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Autore Discussione: Francesco NICODEMO. Non è il momento della nostalgia  (Letto 2214 volte)
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« inserito:: Gennaio 26, 2017, 12:36:16 pm »

Opinioni
Francesco Nicodemo   - @fnicodemo

22 gennaio 2017

Non è il momento della nostalgia
Il Trump candidato e il Trump presidente sembrano coincidere almeno dalle prime affermazioni

Vi ricordate quando eravate a scuola durante quelle giornate in cui c’era da studiare un argomento che non piaceva particolarmente. Allora ci si trovava lì malvolentieri con il libro davanti a sottolineare e a rileggere. A me di solito questa reazione capitava soprattutto all’inizio, dopo un po’ mi accanivo a voler capire con una convinzione ancora maggiore.

Venerdì mi è ritornata la stessa sensazione durante la visione dell’inaugurazione della presidenza Trump. Sarebbe stato inutile rifiutarsi di assistere oppure guardare con delusione, gli eventi sono questi e vanno compresi a maggior ragione ancora di più. Perché gli Americani hanno trovato convincente il suo messaggio? Perché dopo Obama si è materializzata una presidenza totalmente antitetica? E ancora, cosa sta accadendo in giro per il mondo? Prima di illuderci di avere le risposte o peggio ancora, prima di dire con atteggiamento spocchioso che non hanno capito nulla, cerchiamo di riflettere.

Trump ha parlato di confini da difendere, quelli americani, ha parlato di costruzione di strade e infrastrutture. Ha detto che due sono le regole da seguire: comprare americano e assumere americano, affermazione questa che va sotto l’etichetta del protezionismo. Prima l’America nel modo più severo possibile, difendendo i confini nazionali ma anche le produzioni interne, i posti di lavoro e smettendola di far arricchire gli altri, come è stato evidenziato nell’articolo del New York Times di David E. Sanger dall’evocativo titolo «Con echi degli anni ’30 Trump fa risorgere una visione dura dell’America prima».

In effetti, mi ha fatto ripensare al Complotto contro l’America di Philip Roth. All’inizio mi ero illuso di vedere un Presidente Trump in parte differente dal candidato Trump, nel passaggio in cui ha ringraziato gli Obama per come è stata gestita la transizione democratica del potere. La mia illusione però è durata pochissimo e mi sono ricordato che stavo seguendo non per arrivare a facili conclusioni ma per capire.

Come interpretare allora la frase in cui ha detto che quello non era il giorno del trasferimento del potere da un’amministrazione all’altra, o da un partito all’altro ma da Washington al popolo? Volendo usare un’altra etichetta, la risposta non è difficile, gravita intorno al populismo ed è tutta lì nella contrapposizione tra l’élite e la gente, con la prima che si sarebbe arricchita e la seconda inesorabilmente dimenticata.

Mentre mi fermavo a ricordare i risultati della amministrazione Obama, nel frattempo continuavano le parole di Trump, che diceva «non importa quale partito controlli il Governo perché ciò che conta è che il Governo stesso venga controllato dal popolo», aggiungendo che con lui gli uomini e le donne dimenticati non lo saranno più. Un richiamo ancestrale al popolo, in contrapposizione con la parola cittadini, cosi tante volte usata da Obama. Benvenuti nel turbopopulismo dunque, per usare una straordinaria espressione usata dal professor Mazzoleni su Twitter. Nel discorso infatti, si è sentita la stessa retorica ascoltata durante la lunga corsa che lo ha portato alla Casa Bianca. Come sottolineato dal Washington Post nell’articolo di James T. Kloppenberg, la sua è una figura che non ha precedenti.

I Presidenti nei propri discorsi hanno offerto di solito una visione per tenere unita la Nazione e la popolazione attorno a dei valori comuni. Il tycoon invece ha offerto un quadro cupo del Paese. La sua visione del sogno americano è davvero orientata all’egoismo e all’isolamento, come scrive Kloppenberg? Il Trump candidato e il Trump presidente sembrano dunque coincidere almeno dalle prime affermazioni, eppure mentre su twitter l’account personale riproponeva i passaggi più rilevanti del suo discorso, l’account presidenziale, complice il numero ancora inevitabilmente basso di follower almeno nelle prime ore, è rimasto vuoto per un po’ prima di vedere comparire il primo tweet con il link al post Facebook dell’intera trascrizione delle parole che hanno seguito il giuramento e poi altri contenuti.

