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Autore Discussione: Giuseppe TAMBURRANO -  (Letto 4221 volte)
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« inserito:: Ottobre 09, 2007, 11:38:47 pm »

Se il mercato è ideologico

Giuseppe Tamburrano


Il libro di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Il liberismo è di sinistra (Il Saggiatore, Milano) ha avuto successo. E lo ha meritato per la chiarezza e la vivacità dell'esposizione. Fin dal titolo l'intento è chiaro: convertire la sinistra al mercato e al liberismo. Uno sforzo superfluo, sul piano teorico, perché la sinistra si è già convertita; utile, sul piano pratico, perché la sinistra non mette in pratica compiutamente e correttamente il nuovo «credo» un po' perché impacciata dalle vecchie e frettolosamente dimesse convinzioni, direi «fedi» collettiviste e un po' perché gli interessi sindacali e corporativi ostili alla concorrenza sono forti e diffusi.

Prima di entrare nel merito vorrei fare qualche osservazione preliminare. Il «liberismo è di sinistra», ma è anche, tuttora, di larghissimi settori del centro-destra cultori da sempre del mercato, del loro mercato. Ne viene confermata l'opinione di quei tanti, tantissimi Fukuyama per i quali ormai non esiste più alcuna differenza tra destra e sinistra: entrambi si nutrono di «pensiero unico». E a questo proposito vale la pena di ricordare che, a differenza degli apologeti a buon mercato del mercato, un foglio liberista doc come l'Economist in un editoriale del 3 gennaio 1992, a proposito di Marx, titola: «Il vuoto che ha lasciato», e scrive che i problemi dei più deboli sono tutt'altro che risolti e morta la vecchia sinistra è assolutamente necessaria una nuova e migliore sinistra; e, in un numero di dieci anni dopo - Natale 2002 - , in un lungo saggio su Marx afferma che fallito è il sistema di governo, non l'idea.

E vengo al tema. Leggendo il libro, pagina dopo pagina, mi sono spesso trovato d'accordo con gli autori, eppure con ciò non mi sono mai accorto di rinunciare in tal modo alle mie idee socialiste e in particolare alla convinzione che è la politica e non la concorrenza sul mercato regolatrice della società.

Debbo, a questo punto, precisare in breve che cosa intendo per socialismo. Esso non è il collettivismo: l'espropriazione del capitale e la pianificazione statale sono state concepite come la forma specifica di socialismo nell'epoca del capitalismo industriale. Una soluzione improponibile sul piano teorico e su quello pratico nel moderno capitalismo globalizzato.

Ma il fallimento del collettivismo - come scrive l’Economist - non significa minimamente la fine del socialismo che è un'idea ben più antica di Marx (che, tra l'altro, per tanti versi è ancora attuale).

È un'idea che, detto in breve, vuol dire che le società umane possono e debbono essere fondate su principi universali di libertà per tutti, di uguaglianza e di pace e fraternità: un'idea che ha tanto cammino da fare.

Con questi fini il mercato ha poco a che fare. In concreto sono molti gli esempi di settori sociali «non profit» ai quali il mercato è estraneo, come molti sono gli esempi nei quali la logica del profitto è nemica del bene comune. Per i primi si prenda a caso la scuola, il terzo settore, la giustizia, la sicurezza, la famiglia, i poveri (in Italia sette milioni di persone), l'ambiente, la salute, ecc. ecc. Come esempi del carattere nocivo del mercato cito solo l'ambiente, il costo dei farmaci nei paesi poveri, il traffico delle armi, ecc.

Torno al libro di Alesina e Giavazzi: ho detto che consento a molte delle loro proposte e che questo non implica che rinunci neanche in parte alle mie idee. E la ragione è semplice: molte delle proposte contenute nel libro non sono incompatibili con una visione socialista, sono anzi strumenti, metodologie funzionali a obbiettivi socialisti. E la ragione è prima di tutto di principio: il mercato è una tecnica che assicura in molti campi il massimo dell'efficienza economica. In definitiva, poiché il socialismo si qualifica per i fini e non per i mezzi, esso è relativamente indifferente rispetto ai mezzi: relativamente nel senso che lo strumento non deve danneggiare il fine; di più, è interessato al mezzo se esso è utile al fine. Per fare un esempio di scuola: se si vuole dare il pane a tutti perché fare una panetteria municipale se quelle private fanno pane più buono e più a buon mercato? E per farne un'altra sul versante opposto: perché mantenere (negli Usa) la sanità privata - che è uno scandalo - se quella pubblica può assicurare l'assistenza a tutti con una spesa complessiva minore?

