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Autore Discussione: CARLO AUGUSTO VIANO. I danni collaterali del terrorismo: inquinamento da valori  (Letto 2539 volte)
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« inserito:: Marzo 28, 2016, 07:37:47 pm »

I danni collaterali del terrorismo: inquinamento da valori
Di CARLO AUGUSTO VIANO

È dalla prima modernità che è diventato difficile stabilire i confini fra ciò che è guerra e ciò che non lo è. La recente ondata di violenza islamista non ha fatto che rafforzare questa tendenza. Gli attacchi che vi si collegano sono interpretabili con l'aiuto della categoria di “guerra” o con quella di “terrorismo”. Sono tuttavia certi i suoi effetti collaterali: il rinascente inquinamento da valori.

Perché ci siano danni collaterali sembra necessario che ci sia una guerra, con nemici e obiettivi ben identificabili; i danni collaterali sono quelli subiti dalle persone che non combattono e dalle cose che non sono mezzi diretti con i quali si conduce la guerra. Come ben sapeva Ugo Grozio, tracciare i confini entro i quali dovrebbe essere contenuta la violenza bellica non è facile, anche se questa operazione appariva più semplice quando le guerre erano soprattutto scontri tra eserciti, per alterare aspetti ben definiti delle relazioni esterne tra stati; in realtà anche allora gli eserciti saccheggiavano e uccidevano persone inermi e le guerre avevano conseguenze pesanti su popolazioni non direttamente interessate ai conflitti. Ma già per Grozio non era sempre facile dire se ci fosse una guerra o no. Era olandese e molto interessato alla rivolta che opponeva gli olandesi alla corona spagnola; ma una ribellione del genere era una vera guerra legittima? L’Europa moderna andava organizzandosi in monarchie, eredi dell’idea imperiale romana, mentre le repubbliche, come Genova e Venezia, sembravano residui della società medievale; l’Olanda, una repubblica “nuova” e anacronistica, nata dalla ribellione contro gli spagnoli, pretendeva addirittura di dare dignità di guerra alla propria rivolta, con cui violava il principio che le guerre le fanno i re. Grozio doveva mostrare che anche gli olandesi, con la loro dubbia repubblica senza storia, potevano fare una guerra legittima, anzi potevano fare una guerra di corsa sui mari, che non hanno confini, eludendo le limitazioni delle guerre che nascono da controversie territoriali. Quando la repubblica olandese ebbe trovato un posto nel sistema europeo, Grozio diede un assetto alle proprie dottrine, elaborando l’idea che la guerra non fosse una faccenda riservata ai re e sostenendo che anche società senza re potevano fare la guerra.

