mi aveva chiesto, nel clima di quella che veniva chiamata allora la primavera palermitana, di predisporre un progetto per la prevenzione delle tossicodipendenze ed io iniziai, come era naturale da una ricognizione sulla situazione dei servizi. Il quadro che mi trovai davanti, correva allora l’anno 1989, era di fatto sconcertante soprattutto nel campo del sociale.

Soltanto due erano in effetti allora le assistenti sociali assunte dal Comune in un territorio in cui l’assistenza ai minori era di fatto inesistente, dove le condizioni di indigenza potevano raggiungere livelli da terzo mondo, l’evasione scolastica era a livelli altissimi e le richieste di indagine sociale del Tribunale per i Minori con sopra scritto «trasmessa alla ASL» e «rifiutata dalla ASL perché non di sua competenza» giacevano da dieci anni senza essere state evase in un armadietto dell’assessorato. In modo abbastanza logico e subito approvato dal Sindaco e dall’intero Consiglio Comunale, il progetto si trasformò allora in un progetto di impianto dei servizi sociali in dieci quartieri poveri della città, dallo Zen alla Arenella a Brancaccio e a tanti altri, e nella assunzione, a questo scopo, di un piccolo esercito di assistenti sociali, psicologi e neuropsichiatri infantili che avrebbero dato il loro contributo alla prevenzione delle tossicodipendenze. Dando risposte alle esigenze dei minori e delle famiglie maggiormente a rischio.

Le potenzialità di rinnovamento legate a questo progetto anche dal punto di vista del suo impegno contro la mafia non sfuggirono a Giovanni Falcone che partecipò da protagonista alla sua presentazione e ci diede consigli importanti per la sua scrittura definitiva e nei primi passi della sua attuazione. Bene sapeva Giovanni quanto fosse importante, per i clan mafiosi, la possibilità di gestire in prima persona e con metodi suoi, sostituendosi allo Stato e qui al Comune, l’assistenza ai più bisognosi, la assegnazione delle case popolari e delle occasioni di lavoro perché una caratteristica forte delle organizzazioni mafiose era stata ed era, a Palermo, proprio la sua capacità di controllo del territorio. Forte e convinto fu, dunque, il suo appoggio ed il calore della sua simpatia nel corso degli incontri che avemmo in quella fase e negli anni successivi.

Di cui penso valga la pena raccontare qualcosa oggi, mentre ancora tanto si discute su di lui e sul modo in cui il suo lavoro fu reso difficile anche da chi avrebbe dovuto aiutarlo. Il primo episodio è del 1990. Abitava, Falcone, a via Notarbartolo dove la questura aveva installato un gabbiotto con uomini armati che sorvegliavano di giorno e di notte l’accesso ad una casa come tante altre. Ero andato a trovarlo insieme a Michele Figurelli, segretario del PCI di Palermo e avevamo parlato a lungo del progetto appena partito con l’apertura delle dieci sedi (cercate e trovate da noi stessi, con l’aiuto delle parrocchie e delle sezioni di partito, dei consigli di quartiere e delle associazioni di volontariato), la sua Francesca ci aveva offerto un caffè e scendemmo insieme per le scale con il capo scorta che si avvicinò a Giovanni chiedendogli a bassa voce dove dovevano andare. Lui rispose, l’altro scese in fretta ed a me venne da chiedere, stupito, come era possibile che il capo della sua scorta non fosse al corrente del luogo in cui si sarebbero recati perché anche a me era accaduto di vivere con la scorta ai tempi delle BR e sempre con loro si concordavano in anticipo i movimenti da fare. Con un sorriso d’intesa mi guardò allora Giovanni dicendo che quella era la situazione, che neppure della sua scorta lui, in quella fase, la fase dei corvi e delle trame, si poteva davvero fidare. Un segno tangibile proponendoci della solitudine tremenda in cui era costretto a vivere. Di cui le carte del CSM pubblicate in questi giorni propongono una conferma agghiacciante.

Il secondo episodio è di due anni dopo. Trasferito a Roma da Martelli per lavorare alla sua legge sulla Procura Nazionale Antimafia, Falcone era oggetto di critiche forti da colleghi, giornalisti e politici che gli rimproveravano una scelta percepita come di fuga da Palermo (dove peraltro gli si era ormai negato di poter lavorare sul serio) e di compromesso con personaggi (Martelli) su cui pendevano allora sospetti pesanti di collegamento elettorale con i poteri mafiosi ed io lo invitai, in quanto Ministro del Governo Ombra di Occhetto, a intervenire da relatore ad un convegno nella sala Valdina del Senato sul riciclaggio. «Nessuno dei politici mi ama e mi invita più, mi disse arrivando, è davvero bello che tu l’abbia fatto».

Molto si ironizzava al tempo, infatti, sul fallito attentato dell’Addaura e sul «protagonismo» di un giudice che, secondo alcuni dei suoi detrattori del tempo, non prendeva abbastanza sul serio l’idea di un terzo livello, politico, della mafia e davvero terribile era, ancora una volta, la solitudine cui era costretto l’uomo che non inseguiva le luci del palcoscenico politico ma continuava ostinatamente a seguire quello che gli dicevano la sua coscienza e la sua capacità di capire quale era davvero il colpo da assestare alle organizzazioni mafiose. Il terzo episodio è quello del mio ultimo incontro con lui, poche settimane prima della sua morte. Ero a Roma, al cinema Capranica, di sera, con mia moglie Francesca e lo vedo arrivare sorridente, tranquillo, con la sua Francesca e con la madre di lei. La sala era quasi vuota ed era facile notare l’assenza di una scorta, un fatto che mi sembrò curioso in un tempo in cui i rischi per lui sembravano ed erano ancora molti. Glielo dissi, con affetto, dunque, perché la sua mi sembrava una imprudenza grande ma lui mi rispose sorridendo, come se la mia preoccupazione gli facesse piacere ma gli sembrasse un po’ troppo ingenua, che a Roma lui di rischi non ne correva: «Tenteranno di uccidermi, dice, ma lo faranno laggiù, a Palermo».

Il che vuol dire alla fine, io spesso me lo sono detto nei giorni e negli anni successivi, che lui sapeva bene che la conseguenza più terribile di questa sua solitudine, politica e istituzionale, era proprio quella di consegnarlo nelle mani della mafia. Quello che è rimasto del lavoro e dell’impegno di Falcone è stato ed è sotto gli occhi di tutti anche se resta il rimpianto per quello che avrebbe potuto essere se avesse potuto lui stesso dirigere a lungo quella Procura Nazionale Antimafia cui dedicò gli ultimi anni della sua vita. Quello che è rimasto del progetto mio a Palermo è una rete di servizi sociali di base di cui Orlando ed altri hanno favorito la crescita in questi 25 anni dopo che, inseguito anch’io da minacce mafiose, sono stato costretto a tornare a Roma. Sta qui in fondo il bello di quella stagione straordinaria o forse della vita perché uomini come Falcone sono costretti a perdere, con grande amarezza e lucidità, battaglie che sembrano a volte fondamentali. La storia dà loro ragione, tuttavia, il che vuol dire forse che quelle comunque vinte da loro sono più importanti ed hanno effetti più duraturi di quelle vinte da chi non ha nulla da dire. Ai giovani e alle persone perbene di allora e di oggi.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/le-battaglie-di-falcone/
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