In quel momento è sembrato quasi che Trump stesse continuando a comunicare ai suoi sostenitori, non all’intera Nazione. Anche nell’editoriale del Guardian di ieri si dice tra le altre cose che quel discorso sembrava ancora rivolto soltanto a chi ha votato per lui, non a tutto il resto della popolazione. E mentre Trump terminava il suo discorso, breve e pieno di interrogativi e domande inevase, sui social network nel frattempo scorrevano immagini nostalgiche di Barack e Michelle Obama condivise da molte persone. Hanno ragione, ci mancheranno, ci mancherà. Ma molliamo in fretta la nostalgia, perché se c’è un modo di mettere in pratica la sua lezione è credere che il cambiamento dipenda da noi. Da adesso. Dovunque siamo. Chiunque siamo. Anche nella notte più scura.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/non-e-il-momento-della-nostalgia/
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 20, 2017, 10:57:28 am »

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Francesco Nicodemo - @fnicodemo
· 19 marzo 2017

È presto per cantar vittoria
Il populismo non ha vinto in Olanda, ma ha dettato agenda politica e semantica delle elezioni

In settimana in molti abbiamo tirato un sospiro di sollievo dopo le notizie politiche in arrivo dall’Olanda. Il Guardian il 16 marzo nel suo «punto di vista del Guardian sulla sconfitta di Geert Wilders: buona notizia da trattare con cautela», ricorda che questo appuntamento elettorale era considerato un test per il populismo in Occidente, in vista delle prossime elezioni in Francia e in Germania.

Quando il Pvv ha ottenuto circa il 13 % dei voti, la reazione da più parti in Europa è stata di compiacimento. Il nostro Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni dal suo profilo Twitter, ha scritto: «No #Nexit. La destra anti Ue ha perso le elezioni in Olanda. Impegno comune per cambiare e rilanciare l’Unione» e anche la Cancelliera Angela Merkel ha parlato di un risultato favorevole a l l’Europa. Tuttavia, ammonisce ancora il Guardian, Wilders pur avendo perso ha comunque ottenuto cinque seggi in più rispetto al 2012. Attenti dunque a festeggiare lo scoppio della bolla populista in Olanda. Wilders non ha vinto ma ha dettato agenda politica e semantica delle elezioni. Possiamo anche continuate a parlare di sondaggi, media, distanza élite-popolo.

Ma il tema dell’islamofobia, delle paure legate all’integrazione e all’immigrazione hanno dominato il dibattito pubblico in Olanda, ben oltre il reale peso di queste istanze nella vita degli olandesi. E su questo Wilders ha vinto. Non a caso gran parte degli analisti conferma che il premier Rutte può rivendicare la vittoria, anche grazie alla durissima polemica con la Turchia di questi giorni. Quindi bene la frenata dei populisti, anche se non hanno mai avuto una sola chance di vincere e di causare la Nexit, molto meno bene la deriva dei temi demagogici che sta investendo tutte le democrazie liberali occidentali. E su quest’ultimo punto io non sto sereno per nulla. Sotto questo aspetto c’è molto da fare.

Innanzitutto non si può ignorare che la paura dell’altro e la diffidenza verso lo straniero esistano. Non stiamo parlando della fondatezza o meno di questi atteggiamenti ma della percezione che ne hanno le persone. È un tema da affrontare, seriamente. Come conciliare apertura e sicurezza? Come evitare l’erronea equazione immigrato-terrorista? Come permettere l’integrazione in maniera rispettosa? Ancora, cosa dobbiamo fare per sentirci più europei e appassionarci a quel lungo cammino reso possibile dai Trattati di Roma, di cui celebriamo quest’anno il sessantesimo anniversario? Possiamo essere davvero capaci di ridimensionare lo spettro populista solo se offriamo risposte convincenti a queste domande.

Non basta stigmatizzare i messaggi o le forze politiche che si schierano contro parte dell’establishment, che hanno paura di chi è diverso da noi e che rifiutano l’apertura. Se è vero che i populisti accarezzano le paure delle persone, allora noi quelle paure dobbiamo ascoltarle, analizzarle e ridimensionarle. Se è vero che i populisti si presentano come gli unici portavoce del popolo, allora noi dobbiamo impegnarci per diventare più popolari. Dobbiamo essere cioè in grado di andare verso le persone. Nel tempo delle barriere, della rivendicazione degli interessi singoli, che si tratti di gruppi o di intere Nazioni, la risposta deve essere al contrario tendere una mano a chi è intorno a noi.

Mai come oggi abbiamo bisogno di recuperare un senso di umanità autentica, di andare gli uni verso gli altri. Mai come oggi la risposta ai mali del nostro tempo deve essere politica. Siamo chiamati a prenderci cura degli altri. Sul punto è stato molto chiaro anche il Ministro Martina che in un passaggio del suo intervento al Lingotto ha detto, tra le altre cose, che il Pd deve aspirare a diventare un partito-comunità, capace di formare, di ascoltare e appunto, di prendersi cura. Ebbene preoccuparsi degli altri equivale anche ad ascoltare i loro timori e a cercare delle soluzioni che siano però compatibili con la tolleranza, la libertà e i nostri valori più profondi. Soltanto in questo modo è possibile frenare l’avanzata populista. Saremo a l l’altezza di questa sfida?

Da - http://www.unita.tv/opinioni/e-presto-per-cantar-vittoria/
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