Per inserire le repubbliche tra gli stati autorizzati a condurre guerre, Grozio doveva ammettere che anch’esse hanno ciò che sembrava prerogativa dei re, cioè la sovranità: era come se anche le repubbliche dovessero indossare la “maschera da re”, per essere ammesse nel contesto internazionale e per poter intraprendere guerre vere e proprie. Se la guerra era una cosa da re, poteva perfino conservare qualcosa di cavalleresco. Già i romani avevano codificato le cerimonie con le quali le guerre incominciano, si conducono, si sospendono e finiscono. Ancora una volta fu una repubblica, nata dall’abbattimento della monarchia francese, a cambiare l’immagine della guerra, facendone una vicenda di popoli; e, anche quando tornarono i re, i popoli continuarono a essere sempre più coinvolti nelle guerre. Se c’erano ancora dichiarazioni di guerra e re che si vestivano da generali, le guerre coloniali e le rivoluzioni, come si chiamarono le guerre civili, erano conflitti per nulla cerimoniali, nei quali la distinzione tra eserciti combattenti e persone estranee alla guerra era sempre meno chiara. Diventati protagonisti, i popoli furono sempre più esposti alle azioni di guerra e coinvolti nelle loro conseguenze. Ricordo ancora il discorso con cui Mussolini annunciava a una “folla oceanica”, adunata in Piazza Venezia a Roma, di aver consegnato la dichiarazione di guerra agli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna, mescolando antichi cerimoniali con moderne manipolazioni di massa; ma Hitler non perdeva tempo con formalità del genere. C’erano anche ragioni tecniche per le quali i popoli hanno finito con il subire sempre più la violenza diretta della guerra, perché le armi erano sempre più distruttive e la forza bellica dipendeva sempre più dalla capacità produttiva di un paese, che andava colpita, se si volevano mettere fuori gioco le sue forze armate. Era, su larga scala, la condizione tipica delle guerre di assedio. E tuttavia, anche se si contava sulla distruzione della resistenza di un popolo, pur senza ammetterlo esplicitamente, non era del tutto gratuita la distinzione tra i danni collaterali veri e propri, subiti dalla popolazione inerme per la sua contiguità con gli obiettivi primari, militari o produttivi, e i danni intenzionalmente inferti alla popolazione, per fiaccarne la resistenza. Quando in Giappone la guerra divenne totale, con l’uso di piloti suicidi, gli americani lanciarono le bombe atomiche per colpire la popolazione delle città, rendendo esplicita e radicale una linea di condotta già emersa con i bombardamenti delle città in Europa e in Estremo Oriente.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale e sotto l’incubo di una guerra nucleare totale, l’idea di guerre limitate è ritornata. In guerre di questo genere le armi più recenti, nonostante l’ironia che si è fatta sulle bombe intelligenti, hanno permesso di ridurre i danni collaterali, e la cosa è andata di pari passo con guerre non più giustificate con riferimenti espliciti a politiche di potenza o di conquista territoriale, ma intraprese, almeno formalmente, per rimediare a violazioni dell’ordine internazionale, imporre la pace, impedire pulizie etniche ecc. Fissando obiettivi limitati e usando armi sofisticate, si è preteso di colpire soltanto i colpevoli, riducendo al minimo i danni collaterali.

Le guerre limitate, mirate e ad alta tecnologia hanno però prodotto una risposta terroristica, che è l’esatto contrario delle guerre alle quali intendeva rispondere, perché il terrorismo colpisce a caso, ma sistematicamente, persone estranee ai conflitti in corso. La tesi che il terrorismo dipenda dalle guerre intraprese dopo la fine del blocco sovietico sembra largamente condivisa, anche da chi ha orientamenti ideologici contrari. C’è chi sostiene che delle violenze presenti nel mondo è responsabile sostanzialmente l’occidente capitalistico, una tesi che piace abbastanza “a sinistra”, dove la condanna del terrorismo, spesso pronunciata per inciso, a fior di labbra, è la premessa di vibrate denunce delle colpe di capitalisti e americani. Ma si tratta di cose parzialmente condivise “a destra”, dove si ammette che il terrorismo è una reazione a guerre, giustificate però, anche se magari improvvide, una reazione indiscriminata, irrispettosa dei limiti che in quelle guerre si era cercato di porre alle azioni belliche. Ed è questa reazione che sta ponendo l’occidente in stato di guerra, costringendolo a difendersi.

Proprio quest'ultimo punto, che ci sia una guerra tra occidente e mondo islamico, non è affatto pacifico, Si può dire che paesi come gli Stati Uniti, l’Inghilterra o la Francia, colpiti da attacchi terroristici, siano in guerra? Quando ricorsero agli attentati suicidi, i palestinesi presentarono la cosa in modo laico e pragmatico, come l’“atomica dei poveri”, un’arma da cui era difficile difendersi, perché era difficile prevedere e prevenire il suo uso, che richiedeva preparazione modesta, dal momento che non si doveva provvedere alla sicurezza degli attentatori. Si realizzava così la guerra asimmetrica, in cui si affrontavano società sensibili alla sicurezza dei combattenti e società indifferenti alla loro incolumità. I palestinesi avevano un nemico preciso, i “sionisti”, che avevano invaso la loro terra e che andavano cacciati; gli attacchi suicidi erano uno dei mezzi usati in una guerra tra nemici ben definiti. Ma quella tra israeliani e palestinesi era una vera guerra? I palestinesi non erano uno stato, semmai un movimento di liberazione, come ce n’erano stati e ce n’erano tanti; e tuttavia il fatto che essi usassero attacchi suicidi e colpissero direttamente civili rendeva difficile ammettere che conducessero una guerra.

