Dossier | N. 11 articoli Mappamondo
Il populismo e il nuovo disordine mondiale
12 gennaio 2017
Si suppone che il nuovo anno inizi nella speranza. Anche nei giorni più bui della Seconda Guerra Mondiale, le celebrazioni del Nuovo Anno erano sostenute dalla convinzione che in qualche modo il corso degli eventi si sarebbe orientato verso la pace. E pare oggi profetico quanto scrisse Arthur Koestler dopo la caduta della Francia nel 1940: «Il problema sta nel fissare la libido politica [dei tedeschi] su una bandiera più affascinante della svastica, e che l’unica che farebbe al caso sarebbe quella a stelle e strisce dell’Unione Europea». Anche altri immaginavano già istituzioni internazionali e riforme nazionali – il diritto di voto per le donne in Francia, il servizio sanitario nazionale in Gran Bretagna, la legge G.I. Bill negli Stati Uniti per i benefici ai veterani – in grado di cementare l’ordine globale postbellico.
L’inizio del 2017 non offre consolazioni di questo genere. Quest’anno la domanda principale è se si potrà sostenere l’ordine postbellico, ora al suo ottavo decennio, una volta che si insedierà il presidente-eletto americano Donald Trump il 20 gennaio. Trump ha ripetutamente dichiarato che il presidente russo
Il presidente russo Vladimir Putin durante un incontro al Cremlino lo scorso 9 gennaio (Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP)
Vladimir Putin è uno spirito affine i cui tentativi di influenzare le elezioni dei Paesi occidentali, sovvertire l’Ue e ripristinare la sfera russa di influenza che include Ucraina e gran parte dell’Est Europa troveranno pochi impedimenti Usa. Aggiungiamo a questo l’ostinata ignoranza di Trump, i conflitti di interesse e il continuo stuzzicare la Cina, e il mondo sembra destinato a entrare in una fase radicalmente destabilizzante, che riflette in gran parte l’incredibile imprevedibilità della politica estera americana guidata da Trump.
Anche in casa, Trump e il partito repubblicano da lui ora presieduto hanno fatto ben poco per rassicurare chi nutre dei timori sulla sua presidenza. Malgrado la mancanza di esperienza negli incarichi pubblici, ha riempito l’amministrazione di magnati inesperti e militari in pensione, invece che di esperti politici.
All’inizio dell’anno, secondo un sondaggio Gallup la fiducia degli americani nella capacità di Trump di svolgere le proprie funzioni era 30 punti in meno (e inferiore al 50% su alcune tematiche) rispetto a quanto non fosse per i tre predecessori, prima del loro insediamento.
La preoccupazione – se non addirittura la paura – dei commentatori di Project Syndicate rispetto a Trump è stata spesso evidente sin dai titoli dei vari articoli. L’ex primo ministro svedese Carl Bildt, ad esempio, suggerisce ai lettori di «head for the bunkers», ossia di «andare verso i bunker», mentre Nouriel Roubini della NYU teme che la presidenza di Trump significhi «“America First” and Global Conflict Next», ossia «l’America prima di tutto, poi il conflitto globale».
All’ansia si aggiunge la prospettiva che Trump e i leader populisti di altri Paesi possano consolidare la propria posizione sugli elettori – consentendo loro di smantellare persino una democrazia liberale con i tanto decantati “checks and balances” previsti dalla costituzione americana. Secondo Slawomir Sierakowski, direttore dell’Institute for Advanced Study di Varsavia, il partito polacco Diritto e Giustizia (PiS), fondendo nazionalismo e ridistribuzione economica, potrebbe aver trovato una strategia per radicare ciò che lui definisce “dittatura eletta”. E Rob Johnson, presidente dell’Institute for new economic thinking (Inet), sostiene che qualcosa di simile sia possibile – ma non ineluttabile – negli Usa.
Non tutti i commentatori di Project Syndicate sono così pessimisti. Trump, che ha perso il voto popolare, potrebbe di fatto essere più debole di quanto sembri, ed è probabile che l’opposizione all’interno del proprio partito – soprattutto rispetto all’amicizia con la Russia e all’ostilità nei confronti del libero scambio – persista. Ciò nonostante, come suggeriscono diversi commentatori, il voler strafare in politica potrebbe diventare un rischio reale per Trump solo quando la libido politica degli americani si concentrerà su una bandiera più affascinante.