Consideriamo alcuni temi del pamphlet in discussione: l'abolizione degli ordini professionali, la gara tra varie compagnie aeree per «l'assegnazione degli slot aeroportuali», la liberalizzazione delle licenze commerciali, il criterio del merito, la riduzione della spesa pubblica, ecc. Sono proposte sacrosante. Non mi convince del tutto la liberalizzazione del mercato del lavoro perché un lavoratore licenziato all'età di cinquanta anni non trova facilmente un altro impiego e il sussidio, per quanto consistente, non potrà essere pari alla retribuzione perduta fino alla pensione. Ma trattandosi di soluzioni pratiche e non di principio esse sono meritevoli di discussione.

Il fatto è che Alesina e Giavazzi del mercato fanno, invece, una questione di principio, una ideologia, una concezione generale, come appare chiaro fin dal titolo.

Eppure la lettura ha rafforzato in me la convinzione che nella nuova dottrina della sinistra è essenziale il rapporto tra socialismo come fine etico-politico e il mercato come mezzo efficiente per il miglior funzionamento dell'economia. Dirò di più: il tema del rapporto tra socialismo e mercato è centrale nella ricerca di un socialismo moderno. Un rapporto nel quale la politica democraticamente decide gli obbiettivi, verifica i risultati, corregge o elimina gli strumenti non rispondenti agli scopi. Insomma, regola: mentre il mercato produce.

Ma la sinistra ex comunista ha rinunciato al fine: la costruzione di una società sempre più giusta e più libera, ed ha assunto il mercato, il liberismo come unico orizzonte della sua iniziativa. Il crollo del muro di Berlino ha dunque travolto anche l'idea, il socialismo, che il collettivismo totalitario aveva tradito: e con l'acqua sporca ha buttato via anche il bambino. Con l'enfasi del neofita, D'Alema ha detto che Gramsci era liberista.

Chi propone oggi il superamento del capitalismo, il socialismo democratico? Non quella parte minoritaria della sinistra legata a schemi obsoleti che si chiama addirittura ancora "comunista" e guarda a Cuba, alla Cina (compagno Bertinotti, forza con la revisione!). Il restyling dello Sdi tornato Ps?

Alla Costituente socialista non mi pare che si sia discusso di capitalismo e socialismo. Il solo che su questo tema ha detto parole «rivoluzionarie» è stato - udite, udite! - il papa che è andato oltre l'insegnamento sociale della chiesa: «Il capitalismo non va considerato come l'unico modello valido di organizzazione economica» ed ha invocato una società basata sulla solidarietà e sull'equa distribuzione dei beni. Siamo messi proprio bene!

Pubblicato il: 09.10.07
Modificato il: 09.10.07 alle ore 8.28  
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« Ultima modifica: Giugno 12, 2013, 05:30:34 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 21, 2007, 03:23:09 pm »

La variabile Dini

Giuseppe Tamburrano


Non è facile capire quali sono i fini della clamorosa iniziativa di Berlusconi né quali possono essere le conseguenze. La spiegazione più semplice è che sconfitto nello scontro con il governo Prodi rilancia; un’altra spiegazione è che vuole far cadere le alleanze che gli hanno tarpato le ali e combattere da solo certo di essere il più forte. Ma ci sono cose che non quadrano: e la più importante è che oggi è in testa nei sondaggi. Se il governo dura e lavora e Veltroni fa bene il suo mestiere gli umori dei cittadini possono cambiare; d’altronde l’elettorato del Partito del popolo può essere galvanizzato dalle otto milioni di firme (chi era quello che aveva otto milioni di baionette?), ma l’elettorato complessivo di centro-destra può essere scoraggiato dalla crisi dell’alleanza: e può riprendere fiducia quello del centro-sinistra. La verità è che il tempo è un fattore decisivo per l’ambizione di Berlusconi a tornare a Palazzo Chigi.