Quando, negli anni settanta, sorsero movimenti comunisti armati nel mondo capitalistico, la sinistra legittimista, che aveva rinunciato all’idea della rivoluzione violenta, era contraria ad ammettere che gli stati fossero in guerra contro quei movimenti e che questi fossero assimilabili a movimenti di liberazione o a una rivoluzione, quale si immaginava nella letteratura comunista. Dichiarare guerra ai movimenti comunisti armati avrebbe comportato il loro riconoscimento, mentre bisognava considerare le loro imprese come dei crimini, da perseguire con la giustizia ordinaria, per evitare che qualcuno vi scorgesse l’avvio della rivoluzione proletaria. Ci furono casi paradossali: in Italia i partiti dell’”arco costituzionale” (come si diceva allora) si sforzavano di presentare Brigate Rosse e simili come trasgressori delle leggi penali, da processare e condannare in tribunale, introducendo magari la pena di morte, come chiedeva un repubblicano liberale quale era Ugo La Malfa, mentre il presidente della repubblica, Sandro Pertini, non si stancava di dire che il paese era in guerra. Il modo più semplice per chiudere la questione era dichiarare che le imprese di quei movimenti erano forme di terrorismo.

Sotto l’etichetta del terrorismo sono stati collocati fenomeni diversi tra loro. Nell’Europa degli anni settanta, e particolarmente in Italia, si sono considerate terroristiche le imprese di movimenti di destra e di sinistra. Ma c’erano delle differenze, perché, oltre agli assassinii mirati, la destra (e forse non soltanto la destra, ma anche servizi segreti nazionali e non) colpiva in modo indiscriminato, per creare una situazione in cui i governi dovessero intervenire con mezzi straordinari, mentre la sinistra colpiva persone che considerava nemiche, “nemiche di classe”. Il terrorismo comunista era più vicino a quello palestinese, nel senso che agiva contro un nemico, anche se non aveva per nemico un popolo intero e non usava attacchi suicidi. Anche il terrorismo islamico, che ha un’impostazione simile a quella dei palestinesi, si dirige contro quelli che vengono considerati nemici, sia che si tratti di conflitti interni al mondo islamico, in cui sunniti e sciiti si combattono tra loro, sia che si tratti di azioni contro quelli che vengono considerati “crociati” o “infedeli”. Negli attentati possono essere colpiti anche correligionari, ma il loro numero è ridotto e comunque solo questi possono essere considerati danni collaterali. Da tutto ciò derivano conseguenze paradossali: quello di destra è, per il suo carattere indiscriminato, l’unico vero terrorismo, con danni collaterali massimi, mentre i movimenti comunisti armati e quelli islamici sono atti rivoluzionari o di guerra, senza danni collaterali, perché rivolti contro nemici ben individuati.

L’etichetta generica di terrorismo ha coperto dunque realtà diverse tra loro, che hanno in comune la scelta di armi e nemici non convenzionali. Parlando di terrorismo, si è cercato di evitare la questione se quella condotta dagli islamici sia una vera guerra, una questione cui vengono date risposte ideologiche. Da sinistra si evita di ammettere che si tratti di guerra, perché non si vuole giustificare una risposta bellica al terrorismo islamico; e comunque, se quella condotta dal terrorismo islamico fosse una guerra, si tratterebbe della risposta alla guerra scatenata in origine dagli occidentali, ai quali spetta di porre fine al terrorismo, smettendo di condurre aggressioni e magari abolendo formalmente la guerra, una cosa possibile, visto che solo l’occidente scatena le guerre. Da destra si sostiene invece che l’islamismo ha posto l’occidente in stato di guerra e l’occidente deve difendersi, come aveva fatto intervenendo in Afganistan e in Iraq, magari con qualche eccesso inopportuno di prevenzione. Sotto lo scontro ideologico su guerra sì o guerra no si è nascosta la difficoltà di inquadrare i conflitti asimmetrici che hanno come obiettivo popolazioni e non corpi militari specifici. È così non si è colto il fatto che, contrariamente a ciò che ci si attende, certe forme di terrorismo, come quello islamico, non hanno danni collaterali, o almeno danni collaterali quali di solito vengono immaginati.

