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Autore Discussione: Franco Bassanini - Il ritorno del governo snello  (Letto 3331 volte)
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« inserito:: Novembre 10, 2007, 11:01:18 pm »

Se la riforma verra' approvata ci avvicineremo agli altri grandi paesi europei

Il ritorno del governo snello

Lettera di Bassanini al Corriere: il limite di 60 membri servirà a rendere l'esecutivo più efficiente


Caro direttore, le buone riforme hanno, in Italia, vita difficile.

Ma qualche volta ritornano. Torneremo al Governo snello, previsto dalla riforma Bassanini del 1997: non più di 60 tra ministri e sottosegretari. La decisione del Senato ieri è stata quasi unanime: l'opposizione ha votato contro, ma solo perché avrebbe voluto far partire da subito la «cura dimagrante».

Ma due ministri (Mastella e Bonino) l'hanno definita una «misura demagogica», un cedimento alla campagna di stampa per la riduzione dei costi della politica; e molti la pensano come loro, anche se non osano sfidare una opinione pubblica contraria ai governi pletorici; e invitano a pensare piuttosto alla efficacia degli esecutivi, alla loro capacità di scegliere e attuare politiche pubbliche innovative e coraggiose. Senza capire che proprio a questo serve un governo più snello. La scelta del Senato non è infatti importante solo per il suo effetto diretto sulla riduzione dei costi della politica. Cinquanta ministri e sottosegretari in meno comportano certo una equivalente riduzione di gabinetti, segreterie politiche, uffici stampa, squadre di consulenti e portaborse. Ma ciò resterà una goccia nel mare della spesa pubblica.

E' però solo partendo dal Governo, e proseguendo col taglio del numero dei parlamentari (che la Camera ha appena deciso), che si potrà avviare una drastica potatura delle dimensioni pletoriche di tutti gli organismi politico-rappresentativi. Il buon esempio deve venire dall'alto. Solo così Governo e Parlamento potranno pretendere una forte riduzione del numero degli assessori e dei consiglieri regionali, provinciali e comunali, dei consigli di amministrazione delle società pubbliche regionali e locali, della pletora di organismi, enti, agenzie e consorzi, non di rado nati più per soddisfare esigenze di collocamento del ceto politico che per produrre in modo più efficiente i beni e i servizi pubblici di cui il Paese ha bisogno. La ristrutturazione del Governo, con la progressiva riduzione dei ministeri da 22 a 12, non era il tassello più importante della riforma dell'amministrazione avviata negli anni Novanta. Ma riportava l'Italia nell'alveo delle democrazie europee, che hanno tutte gabinetti più snelli e ministeri più compatti.

Non occorre consultare i trattati di scienza dell'organizzazione per capire che un gabinetto più snello è in grado di decidere più rapidamente e più efficacemente di un'assemblea pletorica e affollata. E il nostro secolo impone ai governi decisioni efficaci e rapide, per far fronte a sfide inedite (la competizione globale, i grandi flussi migratori, il bisogno di sicurezza, la sfida del terrorismo, il problema climatico e ambientale, la finanziarizzazione dei mercati). Ma c'è di più. La riforma del 1999 fu il prodotto di anni di studi e di confronto con le esperienze internazionali. Può essere criticata e rivista. Ma sulla base di studi e confronti altrettanto seri. Sa la Bonino che l'Italia era allora il solo Paese dell' Ocse ad avere un ministero del Commercio estero ad hoc (in 17 Paesi il Commercio estero stava con le Attività produttive, in 12 con gli Affari esteri)? Sanno i sostenitori dei governi «all'italiana » che nessun Paese dell'Unione Europea si presentava alle riunioni di Ecofin con due ministri (le Finanze, competente per le entrate, il Tesoro, competente per l'equilibrio del bilancio e il contenimento della spesa)? Che nessun Paese della Ue aveva un ministro delle strade (Lavori Pubblici) e uno delle ferrovie (Trasporti)? Che nessun Paese europeo ha, come noi oggi, quattro ministri competenti in materia di Welfare? Se più ministeri si spartiscono lo stesso settore, aumentano i conflitti di competenze, le duplicazioni e sovrapposizioni, la necessità di concerti e coordinamenti: cresce la spesa, diminuiscono la rapidità ed efficacia delle decisioni, si confondono le responsabilità.

Se ad ogni grande missione pubblica corrisponde invece un solo ministero, le responsabilità sono chiare, cittadini e imprese sanno a chi rivolgersi, il coordinamento delle azioni è più semplice. Prendiamo esempio dalle grandi democrazie europee. Al confronto, il limite di 60 è già generoso. Il governo Sarkozy-Fillon conta 15 ministri e 16 sottosegretari; simile è il formato dei governi della Merkel e di Zapatero. È vero, non hanno quei Paesi maggioranze formate da una decina di partiti. Ma ciò significa solo che dobbiamo seguire quegli esempi fino in fondo. E quindi adottare sistemi elettorali che, come quelli in uso in Francia, Germania e Spagna, riducano la frammentazione dei partiti e consentano agli elettori di affidare il governo del Paese a coalizioni stabili e omogenee.

Franco Bassanini
10 novembre 2007

DA corriere.it
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