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Autore Discussione: Giuliano Battiston Intervista Bauman: 'L'imbroglione Trump è un veleno, ...  (Letto 2004 volte)
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« inserito:: Novembre 14, 2016, 05:26:14 pm »

Intervista

Bauman: 'L'imbroglione Trump è un veleno, venduto come antidoto ai mali di oggi'

La riflessione del decano dei sociologi europei sul nuovo Presidente Usa.
Domenica sull'Espresso in edicola Lezioni Americane: nello speciale, Ian Buruma, Massimo Cacciari, Marco Damilano, William Frey, Marco Pacini, Jake Gyllenhaal e la storia illustrata da Makkox


Di Giuliano Battiston
11 novembre 2016

Per Zygmunt Bauman, decano dei sociologi europei, tra i più autorevoli pensatori contemporanei, la vittoria elettorale di Donald Trump è un sintomo allarmante: riflette il divorzio ormai avvenuto tra potere e politica, da cui deriva un vuoto, un divario colmato da chi promette soluzioni facili e immediate a problemi complessi e sistemici, attingendo al ricco serbatoio della retorica populista.

Trump – spiega Bauman a l'Espresso – ha saputo giocare abilmente la carta dell'outsider e dell'uomo forte, combinando una politica identitaria discriminatoria e l'enfasi sulle ansie economiche dei cittadini americani, figlie del passaggio da un modello economico inclusivo a un modello che esclude, marginalizza e crea veri e propri esiliati. Trump si è presentato come l'antidoto alle incertezze del nostro tempo, ma è un veleno, sostiene Zygmunt Bauman, per il quale la vittoria dell'imprenditore statunitense lascia presagire il rischio che i tradizionali meccanismi di tutela democratica vengano sostituiti «dall'agglutinamento del potere in modelli autoritari o perfino autoritari».   
I dimenticati del nuovo secolo hanno fatto la rivoluzione. A destra, perché la sinistra non li ha voluti vedere. Uno shock epocale che non riguarda solo gli Stati Uniti ma che scuote il concetto stesso di Occidente. Sulla copertina di questa settimana l'analisi di Ezio Mauro e la storia illustrata degli Stati (dis)Uniti d’America disegnata da Makkox. Tra gli altri servizi del numero in edicola da domenica 13 novembre, l'intervista esclusiva al direttore generale della Rai Antonio Campo Dall'Orto sulle promesse disattese della Tv di Stato. Ecco la presentazione del nuovo numero di Tommaso Cerno e Marco Damilano
      
Negli Stati Uniti e in Europa la reazione prevalente alla vittoria di Trump, perlomeno negli ambienti progressisti, è stata di stupore e paura. C'è chi ha parlato di «un grande pericolo», chi di «una sfida al modello democratico occidentale», chi di «una tragedia per la repubblica americana e per la Costituzione». Questi toni a tratti apocalittici le sembrano appropriati?
Le visioni apocalittiche spuntano fuori ogni volta che la gente entra nel “grande territorio sconosciuto”: quando si è certi che nulla, o molto poco continuerà a essere così come è stato, e non si ha alcun indizio su ciò che è destinato ad accadere o su ciò che probabilmente sostituirà quel che ci lasciamo alle spalle. Le reazioni alla vittoria di Trump hanno proliferato velocemente. La cosa sorprendente è che siano tutte consensuali: così come è successo nel caso del voto per la Brexit, si interpreta il voto per Trump come una protesta popolare contro l'establishment e l'elite politica del Paese nel suo complesso, nei confronti dei quali una larga parte della popolazione ha maturato una crescente frustrazione per aver disatteso le aspettative e non aver mantenuto le promesse fatte. Non sorprende che tali interpretazioni siano particolarmente diffuse tra coloro che hanno forti interessi acquisiti nel mantenimento dell'attuale establishment politico.