La diplomazia del disordine
Per ora, quella bandiera recita “America first”. Trump, secondo l’ex ministro degli Esteri israeliano Shlomo Ben-Ami, eviterà di essere «coinvolto in spinosi dilemma morali, oppure si farà trascinare dal grande senso di responsabilità per il resto del mondo». Mentre Trump ha attirato l’ammirazione di “realisti” putativi di politica estera come il biografo di Henry Kissinger, Niall Ferguson (e una valutazione favorevole di Kissinger stesso), Ben-Ami bolla come «delirante» la convinzione che «l’orgogliosamente imprevedibile e il profondamente disinformato Trump» possa «effettuare grandi progetti strategici». Anzi, «provocando la Cina, mettendo in dubbio la Nato e minacciando guerre commerciali», prosegue Ben-Ami, «Trump sembra destinato a fare su scala globale quello che l’ex presidente George W. Bush ha fatto in Medio Oriente, ossia destabilizzare intenzionalmente il vecchio ordine senza riuscire a crearne uno nuovo».
“Trump sembra destinato a fare su scala globale quello che l’ex presidente George W. Bush ha fatto in Medio Oriente, ossia destabilizzare intenzionalmente il vecchio ordine senza riuscire a crearne uno nuovo”
Shlomo Ben-Ami, ex ministro degli Esteri israeliano
E se Trump sposterà effettivamente «la strategia geopolitica americana verso l’isolazionismo e l’unilateralismo», avverte Roubini, è probabile che il caos e i conflitti che attanagliano il Medio Oriente per buona parte di una generazione si propaghino. Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, fa notare, i dazi protezionistici «hanno scatenato misure di ritorsione commerciale e guerre valutarie che hanno aggravato la Grande Depressione», mentre «l’isolazionismo… ha consentito alla Germania nazista e al Giappone imperialista di dichiarare una guerra aggressiva e minacciare il mondo intero».
Oggi, continua Roubini, in assenza di un «attivo impegno Usa in Europa subentrerà una Russia aggressivamente revanscista». In modo analogo, «se gli Usa non garantiranno la sicurezza ai propri alleati sunniti, tutte le potenze regionali – compresi Iran, Arabia Saudita, Turchia ed Egitto – potrebbero decidere di volersi difendere solo con l’acquisizione di armi nucleari». E «gli alleati asiatici come le Filippine, la Corea del Sud e Taiwan», osserva, «potrebbero non avere altra scelta che prostrarsi di fronte alla Cina», mentre «altri alleati Usa, come il Giappone e l’India, potrebbero essere costretti a dotarsi di forze militari e sfidare apertamente la Cina».
“Gli alleati asiatici come le Filippine, la Corea del Sud e Taiwan potrebbero non avere altra scelta che prostrarsi di fronte alla Cina, mentre altri alleati Usa, come il Giappone e l’India, potrebbero essere costretti a dotarsi di forze militari e sfidare apertamente la Cina”
Nouriel Roubini, New York University
L’ex ministro degli Esteri spagnolo Ana Palacio e l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer condividono i timori di Roubini. Come fa notare Palacio, la presidenza di Trump arriva in un momento in cui «la dissoluzione del sistema globale liberale basato sulle regole» è già decisamente in atto, a causa della «mancanza di progressi nello sviluppo di istituzioni e strumenti giuridici». E Fischer non ha dubbi sul fatto che Trump, «esponente del nuovo nazionalismo», contribuisca a questa atrofia, soprattutto a quella dell’ordine postbellico in Europa. Nella misura in cui «l’amministrazione Trump sostenga o chiuda un occhio di fronte ai» tentativi di destabilizzazione in Europa da parte di Putin, «l’Ue – schiacciata tra i troll russi e Breitbart News – dovrà prepararsi ad affrontare tempi difficili».
La forma dei futuri shock
I rischi sono aggravati dalla probabilità che siano mal-interpretati, e quindi mal-gestiti. Ciò riflette in parte la difficoltà di analizzare le dichiarazioni politiche da 140 caratteri: Bildt, che ha anche rivestito la carica di ministro degli Esteri svedese, non è certamente il solo a prevedere «un sistematico spettacolo di destabilizzazione internazionale via Twitter». Sin dalla sua elezione, osserva, «Trump dichiara di voler assoggettare anche gli aspetti più fondamentali della politica estera Usa a rinegoziazione». E lo ha fatto immancabilmente su una piattaforma pubblica che non consente sfumature né tantomeno un dialogo costruttivo. Proprio prima di Pasqua, ad esempio, un tweet sembrava sovvertire la dottrina nucleare Usa.
