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Autore Discussione: Paolo Legrenzi Cinquanta sfumature di né vero né falso  (Letto 2549 volte)
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« inserito:: Novembre 28, 2016, 08:47:42 pm »

Cinquanta sfumature di né vero né falso

    –di Paolo Legrenzi 26 novembre 2016

L’Oxford Dictionary si arricchisce ogni anno di una nuova parola. Nel 2016 ha scelto «post-truth», un termine che descrive il nuovo mondo del «dopo-verità». Il termine non allude alle panzane dei politici. Da sempre, in occasione di uno scontro acceso, volano molte frottole. Stefano Pivato ha ricostruito nel saggio Quando i comunisti mangiavano i bambini la storia di quella che probabilmente è l’invenzione più riuscita della propaganda anti-comunista nelle elezioni del 1948. Nel manifesto un bimbo indifeso si rivolge al padre: Papà salvami!

La post-verità è altra cosa. Abbiamo a che fare con la creazione di un fatto preciso che si presume accaduto e documentabile. Ma è post-vero, nel senso che è solo verosimile. A nessuno importa controllare se è falso. In questo senso il post-vero è inattaccabile perché è anche post-falso. Un caso recente mostra come funzionano le cose. La storia inizia a Austin, in Texas, quando Eric Tucker, alle 8 di sera del 9 novembre, mette su Twitter la foto di un autobus e commenta: «Le proteste anti-Trump non sono così spontanee come sembra. Ecco l’arrivo dei partecipanti». In quel momento solo 40 persone seguono i messaggi di Tucker. Sapendo della protesta nella sua città, e trovata una foto su Google, Tucker suppone (in buona fede, dice lui) che l’autobus sia quello usato dai dimostranti (in realtà si tratta di partecipanti a una conferenza). Il giorno dopo, alle 12.49, l’immagine compare sul sito di Trump. In poco tempo la notizia rimbalza 16mila volte su Twitter e 350mila volte su Facebook. La compagnia degli autobus smentisce. Eric Tucker, interpellato dai giornalisti, spiega: «Ero rimasto colpito dall’immagine degli autobus e sapevo delle proteste». Ammette però: «Non ho visto le persone con i miei occhi». Trump commenta: “Molto scorretto. I professionisti della protesta incitati dai media”. A quel punto Tucker toglie la notizia dal suo sito. Troppo tardi. La valanga procede. A mezzanotte Tucker rimette sul sito la foto con la scritta: FALSO. Riceve solo 29 risposte. Nessuno gli bada più. Dopo una settimana i suoi seguaci sono diventati 980 e Tucker, ingenuo, confessa: «Cercherò in futuro di fare affermazioni meglio documentate «. Tucker non conosce le regole con cui funziona l’attenzione, selezionata dall’evoluzione naturale per essere risucchiata da aspettative e schemi già predisposti.

In questa storia si manifesta tutta la nuova potenza della rete, ma ci sono anche tracce d’antico. Gaetano Kanizsa, il fondatore dell’istituto di psicologia di Trieste, nel 1952 presenta a 23 studenti di una scuola di assistenti sociali un test che consiste nel tracciare uno scarabocchio senza mai staccare la matita dal foglio. Si dice che la forma dello scarabocchio permette una diagnosi di personalità. In realtà Kanizsa presenta la stessa descrizione di personalità a tutti i partecipanti. È uguale, ma è fatta bene, in modo apparentemente circostanziato: la maggioranza dei partecipanti vi si ritrova. Paolo Zordan, nel 2000, ripete l’esperimento con 28 studenti del quinto anno di una facoltà di psicologia. Tutti gli studenti, tranne uno, credono che la diagnosi sia aderente, non inventata. Credono perché desiderano credere. E desiderano credere perché vogliono diventare psicologi clinici. Questo meccanismo di auto-inganno, per lo più inconsapevole, oggi riesce a nutrirsi delle miriadi d’informazioni presenti in rete. Una persona sceglie quelle che le danno ragione e può capitarle di innescare gruppi di seguaci.

La quintessenza dell’incapacità di pensiero critico, la totale mancanza di buona logica.

Chiamato in causa, il co-fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, risponde: «Non siamo arbitri della verità!» (come fare con 1.8 miliardi di utilizzatori?).

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