Eppure danni collaterali del terrorismo islamico o (se si preferisce) della resistenza musulmana contro l’aggressione imperialistica occidentale potrebbero esserci, anche se potrebbe essere difficile coglierli, perché non si tratta di eventi di natura materiale. Dopo l’11 settembre 2001 si costituì un ampio consenso intorno alla risposta militare americana e il mondo occidentale si sentì autorizzato a intervenire, per abbattere regimi pericolosi, nei quali il terrorismo trovava appoggio. Dopo l’attentato a Charlie Ebdo c’è stata in Europa un’ampia solidarietà a chi lavorava in un giornale molto particolare, noto per le sue posizioni radicali e tuttavia non ispirato a una particolare ideologia. Ci sono state manifestazioni, alle quali hanno preso parte persone che non condividevano affatto le posizioni del giornale o addirittura le disapprovavano, ma le convinzioni forti venivano messe da parte, per difendere una libertà che per molti non era neppure la cosa più importante. Dopo il successivo attentato di Parigi, quando la popolazione è sembrata paralizzata dal terrore, si è raccomandato di continuare la “vita normale”, di muoversi liberamente nelle città, di divertirsi, senza mortificare il gusto per il proprio stile individuale di vita. Ma lo spirito della reazione all’attentato a Charlie Ebdo non è stato ricuperato. In fondo Charlie Ebdo e un mercato ebraico erano stati obiettivi limitati e mostrare solidarietà con le persone colpite in quell’occasione era parso un atto generoso di chi un po’ si sentiva al sicuro, un’illusione dissolta dal successivo attentato parigino contro locali pubblici e gente qualunque. Mentre emergeva la paura si sono sentite esortazioni a rispondere in nome dei valori fondanti della nostra civiltà.

E qui sono venuti alla luce i danni collaterali prodotti dal terrorismo islamico. Si è rafforzata un’immagine del mondo islamico, già presente nel dibattito pubblico, priva di sfumature, dominata dall’idea che esso sia un mondo fortemente uniforme, in cui potere politico e potere religioso coincidono e gli individui sono soggetti a rigide regole di vita, che agiscono su tutti gli aspetti della vita pubblica e privata. Con queste semplificazioni si sono cancellate le differenze interne al mondo islamico, in cui istituzioni religiose e istituzioni politiche sono sì strettamente connesse, ma non in modo uniforme. Nella sua lunga storia l’Islam ha conosciuto fasi diverse: non sempre è stato animato da forti conflitti con ebraismo e cristianesimo e si è spesso aperto ai “valori occidentali”. L’integralismo islamico successivo alla Seconda Guerra Mondiale non è tutto endogeno ed è stato influenzato dalle ideologie integralistiche occidentali, nazionaliste o socialiste. Ma non si può neppure dire che il colonialismo abbia di per sé introdotto in quel mondo guerre che altrimenti non avrebbe conosciuto: le occupazioni coloniali sono state violente, ma hanno anche posto un freno alle guerre endemiche e hanno favorito assorbimenti culturali.

Nell’immagine semplificata dell’islamismo la persistenza di modi di vita che producono la separazione e l’isolamento dei gruppi musulmani, quali possono essere le relazioni familiari, la condizione delle donne o le regole alimentari, è stata ricondotta a valori interni, ai quali è stata attribuita la stessa tenacia dei comportamenti esterni, senza tener conto del fatto che modi di pensare e atteggiamenti mentali si sono dimostrati assai più plastici delle regole sociali. Queste ultime si sono infatti conservate anche quando nella cultura islamica sono penetrate ideologie nazionaliste e comuniste. Ed erano regole neppure originariamente islamiche, che l’islamismo ha ereditato ma anche, in parte, corretto. La connessione rigida tra questi aspetti, che costituiscono la “cintura esterna” del mondo islamico, e i suoi valori religiosi “interni” ha generato l’immagine fortemente unitaria dell’islamismo, suscitando il bisogno di un’immagine altrettanto forte delle società occidentali, nelle quali i comportamenti “esterni” dovrebbero essere ricondotti a valori profondi, indebitamente censurati.

