Le verità che mancano
Oliviero Beha
In memoria di un innocente vorremmo avere delle parole di verità dai colpevoli, o almeno dai responsabili della tremenda domenica. Se non serviranno purtroppo a rendere la vita a un giovane di 28 anni, almeno ci aiuteranno a capire perché è accaduto, e perché da questa domenica non esce l’immagine di un Paese in cui è avvenuto «un tragico errore» bensì quella di un Paese sconvolto, attraverso il calcio ma non solo. E non solo per gli italiani, ma anche per i mass-media dell’universo mondo.
La prima verità riguarda che cosa è accaduto nella stazione di servizio incriminata. Davvero, e senza mediazioni opportunistiche. Come è possibile che un ragazzo che dormiva in un’automobile che stava riprendendo la sua strada sia finito morto ammazzato. Qualsiasi verità, anche la peggiore, è meglio di qualunque supposizione. Certo, si metta a fuoco il contesto, la rissa eccetera, ma la morte ancorché casuale è un’altra cosa. Adesso anche per il disgraziato agente che l’ha causata indagato per “omicidio colposo”.
La seconda verità riguarda quello che è accaduto nelle prime ore successive al «tragico incidente». Né la polizia, nella persona del suo capo Manganelli, né il Questore competente, né il ministro degli Interni ci devono aver impiegato molto a sapere come fossero andate realmente le cose. Come è possibile dunque che abbiano lasciato lievitare le voci su un «tifoso laziale morto in seguito a scontri» e immediatamente dopo «per un colpo sparato in aria da un poliziotto della stradale», versione ufficiale che è rimasta in piedi (si fa per dire) per ventiquattr’ore? Non si rendevano conto che mentre la meccanica del «tragico errore» era certo tragicamente “solo” quella, nel caso di un collegamento con il mondo del calcio bisognava controllarne gli effetti? C’era bisogno di un genio per metterla così? Perché non hanno detto subito e ufficialmente che era stato ucciso per colpa o per sbaglio un ragazzo? Non sarebbe bastato, nel dramma irreparabile di un ventottenne dalla vita spirata in quel modo?
La terza verità riguarda l’affidabilità decisionale e organizzativa di chi era preposto a orientare la domenica calcistica, quindi sempre i tutori dell’ordine pubblico ma di conserva con i vertici del calcio e dello sport. Domenica mattina sarebbero stati in grado di concordare se sospendere il campionato perché «era scomparso tragicamente un giovane tifoso» oppure più logicamente e sensatamente farlo disputare regolarmente perché un poliziotto aveva sparato immotivatamente a un giovane su un’automobile. La soluzione intermedia, una partita rinviata, una sospesa e la terza, il posticipo serale, rimandato in extremis ufficialmente «per una questione di civiltà» (la lingua come al solito tradisce in tutti i sensi), è stato quanto di peggio si potesse immaginare. Ma appunto un peggio rivelatore della situazione complessiva.
La quarta verità riguarda il ruolo dei mass-media, nel caso, per una questione soprattutto di orario e di modalità arruffone istantanee, la tv, la radio, gli sms con le agenzie, internet. È stato un massacro mediatico, che ha ribadito la necessità che almeno per fare informazione ufficiale (internet è un caso insieme a rimorchio e di traino, ma pressoché incontrollato) ci voglia una specie di “patente”, come diceva Karl Popper riferendosi vent’anni fa esclusivamente alla tv. Vedete, anche i mass media sono armi, e se mal maneggiati possono far partire dei colpi. È quello che è accaduto e che sta accadendo da domenica mattina.
Sia nell’uso del linguaggio (conduttrici/veline che definiscono una vicenda così delicata un “delitto” tout court, conduttori che straparlano di un morto in simili circostanze con la stessa leggerezza con cui giudicano i giocatori in campo) che nello smercio delle immagini, a partire dalla corsa a quale emittente mostrava per prima la foto del giovane colpito a cadavere caldo, gli addetti ai lavori cui mi riferisco hanno solo spacciato una merce, senza minimamente tener conto del loro ruolo obbligatoriamente (?!?) anche di servizio. È ormai una storia annosa, ma rotolando per questa china ogni volta è peggio. Quanto all’informazione ufficiale, ho sentito per l’intiera giornata colleghi con incarichi di prestigio riferire di un ragazzo seduto sul sedile posteriore di un’auto ferito a morte al collo da colpi sparati in aria da una considerevole distanza. Nessun commento, naturalmente, perché la fonte era ufficiale. Dunque deficienti in senso tecnico, cioè colleghi mancanti di associazioni logiche, o talmente abituati alla dipendenza da qualunque fonte di potere dal ritenere impensabile metterne in dubbio la veridicità (processo mentale che non fa fare carriera)?