Ma forse stiamo sottovalutando una variabile. Sottovalutiamo la talpa che scava sotto la poltrona di Prodi. Mi riferisco a Dini il quale ha in mano tre carte pericolose per il governo: a) fa parte della maggioranza; b) capeggia un gruppo di senatori ben individuati; c) critica duramente il governo e la sua politica. A questo punto, sulla carta, Prodi non ha più la maggioranza al Senato. Si paleserà con un voto impegnativo questo mutamento e di conseguenza avremo la crisi? Questa ipotesi è più realistica di quella agitata - a vuoto, s’è visto - da Berlusconi poiché non sono ombre o fantasmi i parlamentari che sono con Dini: hanno nome e cognome.

Certo, il governo può anche andare in minoranza - come è successo su alcune norme della finanziaria - senza che ciò comporti l’obbligo di dimettersi. Ma Dini ha uno strumento decisivo nelle mani: il voto di sfiducia. Del governo ha detto: non è stato capace in questi diciotto mesi di trovare rimedi al degrado, al declino economico, all’insicurezza, alla sfiducia nelle istituzioni, all’ondata di populismo: è una situazione di scollamento. Sono espressioni forti, di chi ha preso le distanze dal governo. Se alla fine il governo cade, quali possono essere i percorsi politici istituzionali per uscire dalla crisi? Elezioni subito? Su questo punto l’opposizione non sembra più oggi compatta. Del resto il Capo dello Stato sa bene che è suo dovere cercare una maggioranza parlamentare se c’è. Ed ha sconsigliato ripetutamente di votare con la legge elettorale in vigore. L’uovo di Colombo è l’incarico a Veltroni, il leader più autorevole dell’attuale maggioranza. Il quale Veltroni, d’accordo in ciò con Napolitano, è deciso a cambiare la legge elettorale e alcune norme costituzionali: in otto mesi - ha detto - si può fare (anche meno se vi è la volontà politica). E se il problema principale è questo, chi meglio di Veltroni può affrontarlo ora che anche Berlusconi sembra disposto a trattare: con lui e non - è ovvio - con Prodi. Veltroni ha ottenuto una investitura plebiscitaria nelle primarie ed ha un alto gradimento degli elettori: sarebbe giusto che si accingesse al compito per il quale è stato investito. Che senso ha che il governo sia diretto da chi ha poco più del 20% dei sondaggi e non da chi ha 10, 15 punti in più? E che ha assai più chances di trovare un’intesa con l’opposizione che non Prodi? E che - sia detto tra di noi - può recuperare molti dei voti dell’Unione in libera uscita?

Lo scoglio è la legge elettorale. Mi sembra che la proposta di Veltroni non incontri ampi consensi nel Pd. È possibile che il fattore decisivo per il varo della legge alla tedesca sia il consenso di Berlusconi? Certo, perché tutto è possibile in questo paese.

E però vi è da essere sgomenti! Circa trenta anni di storia vengono sconfessati: torna quella tanto vituperata proporzionale che priva i cittadini del potere di investire direttamente il governo, che mette gli esecutivi allo sbando, nei giochi dei partiti, delle correnti, dei gruppi, provoca instabilità (un governo ogni anno). Con in più che nella prima Repubblica c’erano partiti strutturati, oggi ci sono ectoplasmi di partiti. E dove finiscono le esaltazioni per i grandi successi dei referendum, per la crisi delle oligarchie, per la «rivoluzione del bipolarismo», per la sovranità restituita al popolo che decide con il voto?

Tutto ciò viene spazzato via in conseguenza di una furba operazione di cosmesi politica di Berlusconi? Si poteva sperare che i settori più responsabili - maggioranza e opposizione - del sistema politico si impegnassero a rinnovare l’assetto istituzionale con una legge elettorale funzionale ad un sano bipolarismo, con la riforma dei regolamenti parlamentari e con un ragionevole rinnovamento della Costituzione. Invece si torna indietro! E deve essere chiaro: il sistema elettorale tedesco che ora Berlusconi vuole purché puro e che tratterà con Veltroni è perfettamente proporzionale.

Eppure c’è una riforma elettorale che calza al disgregato sistema politico italiano: il doppio turno alla francese con opportune modifiche. Veltroni si è dichiarato anche di recente favorevole. Era questa la proposta «ufficiale» dei Ds. Vi ha civettato Fini e lo ha sponsorizzato tempo fa lo stesso Berlusconi. Perché non ci riprovano?

Pubblicato il: 21.11.07
Modificato il: 21.11.07 alle ore 9.18   
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