Cose come la separazione della sfera religiosa da quella politica, i rapporti familiari, l’emancipazione femminile, la libertà alimentare, che differenziano le società occidentali da quelle musulmane, non si sono introdotti per l’azione di valori né sono riconducibili a valori uniformi. La separazione tra le due sfere non era affatto praticata nell’ebraismo, che ha dovuto accettarla quando si è diffuso fuori della Giudea. Già qui esso aveva subito l’ellenizzazione imposta dai Seleucidi, ma poi, nell’impero romano, per restar fedeli all’intransigenza religiosa, che impediva loro di venire a patti con altre istituzioni religiose e di riconoscere altri templi, che non fossero quello di Gerusalemme, reale o presente nel ricordo, gli ebrei dovettero rassegnarsi a vivere in un mondo retto da un’autorità che non faceva rispettare i loro tabù, ma non pretendeva di intervenire nella loro religione, se non marginalmente. Così le istituzioni sociali e politiche dell’impero romano, spogliate del valore religioso, che in origine avevano, potevano essere accettate dagli ebrei e dai cristiani. Del resto l’ellenizzazione e la romanizzazione della Palestina avevano indotto modi di vita che erano violazioni di tabù tradizionali e che acquistavano gradualmente l’aspetto di trasgressioni di precetti puramente religiosi. La fedeltà alle norme religiose, l’osservanza delle regole della purezza nei rapporti con le donne, il rispetto dei tabù alimentari ecc. potevano essere oggetto di raccomandazioni, perfino con maniere forti, ma si collocavano in una sfera diversa da quella politica. Attingendo alla letteratura filosofica, gli scrittori cristiani collocavano nella morale i costumi ai quali ci si sarebbe dovuti attenere, per salvarsi in una società corrotta. Sia la cultura ebraica sia la tradizione filosofica hanno finito con il concepire la morale come una legge, migliore delle leggi umane, dalla quale le società si sono via via allontanate. Accanto alle ragioni mitiche delle regole e delle istituzioni politiche, attinte a miti e storie delle popolazioni del mondo ellenizzato e di quello romano, emergeva anche, sia pure in forma minore, la tendenza a giustificare, nelle società corrotte, i comportamenti in base alla loro compatibilità reciproca e alla loro capacità di ridurre i danni che i membri di una società possono arrecarsi a vicenda. Mentre nella sfera religiosa e in quella morale si collocavano restrizioni e doveri, in quella profana crescevano le zone di compatibilità tra comportamenti, un fenomeno spesso presentato come una forma di corruzione e scadimento. Ma qui le imposizioni religiose e morali perdevano la loro presa e i comportamenti subivano dei contagi.

Quando l’idea, un po’ ebraica e un po’ foggiata dai filosofi antichi, che al di sopra di istituzioni e leggi umane ci fosse una legge naturale unica per tutti, è stata messa in dubbio, con il rifiuto del giusnaturalismo, storici, sociologi e antropologi si sono messi a cercare qualcosa di simile alla vecchia legge naturale, qualcosa che magari fosse differente per luoghi e tempi, ma che si collocasse al di là di costumi, leggi, credenze, comportamenti ecc. Così si è preso a parlare di valori. Forse nelle società progredite, sotto la coltre di istituzioni di superficie, è difficile coglierli, ma si è pensato che nelle società primitive essi si vedano bene. Gli antropologi culturali hanno pensato di avere trovato in quelle società la chiave per spiegare anche le società secondarie, in alternativa alle pretese degli scienziati sociali, primi fra tutti gli economisti, i quali credevano di aver capito che ai comportamenti umani si possono applicare i principi di equilibrio e conservazione, con i quali si costruiscono di solito le spiegazioni scientifiche. I valori dovevano dunque fornire le ragioni profonde e unitarie di comportamenti che potevano apparire disorganici, generati da motivazioni diverse, frutto di decadimenti di modelli originari, di compromessi e di contagi.