La presidente taiwanese Tsai Ing-wen alla vigilia di un viaggio in America Latina lo scorso 7 gennaio (Reuters)
Una maggiore chiarezza sulle idee di Trump (se non altro perché twitta spesso su diversi argomenti) potrebbe non essere meno irritante. Yasheng Huang del Mit Sloan school of management afferma, ad esempio, che, «rimettendo in dubbio» la “One China policy” rispetto a Taiwan, «Trump sta giocando con il fuoco». Il rischio più minaccioso è che potrebbe finire per «accendere gli animi dei falchi del governo e dell’esercito cinese, se confermerà la loro convinzione che gli Usa intendono minare gli interessi “core” del loro paese». E come Ben-Ami e Roubini, Huang è convinto che nel punzecchiare la Cina, Trump «le stia dando contemporaneamente forza e potere». Di fatto, «con l’aiuto di Trump», conclude, «il Secolo cinese potrebbe arrivare prima di quanto previsto».
Anche l’audace apertura del presidente Barack Obama nei confronti di Cuba sembra destinata a un ribaltamento trumpiano. «Poiché il Congresso si è rifiutato di normalizzare le relazioni Usa-Cuba revocando l’embargo Usa», osserva Jorge Castañeda, ex ministro degli Esteri messicano, «Obama è stato costretto a ricorrere ad ordini esecutivi giuridicamente reversibili per allentare le restrizioni su viaggi, rimesse, commercio e investimenti». Trump «ha promesso – ancora una volta su Twitter – di cancellare tutto questo a meno che non riesca a ottenere “un accordo migliore per la popolazione cubana, i cittadini cubano-americani e gli Usa nel complesso”». Ma un accordo di questo tipo, sostiene Castañeda, «non ha speranze: il regime di Castro non farà ciò che non ha mai fatto e non negozierà questioni politiche interne con un altro Paese».
In Asia, l’effetto Trump sta già compromettendo le iniziative politiche di vecchia data messe in atto dai leader democratici della regione. Il Giappone forse si trova nella posizione più pericolosa, il che spiega perché il primo ministro Shinzo Abe si è precipitato a New York per incontrare il presidente-eletto, il primo leader straniero a incontrare Trump.
“Trump vuole un accordo migliore per la popolazione cubana, i cittadini cubano-americani e gli Usa nel complesso. Ma un accordo di questo tipo non ha speranze: il regime di Castro non farà ciò che non ha mai fatto e non negozierà questioni politiche interne con un altro Paese”
Per anni, secondo Brahma Chellaney del Center for Policy Research di New Delhi, Abe «ha assiduamente corteggiato» la Russia. «Gli approcci di Abe nei confronti di Putin» sono stati un punto fermo nella sua «più ampia strategia di posizionare il Giappone come contrappeso per la Cina, e ribilanciare il potere in Asia, dove Giappone, Russia, Cina e India formano un quadrilatero strategico». Nella visione di Abe, «il miglioramento delle relazioni con la Russia – con cui il Giappone non ha mai formalmente fatto pace dopo la Seconda Guerra Mondiale – è l’ingrediente mancante per un equilibrio tra le potenze nella regione».
Il presidente filippino Rodrigo Duterte e il primo ministro giapponese Shinzo Abe durante la visita di quest’ultimo a Manila del 12 gennaio (Epa)
Ma il corteggiamento di Putin da parte di Trump ha lasciato Abe in disparte. Con «gli Usa nel proprio angolo – fa notare Chellaney – la Russia «non avrà più bisogno del Giappone». Inoltre, Abe è stato indebolito dalla promessa di Trump di far ritirare gli Usa dall’accordo Trans-Pacific Partnership siglato tra 12 Paesi. Abe ha visto il Tpp «come un mezzo per evitare che la Cina dettasse le regole nel commercio asiatico», afferma l’ex direttore dell’Economist Bill Emmott. Senza il Tpp, «ora aumentano le probabilità che la Cina rivesta quel ruolo».
