Parla Tom Wolfe, un magnifico attaccabrighe di 85 anni
Ha raccontato la generazione Lsd e gli astronauti, inventato l’espressione "radical chic" per dissacrare quel tipo di sinistra e malmenato l’architettura moderna.
Ora a chi tocca? A Chomsky e addirittura a Darwin
Dal nostro inviato Riccardo Staglianò
10 novembre 2016
NEW YORK. Parafrasando quel che si diceva del celebre cowboy cinematografico, Tom Wolfe è uno scrittore dotato di due espressioni: con macchina da scrivere e senza. In quest’ultima configurazione coincide perfettamente con la sua iconografia, comprensiva di completo bianco d’ordinanza, ghette bicolori e altri vezzi da dandy. Nel corpo a corpo solitario con la pagina, invece, si trasforma in un attaccabrighe sempre pronto a menare le mani. «Odio dirlo ma David McDaniel ha l’aspetto e il comportamento più diabolici che abbia mai visto. Assomiglia al tipico giappo dei fumetti» scrive ai genitori, circa un compagno di classe, alla feroce età di dodici anni. A ventisei il preside di Yale rifiuta la prima versione della sua tesi di dottorato sulle «influenze comuniste sugli scrittori americani dal 1928 al 1942» perché, oltre a prendersi delle libertà sui fatti, «tende costantemente alla denigrazione». A trentanove anni vara e affonda, in un colpo solo, la categoria dei radical chic.
Oggi quest’uomo apparentemente mitissimo, inchiodato sul divano del salotto Art déco da un’artrosi spietata, con uno Steinway a coda sovrastato da quattro finestre spettacolari su Central Park, ha riservato il suo trattamento scarnificante a Noam Chomsky, forse il più grande linguista di tutti i tempi («Ha traslocato la materia dagli studi sul campo all’Olimpo dell’accademia. Come se non bastasse ha dato ai suoi colleghi il permesso di lavorare al fresco dell’aria condizionata»). Già che c’era, sul ring con il quasi coetaneo (172 anni in due), ha trascinato anche Charles Darwin: «La selezione naturale convince quando parliamo di animali ma, per gli uomini, non supera i cinque criteri standard del metodo scientifico». Questa coppietta di avversari da niente avrebbe sulla coscienza soprattutto il non essere riuscita a spiegare l’origine del linguaggio, la facoltà chiave che ci distingue dalle altre specie. Così, dopo sedici anni, il principe del new journalism è tornato alla saggistica con Il regno della parola (Giunti) per dimostrare che il papà della grammatica generativa e quello dell’evoluzionismo sono, nel migliore dei casi, dei sopravvalutati.
Perché, tra tutti i temi possibili, ha deciso di occuparsi proprio di questo?
«Avevo sempre pensato che l’evoluzione fosse un argomento piuttosto noioso, sin quando non ho riletto La bestia umana di Zola, il cui realismo resta uno dei più grandi contributi alla letteratura. Dalle spiegazioni darwiniane restava fuori proprio il linguaggio, a mio modo di vedere la facoltà più decisiva che ci differenzia dagli animali. Più leggevo più mi convincevo che l’idea che si tratti di un nostro tratto naturale e congenito fosse un mito come tanti, però propagandato da scienziati»...
Continua sul Venerdì dell'11 novembre
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10 novembre 2016
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