I valori avevano fatto irruzione nella discussione pubblica europea recente quando si era preso a parlare di una costituzione dell’Unione, un’iniziativa arenatasi su un voluminoso documento, in cui si era voluto mettere di tutto, ottenendo il risultato di scontentare quasi tutti. Un punto su cui si era bloccata la discussione era stato il richiamo alle “radici cristiane dell’Europa”. Già allora si era osservato che l’Europa ha molte radici, ma soprattutto era emersa la resistenza di una società secolarizzata, in cui le persone non intendevano veder le proprie scelte poste sotto una cifra religiosa. Dopo l’irruzione del terrorismo islamico in Francia è sembrato che il clima fosse cambiato e che, di fronte a un mondo islamico forte dei propri principi religiosi e consapevole dei propri valori, gli europei dovessero mostrare di avere, anche loro, valori religiosi, da esibire con simboli appropriati. Era una seconda occasione per tornare sulle radici cristiane, questa volta in modo più brutale di quello usato dai costituzionalisti: accanto a entità un po’ misteriose e impalpabili, come i valori, sono comparsi simboli materiali e alla buona, come il presepe. Il presepe aveva perso il proprio valore simbolico forte: da un lato era caduto in disuso, di fronte all’albero di Natale, guardato con sospetto dal cattolicesimo tradizionale, ma diventato di moda; dall'altro si era trasformato in una specie di giocattolo, in cui i bambini cercavano l’arrotino che fa girare la mola o la cascata d’acqua, più che Gesù bambino. Senza polemiche, esso era uscito dagli spazi pubblici e nelle scuole pubbliche di solito non lo si faceva.

Modesto, forse, ma il ritorno del presepe nello spazio pubblico è stato un danno collaterale del terrorismo islamico. Il presepe era però la materializzazione di qualcosa di più ampio, cioè del tentativo di mettere sotto il segno di valori uniformi i modi di vita nei quali, con la reazione all’attentato a Charlie Hebdo, la gente si era riconosciuta, modi di vita non condivisi e non accettati da tutti, ma che non si volevano repressi o minacciati. Rispetto a tutto ciò il presepe e i valori, che esso si tirava dietro, anziché unire, dividevano, perché erano cittadini europei a non volere il presepe nella scuole, e non soltanto per rispetto a islamici o ebrei, ma perché non intendevano subire l’imposizione di simboli religiosi negli spazi pubblici. Sembrava una cosa semplice e di buon senso la richiesta che chi chiede ospitalità in una società si impegni a rispettarne i valori; ma se gli europei, gli eredi delle radici cristiane, dovessero sciorinare i propri valori, sarebbero tutti d’accordo? Non si avrebbe l’impressione che, con la scusa dei musulmani, cristiani caritatevoli e teneri, alla Salvini per esempio, cercherebbero di imporre il loro ruvido cristianesimo a chi alle radici cristiane non piace sentirsi ancorato? E poi, se accogliamo qualcuno, che oltre tutto è così cortese da aspettare che ci mettiamo d’accordo sulla nostra carta dei valori per firmarla, non dovremmo anche noi impegnarci a rispettare i suoi valori? E ci dirà lui quali sono, magari litigando con i suoi compagni di viaggio? Oppure saremo noi a dire quali sono i loro valori? Le strade alternative dell’accoglienza, rappresentate dall’integrazione e dal riconoscimento, sono sempre state difficili da inquadrare, perché si configurano come imposizioni di valori, i nostri nell’integrazione, quelli altrui nel riconoscimento, senza che ci sia accordo neppure sui valori elementari in questione.