È nelle rovine di Aleppo, però, che si può discernere più chiaramente il probabile impatto internazionale della presidenza “America first” di Trump. Ovviamente, Trump non può essere colpevolizzato per gli sconvolgimenti in Siria. Come sostiene Christopher Hill, la débâcle in Siria è dovuta a «una manifestazione di diplomazia clamorosamente incompetente» da parte di Obama. Ma la politica estera che Hill prevede con Trump è una politica che persegue obiettivi americani «senza alcun tentativo serio di guidare il supporto internazionale, o persino di valutare altre opinioni o interessi».
Richard Haass, presidente del Council on foreign relations, è altrettanto critico rispetto alla diplomazia Usa in Siria e al precedente che crea, perché «non agire in Siria si è rivelato tanto importante quanto agire». E non solo per la Siria: il mondo ha recentemente visto gli Usa farsi da parte affinché Iran, Russia e Turchia tentassero di far cessare i combattimenti in questa regione. Indipendentemente dagli esiti della politica estera di Obama, nel Medio Oriente o altrove, la leadership e l’iniziativa geopolitica Usa saranno ancor più deficitari con Trump.
L’economia Usa secondo Trump
Di certo non lo si direbbe dai tweet di Trump, ma Obama lascia un’economia americana che è più forte di quanto non sia stata dall’inizio della presidenza di George W. Bush 16 anni fa. La crescita annua del Pil si attestava al 2,9% nel terzo trimestre del 2016; il tasso di disoccupazione è sotto il 5%; e il disavanzo di bilancio e il deficit commerciale Usa hanno registrato un calo per tutto il secondo mandato di Obama. Se Trump dovesse comportarsi come fa normalmente, si prenderebbe semplicemente il merito del successo di Obama e manterrebbe le sue politiche, che hanno chiaramente (seppur lentamente) rimediato ai massicci danni economici lasciati in eredità dalla peggiore crisi finanziaria dalla Grande Depressione.
Difficile che accada. Tutto, dai dettagli delle sue politiche economiche ai personaggi chiave scelti per implementarle, indica che Trump e il Congresso controllato dai repubblicani siano pronti a smantellare quanta più eredità di Obama possibile. Il “principio organizzatore” delle politiche economiche di Trump, secondo Simon Johnson, senior fellow del Peterson Institute for International Economics, «sembra essere quello di abbandonare del tutto il pragmatismo e procedere con un’ideologia estrema e screditata». Si tratta di un programma «strutturato attorno a massicci tagli fiscali, a una profonda deregolamentazione (anche per finanza e ambiente) e all’abrogazione della riforma sanitaria firmata da Obama, l’Affordable Care Act». E ora che i repubblicani alla Camera «hanno iniziato a pensare ai dazi sulle importazioni come parte del loro pacchetto di ’riforme’ – sostiene Johnson – inizieranno tutti ad abbracciare» il protezionismo, pur avendo recentemente supportato il TPP.
Resta tutto da vedere. Ma se Trump impone un dazio, come sembra certo, «è probabile che alcuni o tutti i partner commerciali dell’America facciano delle ritorsioni, imponendo dei dazi sulle esportazioni Usa», continua Johnson. «Dal momento che le aziende Usa orientate all’export, molte delle quali pagano salari elevati, riducono l’output, rispetto a ciò che avrebbero altrimenti prodotto, l’effetto presumibilmente sarà una riduzione del numero dei posti di lavoro buoni».
“Se Trump impone un dazio, come sembra certo, è probabile che alcuni o tutti i partner commerciali dell’America facciano delle ritorsioni, imponendo dei dazi sulle esportazioni Usa”
Simon Johnson, senior fellow del Peterson Institute for International Economics
In modo analogo, gli economisti Gita Gopinath, Emmanuel Fahri e Oleg Itskhoki sono in dubbio sull’impatto che ci sarà sulla bilancia commerciale se il team di Trump «proponesse di tagliare le aliquote fiscali sulle imprese e imponesse un adeguamento fiscale alla frontiera», che come l’imposta sul valore aggiunto, «tratterebbe le merci acquistate sul mercato interno e quelle importate in modo differente, e incoraggerebbe le esportazioni». A loro avviso, è improbabile che questa strategia funzioni «per il semplice motivo che le autorità Usa mantengono un tasso di cambio flessibile». Ipotizzando la piena implementazione delle riforme fiscali proposte da Trump, «il dollaro si apprezzerebbe insieme alla domanda di beni Usa», il che «controbilancerà qualsiasi guadagno di competitività».