Mentre Trump ha giocato proprio la carta dell'outsider...
Non essendo parte di tale elite, non avendo ricoperto alcun incarico elettivo, provenendo “dal di fuori dell'establishment politico” ed essendo ai ferri corti perfino con il partito di cui era formalmente membro, Trump ha offerto un'occasione unica per una condanna, senza appelli, contro l'intero sistema politico. Lo stesso è successo nel caso del referendum britannico, quando tutti i principali partiti politici (dai conservatori al Labour e ai Liberals) si sono uniti nella richiesta di restare nell'Unione europea, così che ogni cittadino ha potuto usare il proprio voto per esprimere il disgusto per il sistema politico nella sua interezza. Un altro fattore, complementare, è stato la notevole brama della popolazione affinché l'infinita litigiosità parlamentare, inefficace e impotente, venisse

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E poi muri da erigere, dittatori da esaltare, immigrati da deportare, bufale da cavalcare. È giunto il momento di analizzare la credibilità di questo candidato attraverso le sue stesse parole. Perché sì, Donald Trump può diventare il nuovo presidente degli Stati Uniti d'America sostituita dalla volontà indomita e inoppugnabile di “un uomo forte” (o di una donna forte), capace con la sua determinazione e con le sue doti personali di imporre in modo immediato, senza tentennamenti e temporeggiamenti, soluzioni veloci, scorciatoie, decisioni vere. Trump ha costruito abilmente la propria immagine pubblica come una persona ricca di quelle qualità che l'elettorato sognava. Quelli appena citati non sono gli unici fattori che hanno contribuito al trionfo di Trump, ma sono senz'altro cruciali. Al contrario, la trentennale appartenenza di Hillary Clinton all'establishment e la sua agenda politica frammentata e compromissoria hanno giocato contro la popolarità della sua candidatura.

Concorda con quanti si spingono a leggere la vittoria di Trump come una manifestazione della crisi del modello democratico occidentale?
Credo che stiamo assistendo all'accurato svisceramento dei principi della “democrazia”, che si presumeva fossero intoccabili. Non credo che il termine in sé verrà abbandonato, almeno come termine con cui descrivere un ideale politico, anche perché quel “significante”, come lo avrebbe definito Claude Levi-Strauss, ha assorbito ed è ancora capace di generare molti e differenti “significati”. C'è però una chiara possibilità che i tradizionali meccanismi di salvaguardia (come la divisione di Montesquieu del potere in tre ambiti autonomi, il legislativo, l'esecutivo e il giudiziario, o il sistema britannico di checks and balances) escano in qualche modo dal favore pubblico e vengano privati di significato, sostituiti in modo esplicito o di fatto dall'agglutinamento del potere in modelli autoritari o perfino dittatoriali. Le citazioni che lei ha riportato come reazioni alla vittoria di Trump indicano tutte una preoccupazione comune, sono sintomatiche di una tendenza crescente, che esiste: la tendenza a riportare – per così dire – il potere dalle nebulose vette elitarie dove è stato collocato o dove è stato trascinato verso “casa”. La tendenza dunque a riportare il potere all'interno di una comunicazione diretta tra l'uomo forte al vertice da una parte e dall'altra l'aggregazione dei suoi sostenitori e soggetti di potere, equipaggiati con i social network come strumenti di indottrinamento e di sondaggio delle opinioni.

Nel corso della campagna elettorale, Trump ha molto insistito sulle questioni razziali e sul nazionalismo più insulare e discriminatorio, ma non ha fatto appello solo a questi temi. Al di là degli attacchi sistematici verso i “diversi”, ha giocato la carta dell'incertezza economica di tutti quei cittadini americani che hanno la percezione di essere stati defraudati dai processi di globalizzazione. I due aspetti – l'ansia economica e l'ansia verso gli “altri” – sono legati? E come?

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Il trucco è stato proprio quello di connettere i due aspetti, di renderli inseparabilmente legati e di rafforzarli vicendevolmente. È ciò che è riuscito a fare Trump, un supremo imbroglione (anche se non è il solo nel panorama politico mondiale). Sono incline ad andare perfino oltre nell'analisi dell'uso che Trump ha fatto del matrimonio tra politica identitaria e ansia economica, perché credo che sia riuscito a condensare tutti gli aspetti e i settori dell'incertezza esistenziale che perseguita ciò che è rimasto della classe lavoratrice e della classe media, indottrinando coloro che soffrono con l'idea che l'espulsione degli stranieri, di quanti sono etnicamente diversi, degli stranieri appena arrivati rappresenti la tanto agognata “soluzione veloce” che li potrebbe ripagare in un colpo solo di tutta la loro ansia e incertezza.