C’è tutta una letteratura, cara a filosofi, sociologi, antropologi, giuristi, per la quale i valori sono trasparenti, generano condotte e permettono di capire comportamenti. In questa impostazione le azioni esterne, osservabili, non sarebbero comprensibili se non alla luce dei valori che le ispirano. Le azioni sono il luogo opaco dei compromessi, degli interessi e delle concessioni, mentre i valori, oggetto di fedeltà, rimangono integri e si salvano dalle insidie delle circostanze fattuali. Spesso, anche nei dibattiti intraculturali europei, soprattutto su temi connessi a credenze religiose, si è sentito dire che i valori non si negoziano. Quasi sempre questa clausola è stata intesa non come un modo per respingere la pretesa degli altri di far deflettere qualcuno dai propri valori, ma come la pretesa che altri non tengano le condotte che qualcuno ritiene lesive dei propri valori. E spesso si è tirata in ballo la coscienza, custode dell’integrità personale, quella per la quale non valgono, neppure per gli aedi del vincolo di mandato, gli impegni pubblicamente presi dagli eletti nei confronti degli elettori. Filosofi e teologi hanno considerato la coscienza il regno della luce e delle certezze, mentre chiunque abbia un po’ di pratica di ciò che si intende per coscienza sa che essa è soprattutto ombra e ambiguità. Scendere nella propria coscienza è un’impresa sgradevole, come andare in cantina; figurarsi scendere in quella degli altri! E gran parte delle ombre sono proiettate dai valori, che sono oggetti indiretti, sottratti allo sguardo, tutt'al più supposti. I valori sono maschere che si indossano e che ci vengono poste sul volto, modi nei quali vogliamo essere visti e altri ci vedono. Possono perfino servire a prevedere le condotte, non perché siano oggetto di fedeltà e generatori di condotte univoche, ma soltanto come poli, intorno ai quali ruotano le infedeltà di chi agisce.

Indipendentemente dal terrorismo, proprio mentre si discuteva sulle cose da fare o non fare di fronte alla minaccia islamista, in Italia si è accesa la discussione sulle adozioni. E dire che noi una carta dei valori a uso interno dovremmo averla con la nostra “costituzione più bella del mondo”. Eppure proprio questa ha dato vita a una ricca schiera di costituzionalisti, che spesso sembrano predicatori più che giuristi e che mettono in quel documento i valori più diversi, perché i valori sono fatti così, per dividere. Nella disputa sulle adozioni, quelli che non considerano la nostra carta la costituzione più bella del mondo, perché vi scorgono la mano dei comunisti, si sono però richiamati a essa, alle molte cose che vi hanno messo i cattolici, per negare alle coppie omosessuali la possibilità di adottare bambini. E l’autorevole rappresentante di un partito (pardon, un movimento) che compare sempre con la faccia minacciosa dell’atleta morale, che cosa ha proposto? Che si faccia un referendum. Così la maggioranza imporrebbe a tutti i comportamenti che essa gradisce, vietando quelli che ritiene disdicevoli, senza tener conto della possibilità che linee di condotta diverse possano convivere. L’autore di questa proposta è esponente (direttore) di un movimento che pretende di perseguire la democrazia più pura, addirittura elettronica, garantita da un imprenditore del settore; ma non c’è nulla di peggio di una democrazia etica che, per tenere in ordine l’anarchia dei valori, si fa democrazia autoritaria.

Quella che non si è fatta sentire nella discussione scatenata dal terrorismo è stata la cultura laicista, come se sentisse nell’aria l’accusa di essere debole, attestata sulla difesa della libertà e dei diritti, cose che possono indurre a indebite concessioni. Perfino l’appello alla ragione, caro a tanti paladini della laicità, poteva sembrare troppo freddo, quando si invocavano valori da non tradire e simboli da esibire. Il vecchio tormento della “marcia in più” di chi può brandire croci e costruire presepi era sempre pronto a rispuntare. Eppure gli attentati islamisti sembravano segnalare il fallimento dei progetti di integrazione, cioè di assorbimento, almeno parziale, delle altre culture nella cultura dominata dai valori cristiani, e di riconoscimento, che avevano costituito la sfida più sofisticata al laicismo liberale, perché partivano dall’idea che non soltanto si dovessero conservare e rispettare le culture “altre” nella loro originalità e integralità, ma che si dovesse ammettere l’insufficienza delle culture liberali nella loro pretesa di offrire modelli universali.