Carmen Reinhart di Harvard la pensa in modo analogo sui piani di Trump. Il dollaro, fa notare, è ora in rialzo «di oltre 35% rispetto al paniere di valute dai minimi registrati nel luglio del 2011». E il costante apprezzamento dei tassi di cambio pone «un grande ostacolo al mantenimento della sua promessa» – tanto risonante negli stati della “Rust Belt” in cui ha stravinto – «di riportare il manifatturiero negli Stati Uniti, anche se per farlo bisogna imporre dazi e smantellare gli esistenti accordi commerciali».
Il presidente della Federal Reserve Janet Yellen in un’immagine d’archivio (Ap)
A Trump restano poche opzioni. Come osservano Gopinath, Fahri e Itskhoki, è improbabile che la Federal Reserve si affidi all’apprezzamento del dollaro riducendo i tassi di interesse, perché ciò alimenterebbe l’inflazione domestica. E Reinhart esclude una versione aggiornata dell’Accordo del Plaza del 1985, che progettò il deprezzamento del dollaro rispetto al marco tedesco e allo yen. «Un forte apprezzamento dello yen – sostiene – probabilmente farebbe deragliare il modesto progresso forgiato dalla Bank of Japan nell’aumentare l’inflazione e le aspettative inflazionistiche».
Inoltre, «non sarà la Bundesbank a sedere attorno al tavolo nel 2017 – bensì la – «Banca centrale europea, che sta affrontando un’altra tornata di difficoltà nella periferia» dell’Eurozona, facendo del debole euro una «manna dal cielo». E poi c’è la Cina. Ma «considerato l’impatto negativo di uno yen forte post-Plaza sulle successive performance economiche del Giappone», osserva Reinhart, «non è chiaro perché la Cina pensi cha valga la pena rafforzare il renminbi».
“Il solo fatto di pensare di trasformare il commercio in un’arma è un abbaglio politico di proporzioni epiche”
Ovviamente, l’inazione da parte della Cina potrebbe esporla a un’altra raffica di tweet furiosi – che ora riportano il sigillo presidenziale americano – sulla sua presunta “manipolazione della valuta”. Ma esattamente come Trump sembra negare gli effetti di un dollaro in salita, il suo «duro discorso» sul commercio in generale, e sulla Cina in particolare, «si è dimenticato di un fattore chiave», sostiene Stephen Roach dell’Università di Yale. È il «significativo deficit sui risparmi domestici» dell’America, fa notare Roach, a rappresentare «l’insaziabile appetito di risparmi in eccesso dall’estero, che a sua volta genera il suo cronico deficit di parte corrente e un massiccio disavanzo commerciale».
Il problema, avverte Roach, è che, diversamente dai tweet notturni di Trump, l’imminente amministrazione «sta giocando con munizioni vere» contro un avversario che possiede munizioni in abbondanza, con tutte le profonde ripercussioni globali che ciò implica. Per un leader che non è noto per un’attenta valutazione, e che si è circondato di «falchi estremisti anti-Cina», il solo fatto di pensare che trasformare «il commercio in un’arma» possa equivalere a ciò che Roach definisce «un abbaglio politico di proporzioni epiche» non è una ragione sufficiente per credere che non accadrà.
Opporre resistenza
Pur evitando questo abbaglio, secondo Chris Patten, cancelliere dell’Università di Oxford, probabilmente ve ne saranno altri, in parte perché i social media stessi, a suo avviso, sono diventati una forma di munizioni, consentendo «alle menzogne di prendere il posto della verità nei discorsi pubblici e nei dibattiti». Patton, però, presume che la verità possa tornare a galla. A suo parere basterebbe neutralizzare le falsità con i fatti: ricusare i collaboratori che citano «titoli di notizie false o dichiarazioni ignoranti e tendenziose», segnalare i notiziari fuorvianti e sollecitare «i leader della comunità a rimboccarsi le maniche e a fare lo stesso».