La quinta verità riguarda il mondo del calcio. È tale evidentemente la cattiva coscienza di chi ha gestito fin qui malissimo il potere sportivo, non facendo nulla per seminare cultura specifica e invece badando quasi esclusivamente appunto a potere, denaro, immagine in una commistione brulicante con il potere politico tout court, che domenica senza minimamente ragionare e distinguere per non cadere indietro si sono buttati avanti, vaneggiando di un caso Raciti (l’ispettore morto a Catania in febbraio) che nulla aveva a che fare con il «tragico incidente» di Gabriele.
Del resto che costoro non si rendano affatto conto di come va il mondo, non solo quello del calcio - oppure che se ne rendano conto fin troppo bene per i loro vantaggi -, lo dimostra il fatto che nei punti nevralgici di questo potere sono tornati in sella gli stessi che c’erano prima dello scandalo di Calciopoli. Senza che nessuno eccepisca alcunché.
La sesta verità riguarda la guerriglia pomeridiana simbioticamente calcistica di Bergamo e altrove, e quella spaventosa serale romana post-calcistica o quasi extra-calcistica, per la quale ci sono stati una impressionante quantità di feriti tra gli agenti e degli arresti in odore di “terrorismo”. La virgolettatura ha delle ragioni argomentative. Da un pezzo si conosce il potenziale eversivo dei simbolismi calcistici, o rotondolatrici. Ho cominciato a parlarne nel 1983 nel libro «All’ultimo stadio - Una Repubblica fondata sul calcio», quando il povero Gabriele doveva avere quattro anni. Per dire che durante questa generazione purtroppo nulla si è fatto per prevenire gli effetti di un calcio di volta in volta palesemente metafora della guerra e della religione, o delle due cose insieme. C’era bisogno di una flebo di coscienza e di consapevolezza, dentro e fuori dal calcio, nella classe dirigente che invece ha usato il pallone per motivi economico-politici, spremendolo fino al midollo. Non a caso quando si gioca per forza è sempre per questioni inerenti ai diritti tv, ovvero la fonte seria di capitale pallonaro.
Il punto è che nel midollo del Paese ci sono soprattutto i giovani, i ventenni “guerriglieri” delle immagini di un Paese stravolto, e i ventenni o trentenni che cercano nel calcio quello che il calcio, specie “questo calcio” non può dare loro, cioè la simulazione di una vitalità e di un’appartenenza depresse altrove. I “buoni” ancora reggono nell’identità di tifosi di una squadra mentre la loro di giovani italiani è prematuramente sbiadita. I “cattivi” trovano la loro identità, nello smarrimento generale e precario in tutti i risvolti del termine, “contro”, nel caso e da tempo contro una divisa, quella delle forze dell’ordine, se è vero che ultras di Roma e Lazio si coalizzano nelle Grandi Occasioni. Ho usato le stesse maiuscole che sono repertorio di una stampa irresponsabile che suona la gran cassa per vendere tutto insieme, il Calcio e i suoi Balordi, perché alla faccia di ogni ipocrisia ormai si vendono tutto compreso, come in un pacchetto Sky...
Naturalmente non si tratta di assolvere i teppisti, non sono certo “innocenti” come il morto sparato dell’autostrada, tifoso o no, laziale o no, semplicemente uno di 28 anni stroncato così. Sto dicendo soltanto che gli ultras non sono la parte malata di un Paese, bensì una parte del Paese malato cui metter mano molto più onestamente, energicamente e coralmente di quanto non si faccia, in un’emergenza che urla il suo principio di realtà nel calcio come altrove.
Per questo che il ministro competente proponga di sospendere il campionato per qualche domenica non è una soluzione più che irrisoria. Si accinga casomai a proporre la sospensione del Paese per qualche tempo, oppure affronti il problema di un calcio da salvaguardare in quanto area importante di un Paese da bonificare. Certo, misure più efficaci ancora, magari domeniche blindate senza tifosi in trasferta in una specie di “pallone in quarantena”, possono sembrare ed essere un farmaco d’occasione. Ma se non si seminano un po’ di quelle verità riassunte fin qui in morte di un innocente, francamente la vedo bruttissima. Più di quanto non la veda il povero Abete, ex vice-Carraro, oggi presidente della Federcalcio e terminale di una simpatica cerchia industriale che lo collega ai poteri forti, il quale sostiene da Marte che sospendere è sempre «una sconfitta per il calcio». È il Paese sconfitto, seduto su una polveriera, altro che calcio.
www.olivierobeha.itPubblicato il: 13.11.07
Modificato il: 13.11.07 alle ore 9.19
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