Tra quanti hanno votato Trump, alcuni fanno parte della categoria degli “espulsi”: quei cittadini che facevano parte di un “contratto sociale” ma che ne sono stati espulsi forzatamente, insieme a quelli, giovani ma non solo, che non ne sono stati parte e non lo saranno mai in futuro. La vittoria di Trump rappresenta la fine del modello economico inclusivo, keynesiano, del dopoguerra, sostituito da un modello di segno opposto, che esclude?
Il passaggio da una visione del mondo, da una mentalità e da una politica economica che include a una che esclude non è affatto nuovo. È stato un passaggio strettamente sincronizzato con un altro salto qualitativo, quello da una società di produttori a una società di consumatori, che non sarebbe stato possibile senza la marginalizzazione, ovvero la creazione di una “sottoclasse” che non soltanto è degradata rispetto alla società delle classi, ma ne è stata del tutto esiliata, una categoria di “consumatori fallati” talmente esclusa da non poter essere riammessa. L'attuale tendenza verso la “securitizzazione” dei problemi sociali aggiunge acqua allo stesso mulino: rende le reti dell'esclusione ancora più ampie, mentre trasferisce coloro che finiscono in queste reti da una categoria che, per quanto inferiore, rimaneva di segno “positivo”, a una divisione che, per quanto morbida, rimane micidiale, sinistra e tossica. 

In alcuni suoi libri, per esempio ne La solitudine del cittadino globale, lei analizza ciò che definisce come «la trinità malvagia», l'incertezza, l'insicurezza e la vulnerabilità, sentimenti prevalenti in un mondo in cui è avvenuto il divorzio tra potere e politica. È inevitabile che tale divorzio conduca all'uomo forte o al populismo?
Sì, tendo a credere che sia inevitabile. Il divorzio a cui fa riferimento lascia dietro di sé un divario – un divario che si sta spaventosamente allargando – dal quale emana la combinazione avvelenata della disperazione e della sfortuna. Gli strumenti ortodossi, che credevamo familiari e disponibili, per combattere e respingere efficacemente i problemi e le ansie che ci attanagliano sono ormai spuntati. Soprattutto, non si crede più che possano mantenere quanto promettono. Per una società nella quale sempre meno persone ricordano, di prima mano, cosa significasse vivere sotto un regime totalitario o dittatoriale, l'uomo forte – non ancora sperimentato - non sembra un veleno, ma un antidoto: per le sue presunte capacità di saper fare le cose, per le soluzioni veloci e istantanee, per gli effetti immediati che promette di portare come corredo alla sua nomina.   

Beppe Grillo, il leader italiano del Movimento Cinque Stelle, ha sottolineato le similitudini tra le vittorie elettorali del suo partito e quella di Trump scrivendo che «sono quelli che osano, gli ostinati, i barbari, che porteranno avanti il mondo. E noi siamo i barbari!». È tempo che l'establishment faccia veramente i conti con i nuovi barbari?
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In Europa, i vari Grillo sono molto numerosi. Per coloro per i quali la civiltà ha fallito, i barbari sono i salvatori. In alcuni casi è ciò che loro si sforzano in tutti i modi di far credere per convincere i creduloni che sia proprio così. In altri casi è ciò che desiderano ardentemente credere coloro che sono stati abbandonati e dimenticati nella distribuzione dei grandi doni della civiltà. Alcuni membri dell'establishment potrebbero essere impazienti di approfittare dell'occasione, dal momento che coloro che credono nella vita postuma a volte sono disposti a suicidarsi.

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11 novembre 2016

Da - http://espresso.repubblica.it/internazionale/2016/11/11/news/bauman-l-imbroglione-trump-e-un-veleno-venduto-come-antidoto-ai-mali-di-oggi-1.288155?ref=HRBZ-1
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