C’era un’esperienza cui il laicismo poteva richiamarsi, ed era la secolarizzazione. In questo processo i modi di vita delle persone sono cambiati, i seguaci delle fedi religiose hanno abbandonato le regole imposte dalle comunità di appartenenza e si sono delineate aree nelle quali le persone potevano adottare le condotte più diverse. Ciò non ha portato a una sconfessione esplicita di credenze o valori religiosi, ché credenze e valori hanno trovato modo di convivere con costumi apparentemente dissonanti, attraverso i compromessi più diversi, ma senza bisogno di grandi elaborazioni. Ciò ha di fatto indebolito le autorità religiose, togliendo ascolto alle loro indicazioni e privandole della base necessaria per esercitare la coercizione. Questo fatto ha diminuito anche la forza delle comunità religiose, che non potevano più chiedere privilegi ai politici, vantando la capacità di influire sui comportamenti delle persone. Si è così ampliato il ventaglio dei comportamenti pubblicamente praticabili, è cresciuta la libertà degli individui di fronte alle agenzie che si propongono di imporre comportamenti e si è indebolita la pretesa di ottenere leggi che impedissero la pratica di cose che qualcuno ritiene esecrabili dal punto di vista morale o religioso. La discordanza tra comportamenti e valori ha contribuito a collocare i valori in sfere più interne, nelle quali c’è maggiore elasticità, si può negoziare e far compromessi, fingere; soprattutto si può accettare di vivere con persone che fanno cose che si disapprovano.

Secolarizzazione e contagio aprono forse prospettive più realistiche su ciò che ci si può attendere dai flussi migratori. Integrazione e riconoscimento sembrano essere impostazioni essenzialmente difensive, volte a conservare la nostra cultura, assorbendo in essa le culture diverse o isolandole. I flussi migratori cambieranno anche le società verso le quali sono diretti. Sono queste le cose che incutono paura e che non si vogliono ammettere; e il terrorismo è una cortina dietro la quale si rifugiano gli assediati e gli invasori. Il terrorismo provoca i danni diretti, che intende infliggere, colpendo nemici e infedeli, ma provoca danni indiretti negli altri, inducendoli a costruire maschere di se stessi e degli invasori, che generano paura e rifiuto. Di fronte alle prospettive migratorie, che diventeranno più ampie e che sarà difficile contenere con muri e soldati, c’è da augurarsi che crescano le aree nelle quali comportamenti differenti possano convivere. I valori possono esprimersi in prediche e condanne morali, mentre le condotte si collocano le une accanto alle altre, sopportandosi.

C’è da augurarsi che, per affrontare i problemi posti dalla convivenza di genti diverse non si prendano sul serio le pretese di essere difesi dalle offese morali, delle quali qualcuno si sente vittima. Nella sfera morale c’è di tutto, i danni effettivi ai quali le persone sono esposte e quelli che esse pensano di subire, quando altri seguono condotte alle quali non sono abituate, che urtano quella che appunto chiamano “sensibilità morale”. Questa espressione avrebbe fatto inorridire Kant, il quale faceva della morale una faccenda non di sensibilità, ma di razionalità, la sola capace di correggere “il legno storto”, di cui sono fatti gli uomini. Kant si faceva molte illusioni, perché nella morale razionale, da lui intesa come una legge universale, valida per tutta l’umanità, cresce proprio il legno storto e prendono l’aspetto di mali le cose che non si sopportano negli altri, e forse neppure in se stessi, ma che si vogliono represse se fatte dagli altri. E in quella sfera i danni veri, le violenze e i dolori, appaiono modesti, subordinati ai “danni morali”, per evitare i quali spesso si dice che si possono infliggere danni materiali. Se le società diventano complicate, c’è da augurarsi che aumenti la disponibilità a soffrire danni morali, ma senza pretendere che qualcuno li impedisca infliggendo danni materiali.

(23 marzo 2016)

Da - http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/03/23/i-danni-collaterali-del-terrorismo-inquinamento-da-valori/
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