Peter Singer dell’Università di Princeton, però, dubita che la mera insistenza da parte di singoli individui sull’accuratezza dei fatti sia sufficiente a difendere l’integrità delle elezioni democratiche dalle false notizie. Singer cita l’esempio di un video su YouTube, che è stato visualizzato 400mila volte prima delle elezioni americane (e poi rimosso), in cui il teorico della cospirazione americana di estrema destra Alex Jones accusava «Hillary Clinton di aver personalmente ucciso, fatto a pezzi e stuprato» bambini. Rivisitando la famosa opinione concordante del giudice della Suprema Corte di Giustizia Louis Brandeis in Whitney v. California, Singer pensa che «la convinzione di Brandeis che “più parole, e non un silenzio imposto” sia il rimedio per “la falsità e le fallacie” appaia ingenua, soprattutto se applicata a una campagna elettorale». Considerato il tempo e il costo dei processi civili per diffamazione, e della loro efficacia «solo contro coloro che hanno la possibilità di pagare qualunque danno venga addebitato», Singer si chiede se sia «ora che il pendolo legale oscilli nuovamente verso il reato penale di diffamazione».
Oltre a regolamentare i discorsi, serviranno politiche più dure in altre aree. Fischer sostiene che l’Europa, in particolare, debba essere proattiva nel difendere i propri interessi, soprattutto perché la Russia considera la «debolezza o la mancanza di una minaccia da parte dei suoi vicini» non «come una base per la pace, quanto piuttosto come un invito a estendere la propria sfera di influenza». Per più di sette decenni, gli europei hanno potuto concentrarsi su altre questioni. «La vecchia Ue si trasformò in una potenza economica perché era protetta dallo scudo di sicurezza degli Usa», osserva. «Ma senza questa garanzia, può affrontare le attuali realtà geopolitiche solo sviluppando la propria capacità di mostrare forza politica e militare».
Tornando negli Stati Uniti, Laura Tyson dell’Università di Berkeley e Lenny Mendonca del Presidio Institute sono del parere che stato e governi locali possano altresì offrire un efficace fonte di resistenza. «La risposta al trumpismo – sostengono – è “il federalismo progressista”: la ricerca di obiettivi politici progressisti avvalendosi della sostanziale autorità delegata ai governi subnazionali nel sistema federale Usa». In particolare, stati come la California, che vanta la sesta più grande economia del mondo e ha votato massicciamente per la Clinton, possono diventare il fulcro di ciò che Tyson e Mendonca chiamano «federalismo non cooperativo», che implica «rifiutare di condurre politiche federali cui ci si oppone». A titolo esemplificativo, la legislatura dello stato sta considerando «nuove proposte di legge per finanziare servizi legali per gli immigranti contro la deportazione e bandire l’uso di risorse statali e locali per l’applicazione delle leggi sull’immigrazione per motivi costituzionali».
Catturare la bandiera?
La cosa più importante, suggerisce Sierakowski, è smettere di pensare che il populismo si possa semplicemente autodistruggere. Certo, un fattore chiave di vulnerabilità dei governanti populisti, secondo Sergei Guriev, capo economista della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, è la loro convinzione di «essere i soli a poter risolvere i problemi dei loro Paesi». Trump lo ha detto esplicitamente, e poiché «sono in molti a considerare un Ceo di successo come qualcuno in grado di mantenere obiettivi ben definiti», fa notare Guriev, «giungono alla conclusione che un imprenditore possa risolvere problemi sociali che un politico non è in grado di risolvere».
Ma è sbagliato, perché secondo Guriev si pensa che i leader politici «con un’ottica imprenditoriale siano più concentrati sull’efficienza che sull’inclusione». Se però da un lato «il leader aziendale può eliminare posti di lavoro ed emettere indennità di licenziamento ai lavoratori in esubero», i governi devono preoccuparsi di «ciò che accade a questi lavoratori successivamente». Il rischio, quindi, è che quando una mentalità aziendale ispira la politica, «le riforme ignorano o allontanano troppi elettori», facendo perdere ai leader popolarità.
Per Sierakowski, questo è quello che secondo molti accadrà inevitabilmente ai governi populisti. E aggiunge, «la visione convenzionale di ciò che attende gli Usa (e forse la Francia e i Paesi Bassi) nel 2017 è un erratico governante che attua politiche contradittorie che vanno principalmente a beneficio dei ricchi». Con il ritorno di Jaroslaw Kaczyński al potere in Polonia un anno fa, i suoi avversari erano proprio convinti che: il suo governo (in cui non riveste alcun ruolo formale) «avrebbe funzionato a vantaggio dei ricchi, creato caos e avrebbe rapidamente commesso degli errori – che è esattamente quello che è accaduto nel 2005-2007», la prima volta che salì al potere il PiS.
Ma non questa volta. Secondo Sierakowski, il PiS si è «trasformato da nullità ideologica in un partito che è riuscito a introdurre degli scioccanti cambiamenti a velocità record e in modo efficiente». Invece delle precedenti politiche economiche neoliberali, il PiS ha «attuato i più grandi trasferimenti sociali nella storia contemporanea della Polonia», così inducendo un «calo del tasso di povertà nell’ordine del 20-40%, e del 70-90% tra i bambini». Le generose prestazioni previdenziali, unite al nazionalismo socialmente conservatore, si sono rivelate altamente efficaci nell’assicurarsi il supporto degli elettori. Di fatto, fintanto che Kaczyński «controlla questi due baluardi del sentimento degli elettori, è al sicuro», crede Sierakowski. «Coloro che tentano di opporsi a Trump», conclude, «possono tirare le proprie conclusioni da questo fatto».
Ma in che modo l’esperienza della Polonia si può applicare ad altri Paesi in generale, e agli Usa in particolare? Johnson di Inet riconosce la possibilità che il trumpismo possa diventare una forza politica durevole. A suo avviso, «se i repubblicani fanno passare un pacchetto di crescita keynesiano nei prossimi due anni che aumenti i salari, potrebbero assicurarsi la presa di potere per molti anni a venire», anche quando «ignorano o indeboliscono i diritti delle donne e dei lavoratori, la tutela ambientale e l’istruzione pubblica».
“È probabile che l’espansione fiscale proposta da Trump vada nuovamente e sproporzionatamente a vantaggio degli abbienti, senza prendere in considerazione il resto degli americani”
Simon Johnson, senior fellow del Peterson Institute for International Economics
Ma Johnson non è convinto che i repubblicani siano inclini ad adottare le riforme necessarie a garantire un’ampia condivisione dei benefici derivanti dalla crescita. Anzi, «è probabile che l’espansione fiscale proposta da Trump vada nuovamente e sproporzionatamente a vantaggio degli abbienti, senza prendere in considerazione il resto degli americani». Fa notare che mentre «i “partenariati pubblico-privato” sono stati promossi come un mezzo per indirizzare il capitale verso un’azione di ricostruzione nazionale», l’esperienza degli ultimi anni dimostra che «tali misure possono essere manipolate, e spesso portano a risultati del tipo “testa vinco io, croce perde il contribuente” di cui hanno beneficiato Wall Street e la Silicon Valley».
Ovviamente, non è da escludersi il consolidamento del trumpismo. Il rapido abbraccio del protezionismo da parte dei repubblicani al Congresso, insieme al rapido ritiro della proposta di smantellare l’organismo indipendente che controlla il Parlamento, ossia l’Office of Congressional Ethics, suggerisce che con buona probabilità accetteranno Trump – anche su questioni di presunto principio – per restare al potere. Ma conta anche il contesto. Il sistema elettorale e i partiti politici d’America sono molto più centrati sul candidato di quanto non siano in altri Paesi avanzati, creando un significativo spazio per l’opposizione dall’interno. E così è stato con il conflitto di Trump con i senatori repubblicani e le agenzie di intelligence americane per aver rifiutato le accuse ben fondate secondo cui la Russia avrebbe effettuato degli attacchi hacker per manipolare l’elezione a suo vantaggio.
Inoltre, mentre la Polonia vanta una delle società etnicamente più omogenee del mondo, per gli Usa vale il contrario. Significa che il capitale politico che si può ottenere dal discorso anti-immigrati – che secondo Sierakowski gli avversari di Kaczyński dovrebbero adottare per sconfiggerlo – è di gran lunga più limitato negli Usa. Gli alleati di Trump finiranno col compromettere i propri valori. Se i suoi avversari faranno altrettanto, scopriranno che pessime decisioni politiche equivalgono a una pessima politica.
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